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Autore: Roberto Turati    10/07/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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«Molto interessante!» esclamava a bassa voce Rockwell, guardando al microscopio una goccia di Elemento liquido.

«Cosa?» chiese nervosamente Jack, mentre guardava ossessivamente fuori dalla piccola finestra della tenda sperando che nessuno si avvicinasse proprio in quel momento.

«Allo stato solido, l’edmundio presenta ogni singola proprietà tipica dei metalli, in due parole è un nuovo tipo di metallo... metallo che, tuttavia, è composto da biomolecole. Un metallo organico, per così dire! Inoltre, esaminandolo in forma fluida, ho scoperto che contiene... ife fungine!»

«Come? Quindi quel metallo è "vivo" e contiene un fungo?»

«Apparentemente. Una simbiosi che non riesco affatto a spiegarmi... la cosa più simile che mi viene in mente sono i licheni, dal momento che sono l'unione simbiotica tra un'alga e un fungo, ma un micete e un "metallo organico"? Non immaginavo che potesse esistere qualcosa del genere, in natura! In ogni caso, adesso che ci rifletto bene, avremmo dovuto aspettarcelo: ci avevano detto che fu trovato… no, che sarà trovato grazie ad un fossile»

«Oh… vuol dire che è esistita una sorta di fungo con un guscio di metallo o qualcosa di simile?»

«A quanto pare è così, giovanotto, a quanto pare è così»

«Fatico ad immaginarlo»

«Anch’io, ma non esiterei a ritenere che il proprietario di quel fossile sia paragonabile ad una divinità»

«Non le sembra una leggera esagerazione?»

«Non direi: guarda cos’ha costruito la società di questi soldati con questo materiale! Però continuo a non capire cosa possa avere di tanto rischioso da essere quasi proibito parlarne. Dopotutto, sembrano averne un buon controllo, anche a livelli industriali…»

«Come ho detto, sarà per buone ragioni»

«Io, nel frattempo, analizzo un campione più grande»

Il farmacista fece prese un’altra fiala e, stando molto attento a non sporcarsi le dita, la riempì per meno di metà. Ma, mentre la solleveva per portarla al microscopio, gli scivolò e il liquido viola si riversò sull’erba, vicino al limite della tenda.

«Oh, maledizione!» esclamò Rockwell.

«La aiuto a sistemare?»

«Si, grazie»

Jack si mosse, ma si immobilizzò appena vide che stava succedendo qualcosa che non era per niente normale dove l’Elemento aveva bagnato l’erba: i fili verdi assorbirono il liquido in meno di un secondo, passarono alcuni istanti e cominciarono a ondeggiare, come alghe mosse dalla corrente di un fiume. Poi, lentamente, iniziarono ad attorcigliarsi fra loro sotto lo sguardo attonito del medico e del ragazzo. Alla fine, si trasformarono in un’unica, strana pianta alta una trentina di centimetri, con un gambo verde suro e nodoso, attraversato da una rete di capillari fosforescenti che pulsavano di una luce violetta. Era costellato da grosse spine gialle, a loro volta cosparse di minuscole punte bianche. Questo gambo, più contorto di un bonsai, terminava con un bellissimo fiore rosso, la cui corolla aveva un diametro lungo come una mano. I suoi dieci petali avevano la forma del seme di picche e il centro del fiore era un buco da cui usciva un lungo e sottile stelo con attaccati degli stami attorno ad un pistillo, come nell’ibisco. Il polline appiccicato agli stami era viola e luminoso.

«Mio Dio, cos’è quello?! – sobbalzò Jack, meravigliato e inorridito allo stesso tempo – Un fiore mutante… è un disastro! Se qualcuno entra qui e vede quella cosa, siamo fuori! – si mise le mani nei capelli e cominciò a camminare freneticamente avanti e indietro, disperato – Prima mi tocca stare qui, poi Laura viene presa dall’uomo con la bombetta e adesso devo anche guardare dell’erba diventare un fiore gigante! E credevo pure che dopo i soldati dal futuro su un’isola di animali preistorici fosse tutto…»

«Una reazione biologica che ha causato un drastico cambiamento nella struttura fisica…» ragionava invece Rockwell, estasiato come mai prima di allora.

«Sì, è quello che è successo – nonostante il nervosismo, Jack non poté fare a meno di fare una riflessione sulla scoperta – Crede che sia per questo che la Terra nel 2150 è diventata un brutto posto? Perché l'Elemento fa mutare quello che tocca, da liquido?»

«Potrebbe essere… se quel che ci vogliono nascondere e che è illegale da trattare nella loro epoca è questa proprietà dell’edmundio… posso dire con certezza che sono tutti ciechi!»

«Perché?»

«Ti rendi conto che questo ciuffo d’erba ha appena subìto un cambiamento fisico che l’ha reso più complesso, potenzialmente in grado di svolgere nuove funzioni e, soprattutto, molto migliore?»

«Ha appena definito l’evoluzione»

«Infatti, ragazzo! L’evoluzione, il processo che dobbiamo ringraziare se la biosfera non è ancora composta da minuscoli essere unicellulari capaci solo di muoversi, fagocitare ogni nutriente che trovano e duplicarsi! Ci sono sempre voluti milioni di anni di tentativi falliti e di competizione accanita per innescarla, ma questa sostanza l’ha trasformata in una questione di istanti! Posso solo immaginare l’incredibile progresso che l’umanità farebbe…» gli occhi di Rockwell scintillavano, praticamente.

«Magari lo sanno e hanno già provato, e questo ha portato alla devastazione di cui parlano! E poi, scusi, questo TEK gli ha già fatto fare un progressone: guardi che tecnologia!»

«Uhm… vedendo l’intelligenza che hanno dimostrato finora, ne dubito fortemente. In quanto alla tua seconda ipotesi… può darsi, ma in ogni caso, hanno esplorato solo la punta di un enorme iceberg! Ho deciso: scoprirò di più su questa proprietà dell’edmundio fluido! E tu, Jack, mi aiuterai!»

«Oddio, siamo rovinati…»

«Dunque, facciamo un passo alla volta… abbiamo avuto un assaggio di cosa succede ad un vegetale erbaceo, ma cosa può succedere ad un animale? Ci serve un soggetto facile da prendere, ma che ci permetta di agire in segreto… qui hanno parecchi esemplari, non dovrebbe essere complicato!»

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Dopo la disfatta al Labirinto di Gole, Drof e Odranreb avevano ripreso la ricerca. Gnul e il suo socio erano bravi a coprire le tracce e gli odori, tanto da mettere in difficoltà cacciatori espertissimi come i due cugini. Ma, alla fine, le cavalcature avevano idividuato una pista. Seguendola, avevano attraversato l’Etnorehca e si erano addentrati nella foresta di sequoie, posto che Anitteb non gradiva particolarmente per quanto era accidentato: gli spazi fra un abete gigante e l’altro erano enormi, ma di contro era pieno di cespugli spinosi, sequoie novelle alte quanto il giganotosauro e molto vicine fra loro e tronchi caduti: mentre le bestie di taglia piccola e media marciavano agilmente nel sottobosco, lei era costretta a sopportare il solletico che le facevano le fronde basse e a scavalcare molto attentamente i trochi lunghi distesi per terra, siccome avrebbe impiegato troppo per aggirarli. A lungo andare, quel tipo di viaggio la faceva innervosire; per cui, Odranreb acconsentiva a lasciarla sfogare appena si presentava l’occasione. Per esempio, le permise di divorare una coppia di allosauri che erano stati così folli da sfidarla. Alla fine, erano giunti a quello che indubbiamente era il nascondiglio attuale di Gnul e Sotark: l’ingresso di una piccola caverna accanto ad una cascata, accanto ad un vecchissimo vialone in pietra dei Pre-Arkiani, che manteneva la sua aria di pomposità originaria anche in rovina. A confermare la presenza del loro bersaglio c’erano alcune grosse cavalcature sellate che dormivano in semicerchio, dal momento che ormai era sera: evidentemente, erano quelle che non avevano potuto entrare.

«Bene, nascondiamo gli animali e vediamo di pensare ad un buon piano...» suggerì Drof.

«Ci penso io. Tu trova un buon punto per spiare la caverna!» rispose Odranreb.

Drof, scelto un albero abbastanza robusto e con una fronda sufficientemente fitta, ci si arrampicò dopo aver controllato che non ci fosse un tilacoleo o un microraptor in agguato. Osservò bene l’ambiente intorno al nascondiglio col cannocchiale: gli sembrava di riconoscere quel posto. Tra le molte volte che aveva cacciato o raccolto materiali nelle foresta di sequoie, ricordava di aver setacciato una piccola caverna a corridoio diramato con un’uscita al lato opposto dell’entrata.

«Più a Nord c’è un altro ingresso» affermò.

«Ho già capito: vuoi che io entri da un lato e tu dall’altro?»

«Già»

«Cosa facciamo con le bestie?»

«Vorrei sempre stare furtivo, quindi a meno che non siamo individuati evitiamo di portale là dentro»

«Credo di non aver capito. Pensi davvero di non farti vedere dalla miriade di creature che certamente stanno lì dentro? Come?»

Drof frugò nella sacca e tirò fuori un vasetto da cui usciva, anche se era tappato, un odore salato.

«Olezzo del sopravvissuto? Credevo che fossi un tradizionalista» scherzò Odranreb, ridacchiando.

«Non lo sono più da un sacco di tempo. Da parte sua, Gnul-Iat non giocherà certo pulito, del resto»

«Non ne dubito»

Quindi se ne cosparsero e si accordarono sul da farsi: Drof sarebbe entrato dall’ingresso che stavano osservando in quel momento, cercando di non farsi vedere dalle bestie, mentre Odranreb avrebbe usato il retro. Se la copertura fosse saltata, avrebbero cercato di spostare la battaglia all’esterno per far scontrare i due contingenti, in modo da poter affrontare personalmente Gnul e Sotark mentre le bestie si scansavano a vicenda.

«Buona fortuna, cugino!» si augurarono l’un l’altro.

Drof aspettò che Odranreb svanisse alla vista, quindi cominciò a muoversi. Di fronte alla grotta c’erano un tirannosauro che dormiva, tre kentrosauri adunati in cerchio e un megalosauro che andava avanti e indietro, guardingo. Quest’ultimo era il più difficile da evitare, essendo notte, ma il padre di Acceber sapeva già come levarlo di mezzo. Stando attento a rimanere fuori dai loro campi visivi e a non fare rumori che si distinguessero dal brusio di sottofondo della foresta, raggiunse una roccia al limite dello spiazzo fra il fiume e la caverna, dove c’erano le creature. L’olezzo del sopravvissuto era una miscela organica di colore arancione che aveva un odore abbastanza pungente per l’uomo, ma del tutto irrintracciabile per gli animali. Inoltre, copriva del tutto gli altri odori che una persona aveva addosso. Attese pazientemente che il megalosauro andasse il più lontano possibile da lui. Non poteva passare tutta la notte pattugliando, prima o poi avrebbe dovuto mangiare o bere o rispondere a qualche stimolo. Infatti, una decina di minuti dopo, il sauro andò al fiume a dissetarsi. Senza perdere un istante, Drof sgattaiolò dentro.

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Gnul finì di riempire le piccole mangiatoie che usava per gli spostamenti e guidò le creature nella caverna affinché condividessero equamente le casse di cibo. Finito ciò, prese con sé un’artropleura e, facendosi seguire da essa, raggiunse la stanza dove aveva lasciato gli ostaggi del giorno: si trattava di cinque quattordicenni o quindicenni, tre ragazzi e due ragazze, che aveva avvistato nella foresta quella mattina, mentre raccoglieva legna. Avendo fortemente bisogno di uno sfogo per alleggerire la rabbia per la fuga di Acceber, aveva pensato bene di assaltarli, legarli mani e piedi, imbavagliarli e gettarli lì, al freddo e al buio. Era stato facilissimo: non avendo ancora diciotto anni, non avevano bestie e probabilmente erano soli nella natura selvaggia solo per svolgere qualche commissione basilare, come raccogliere risorse o dare la caccia a piccole bestiole. E, ora che erano impotenti ed impauriti, era pronto a macellarli a dovere... accese due torce a muro che aveva fissato quando erano arrivati alla caverna e illuminò la stanza. Gli ostaggi gemettero sudando freddo. Gnul li mise in riga con le spalle al muro e, mentre l’artropleura si arrotolava in un angolo, lui prese il suo strumento di tortura preferito, il falcetto, e poggiò la schiena alla parete, sghignazzando:

«Bene bene bene, cos’abbiamo qui? – cantilenò, più strafottente che poté – Carne fresca di seconda scelta! La buona notizia per voi è che vado matto per la carne fresca…»

I maschi lo guardarono furiosi e perplessi allo stesso tempo, mentre le femmine parvero terrorizzate. Gnul finse di star annusando l’aria:

«La cattiva notizia è che detesto quella di seconda scelta - finse di annusare l'aria - Bleh, schifo… ha un odore inconfondibile: sembra un misto fra pelle ammuffita e piscio di brontosauro, e mi fa ancora più ribrezzo del piscio stesso. Potrei togliervelo di dosso facendovi fare il bagno, ma preferisco di gran lunga una doccia di sangue!»

Si staccò dal muro e si avvicinò a loro, facendoli dimenare un po’.

«Dunque, ecco cosa faremo stasera… partite col presupposto che, fra dieci minuti, nessuno di voi sarà vivo. Ma potete fare in modo da andarvene con le buone o con le cattive! Ora io vi toglierò il bavaglio uno alla volta. Sappiate subito che, se griderete, non vi sentirà nessuno. Quando uno sarà libero di muovere il buco di latrina che chiama “bocca”, gli concederò di scambiare le sue ultime parole con me. Se mi starete simpatici, morirete con le buone. In caso contrario... avete capito»

Tolse il bavaglio al primo da sinistra, un ragazzo leggermente in sovrappeso che pareva più spaventato delle due ragazzine. Il piccolo strato di doppio mento che gli si vedeva vibrava per i brividi e Gnul doveva trattenersi per non mettersi a ridere, nel vederlo.

«Tu cosa mi dici? Scommetto che sei pentito di non esserti mai messo a dieta»

«Per favore, lasciaci andare! Non voglio morire, non sono pronto…» piagnucolò lui.

«Non mi piacciono le suppliche» commentò Gnul, improvvisamente serio.

Schioccò le dita e l’artropleura, veloce come un fulmine, si avventò sul giovane e gli divorò la pancia, sotto lo sguardo atterrito e traumatizzato dei suoi amici. Furono costretti a fissarlo morire dissanguato, quando l’artropode ebbe finito. Lo zampillo di sangue imbrattò la vittima accanto a lui.

«Che vi dicevo, eh? Doccia di sangue! Ah, quelle erano le cattive, a proposito. Tocca a te!»

Fu il turno di una delle due giovini, una ragazza così minuta e con la faccia così tonda che pareva più una bambina un po’ alta che un’adolescente.

«Non so cosa ho fatto di male per meritare questo, ma vorrei tanto dire a mia madre che avrei mantenuto la mia promessa…»

«Cioè?»

«Che sarei stata lontana dalla vita da cacciatore e che sarei diventata una ricamatrice, la migliore di ARK!»

«Oh, che tenera… ti sei guadagnata la morte con le buone»

La trascinò al centro della stanza tenendola per i capelli, eseguì un movimento fulmineo e preciso col falcetto e le recise la gola. Quando mollò la presa sulla sua testa, essa cadde flaccidamente in avanti. Le facce dei rimanenti tre ostaggi erano indescrivibili. Godendo più di una bestia, Gnul si parò davanti a loro, ma si rese conto con perplessità che stavano guardando un punto alle sue spalle. Si voltò appena in tempo per vedere suo padre che gli puntava un arco teso alla fronte, appena in tempo per schivare fulmineamente la freccia che Drof scagliò poco dopo.

«Merda!» esclamò Drof, provando a prendere un’altra freccia.

«Eh no, padre!» esclamò suo figlio, lanciandogli il falcetto.

Anche Drof si scansò ruotando i fianchi, ma si ritrovò comunque con un lungo taglio sul lato destro del collo. Era la seconda volta che schivava il falcetto di Gnul-Iat, ma questa volta c’era mancato veramente poco. Suo figlio portò due dita alla bocca ed emise un forte fischio.

«Questo sarà l’ultimo errore della tua vita, padre! Vediamo se saprai sfuggire ad una grotta piena di animali…» ghignò Gnul, prima di sgozzare sbrigativamente pure il resto degli ostaggi.

“Dannazione… se sbaglio qualcosa qui, è la fine!” pensò Drof.

L’artropleura gli fu addosso quasi subito, ma lui conosceva bene le parti da attaccare: capendo che il centopiedi gigante voleva sputare un getto del suo acido, lo superò con un’agile scivolata e usò l’accetta che portava assieme all’arco per decapitarlo. Un fiotto di liquido giallastro si cosparse sul pavimento, mentre l’insetto senza testa cadeva floscio per terra. Un lago corrosivo divise padre e figlio, impedendo a Gnul di attaccare. Drof cominciò subito a correre, ma un velociraptor gli si parò davanti, mettendosi in una posa di minaccia e sibilando. Drof mantenne la lucidità e usò il manico dell’ascia per parare il morso che seguì dopo, poi lo respinse con una spallata e sollevò l’accetta, conficcandone lo spigolo nel cranio piumato del velociraptor. Drof estrasse l’arma con non poca difficoltà e riprese a correre verso l’uscita. Davanti a lui apparve un carnotauro e dietro un calicoterio. Provocando il carnotauro con una serie di movimenti ampi e plateali delle braccia e della testa, lo indusse a caricarlo; schivando, gli fece infilzare il torace del bizzarro mammifero metà cavallo e metà scimmia. Un triceratopo particolarmente sonnolento non si era ancora messo in piedi, quindi superarlo fu molto facile. Finalmente fu all’ingresso, ma ora il megalosauro di prima era lì che lo aspettava. Ma Drof aveva un asso nella manica: lanciò l’ascia verso l’uscita, in modo che il teropode la seguisse con lo sguardo per riflesso automatico, quindi prese rapidamente l’arco e lo colpì alla gola, uno dei pochi punti davvero morbidi dei rettili. Fuori c’erano il tirannosauro e i tre kentrosauri, ma finalmente potevano dare inizio alla battaglia vera e propria. Emise un forte fischio; ci vollero pochissimi secondi perché dalla boscaglia emergessero i loro due contingenti, pronti a combattere. Mentre gli animali di Gnul-Iat uscivano uno alla volta o a coppie dalla caverna, il tirannosauro che stava di guardia fu sfidato da uno yutiranno. Coi suoi gridi fortissimi, il teropode delle nevi cominciò da subito a spaventare gli avversari piccoli e a deconcentrare quelli più grossi. Drof fu raggiunto da Onracoel, per niente disposto a combattere prima di riunirsi al suo padrone e compagno.

«Pronto a sbranare qualcosa, amico mio?» chiese Drof, balzando sulla sella.

Il carnotauro si passò la lingua sulle gengive.

«Lo immaginavo!»

La prima creatura che affrontarono fu un iguanodonte, che alla vista di Onracoel si alzò in piedi e tese in avanti gli artigli dei pollici, gridando a squarciagola. Il carnotauro ruggì in risposta e lo travolse con una cornata, poi gli afferrò il collo e lo soffocò. Strappò un boccone di carne e lo trangugiò frettolosamente prima che il suo padrone lo facesse tornare a lottare con un colpetto di talloni sui suoi fianchi. Andarono ad aiutare un paraceraterio che stava avendo difficoltà contro degli ienodonti, non riusciva infatti a schiacciarli e loro mordevano continuamente le sue caviglie. Lo yutiranno fu appoggiato da uno spinosauro, che lo aiutò a liberarsi del tirannosauro nemico. Poco dopo arrivò anche Odranreb, a cavallo del suo argentavis.

«E io che pensavo che sarei stato io a fare casino!» commentò, iniziando a bersagliare le bestie nemiche di frecce dall’alto.

«C’ero quasi! Quel bastardo è velocissimo a schivare»

Senza che se ne accorgessero, un pachicefalosauro caricò dalla destra di Onracoel e lo investì nel costato. Drof percepì lo scossone che risaliva il corpo della sua cavalcatura fino a lui, mentre il carnotauro ruggì di dolore e sorpresa prima di capovolgersi, facendo rotolare il padrone nel mezzo della mischia. Drof si alzò stordito e disorientato, nella confusione gli parve di sentire suo cugino che urlava:

«Schiva!»

Si accorse all’ultimo di una purlovia che gli balzava addosso. Drof fece in tempo a pararsi il viso con le braccia prima di essere placcato e buttato a terra. Lui e il mammifero scavatore rotolavano nella polvere, la purlovia cercava di raggiungere la faccia di Drof con artigli e zanne e l’uomo faceva il possibile per respingerlo, riempiendosi di graffi dappertutto. Prima che la purlovia penetrasse la sua guardia, Onracoel tornò e la infilzò con un affondo delle corna.

«Bravo, Onracoel! Bravissimo!» esclamò Drof, sconvolto e col cuore a mille.

A quel punto si accorse di un dettaglio importantissimo:

«Dov’è il giganotosauro? Pensavo di aver chiamato tutte le bestie!» chiese al cugino.

«Anitteb risponde solo a me. Ora ci penso io…»

Ma, all’improvviso, qualcuno dentro la caverna lanciò un sacchetto in cuoio con una fionda, colpendo la testa dell’argentavis. Un fittissimo banco di polvere formò una nuvola intorno al rapace, che non capì più niente e si mise a volteggiare a caso, finendo per schiantarsi col suo cavalcatore. Drof sentì la voce di Gnul:

«Voi due non vi muoverete da qui!»

Mentre la sua femmina di allosauro, l’unica bestia sellata del suo contingente, uccideva un deodonte, il figlio di Drof lanciò un altro sacchetto di polvere ai piedi del padre. Drof si ritrovò accecato, nel mezzo di un fumo bianco in cui non si vedeva ad un palmo dal naso. Onracoel, infastidito, sbuffava e indietreggiava per uscire dalla nuvola, lui provava ad allontanarsi a sua volta. Ma, di colpo, apparve Gnul… che gli tirò un potente calcio sui genitali. Il dolore fu immediato e lancinante, gli strappò un grido e lo fece finire seduto.

«Questo è per essere venuto ancora a rompere…» ringhiò Gnul.

Gli tirò poi un secondo calcio in faccia, mandandolo lungo disteso.

«E questo è per lo scherzo dell’acido» concluse.

La nuvola si dissolse e Gnul, sottratta l’accetta al padre, gli afferrò il bavero per tirarlo su e costringerlo a guardarlo negli occhi:

«Non è una bella sensazione, vero, padre? Ti eri così fissato con l’idea di ammazzarmi per salvare quella piccola demente, invece eccoti qua, che stai per fare la stessa fine che prima o poi riserverò a lei! Poetico, non trovi?»

«Fottiti»

«Prima tu»

Mentre il fumo svaniva, sollevò l’accetta. Ma, prima che sferrasse il colpo, Drof sollevò un piede e lo respinse con una pedata nello stomaco, quindi si alzò di scatto e lo colpì con una testata.

«Ti rifiuti ancora di crepare? Allora è un vizio di famiglia!» ringhiò Gnul, tenendosi una mano sulla fronte.

«Prego»

Drof riprese l’ascia e Gnul il falcetto. Iniziarono a girare in cerchio guardandosi in faccia, mentre le creature continuavano a combattere. Ma, prima che si buttassero l’uno sull’altro, sentirono un fischio: Odranreb, ancora disteso sotto l’argentavis con le ali rotte, aveva chiamato il giganotosauro.

«Oh, cazzo! Come ho potuto scordarmi di quello?» si chiese Gnul, ad alta voce.

Si sentirono passi pesantissimi e Anitteb apparve dal buio della foresta. Tutte le creature di entrambi i contingenti si congelarono sul posto e la guardarono. Il giganotosauro afferrò un allosauro per i fianchi e, sollevandolo come se non pesasse nulla, iniziò a sbatterlo ovunque e a sfregarlo sul pavimento, rompendo ogni osso che aveva in corpo. Si avvicinò allo stesso tirannosauro con cui lo yutiranno e lo spinosauro erano stati occupati e i due si spostarono prima che Anitteb scagliasse l’allosauro adosso all'altro, facendolo cadere.

«Se solo non avessi perso il mio in quella gola...» si lamentò il ragazzo.

Anitteb abbassò la testa e investì a capofitto un temerario rinoceronte lanoso che stava per attaccarla. Ormai le creature di Drof facevano prima a smettere di combattere e farsi da parte: in forze e combattiva com’era, Anitteb avrebbe potuto finirla in pochi minuti. Drof vide che Gnul era distratto e lo placcò. Tenendolo a terra, sollevò l’ascia e la sbattè giù con tutte le forze, ma suo figlio inclinò la testa e la lama si incastrò nel terreno. Rotolando, Gnul fece perdere l’equilibrio al padre e si preparò a fare lo stesso col suo falcetto… ma arrivò Onracoel e lo spinse via con una cornata. Gnul-Iat finì nel fiume e, purtroppo, il carnotauro l’aveva colpito con la fronte: le corna non erano riuscite a ferirlo. Così si rialzò stordito e pieno di graffi e lividi, ma piuttosto in forze.

«Ne ho anche per te, bello!» esclamò.

Ma percepì del movimento alle sue spalle e schivò Odranreb prima che gli tirasse un colpo di clava in testa. Ora i due cugini erano uniti e aiutati dal carnotauro, mentre Anitteb faceva piazza pulita di bestie nemiche. Drof riprese l’arco e provò a colpirlo, ma anche questa volta il colpo fu schivato. Sentirono sibilare e un titanoboa uscì dall’acqua, allargando il collare e sollevandosi ad altezza d’uomo. Subito, si buttò su Onracoel e lo azzannò alla spalla. Drof corse ad aiutarlo, mentre Odranreb si gettò ancora su Gnul-Iat. Fendette la clava mentre correva, ma il ragazzo si spostò di lato alla velocità della luce e allungò la gamba subito dopo, facendo lo sgambetto allo zio, che finì col naso tra i sassi.

«A quarant’anni hai le gambe di un vecchio? Non mangi abbastanza verdure, zio?» lo sfotté Gnul.

«Zitto, o ti ficco una carota in bocca!» esclamò Odranreb, alzandosi.

«C’è un altro buco molto più ad effetto, se ti intendi di battute non puoi non conoscerlo! Vuoi un esempio col mio falcetto?»

«Brutto insolente!»

In uno scatto d’ira, Odranreb provò a cogliere il nipote alla sprovvista lanciando la clava senza preavviso, ma Gnul la afferrò al volo, lasciandolo senza parole.

«Come ci riesci?!» nessuno dei due si capacitava di quanto fosse veloce.

«Ho sentito che abbattere dei velociraptor solo con un coltello fa bene ai riflessi e ci ho provato. Funziona, come vedi!»

Prima che Odranreb cercasse di buttarsi su di lui, Gnul lo raggiunse e gli tirò una ginocchiata nello stomaco, facendolo cadere di nuovo. Poi gli rifilò un destro sul naso, stordendolo del tutto. A Drof, che era finalmente riuscito a salvare Onracoel, parve di sentire il colpo fin dove si trovava. Quando si voltò a guardare, Gnul stava correndo dal suo allosauro, ancora impegnato ad irritare Anitteb. Si arrampicò su di lei e frugò in una sacca. Drof montò su Onracoel e si avvicinò in fretta, uccidendo un dilofosauro ostile con una freccia nel mentre. Il Ladro di Impianti tirò fuori una scatoletta di legno su cui c’era un’incisione dipinta di blu… quando Drof capì che era l’immagine di un fiore, sbiancò nel capire cosa voleva fare. Gnul aprì la scatola e, attendendo il momento giusto, la lanciò nella bocca di Anitteb appena ruggì. Il giganotosauro sbarrò gli occhi e cominciò a rigirarsi la lingua in bocca con aria disgustata.

“Oh, no...” pensò Drof, ordinando ad Onracoel di fermarsi.

Nell’ora che sarebbe seguita, qualunque cosa si muovesse attorno ad Anitteb sarebbe morta se non fosse scappata: Gnul-Iat le aveva fatto ingerire polline di fiore dell’ira, una pianta che se mangiata scatena una furia inarrestabile sia nelle persone, che negli animali.

«Addio, padre! Mi piacerebbe dire che meriti una degna sepoltura, ma sai… dubito che resterà qualcosa di te» Gnul fece un’ultima battuta cinica, prima di richiamare il suo intero contingente con un fischio e iniziare la fuga.

Drof sentì una violenta vampata d’ira salire dentro di lui. A momenti, era più arrabbiato lui di quanto lo sarebbe stata Anitteb di lì a poco. Aveva fallito per la terza volta. Neanche con l’aiuto di due branchi di cavalcature da battaglia aveva saputo liberare Acceber e l’isola dalla lurida presenza di quello che era suo figlio solo perché l’aveva generato. Era così furioso che gli parve di trovarsi nel deserto a mezzogiorno, stringeva i pugni con tale forza che gli si sbiancavano le nocche. E questo al pensiero che non avrebbe potuto inseguire Gnul: adesso doveva pensare solo a mettere in salvo se stesso, suo cugino e le creature. Anitteb non avrebbe più ascoltato nemmeno Odranreb: un giganotosauro in preda alla rabbia non apparteneva a nessuno, il suo unico pensiero era distruggere tutto e divorare ogni essere vivente incontrasse. Quando raggiunse il cugino, ancora mezzo svenuto, lo caricò frettolosamente sulla schiena di Onracoel e fischiò a sua volta per farsi seguire dalle loro bestie. Raggiunto il fronte boscoso, si fermò per accertarsi che tutti gli animali fossero presenti. Ne approfittò per guardare Anitteb da lontano: stava sbavando saliva rossa per il polline, le pupille erano dilatate del tutto e il respiro era affannoso. Cominciò a prendere a testate, zampate e codate rocce e cespugli e ruggiva ogni tre secondi, letteralmente. Drof scosse la testa e promise a bassa voce che sarebbero tornati a prenderla all’alba, poi si allontanò, amareggiandosi della sconfitta.

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L’ultimo giorno e mezzo era stato tremendo per Laura. Avere le mani e i piedi legati e stare sdraiata sull’addome sulla sella di uno pteranodonte a mezz’aria senza poter muovere gli arti era spaventosissimo. Lui era a dir poco una persona ridicola e faceva venire voglia di pestarlo addirittura a lei, che era timida quasi quanto Jack. Poi, a quanto pareva, con lui c’era un trio di documentaristi con l’attrezzatura da cinema che davano l’impressione non sapere neanche come ci si allaccia le scarpe, visto quanto erano ingenui e impacciati. Aveva provato a chiedere loro aiuto, ma quel tizio doveva avergli raccontato qualche bugia a cui continuavano a credere. Quell’inquietante cappello col visore e le zampe di ragno la teneva d’occhio ogni istante, tranne rare volte in cui, a quanto pareva, le si scaricavano le batterie. Ogni tanto, l’uomo con la bombetta si girava verso di lei e diceva frasi auto-celebrative del tutto a caso, quando non la insultava o le rinfacciava di essere stata stupida a credere di potergli negare il segreto di ARK. Alla fine, spinta dal nervosismo e da una vaghissima curiosità, Laura gli domandò chi diamine era e cos’era quella bombetta.

«Uuuuuh, nel giro di qualche reincarnazione ci è finalmente arrivata! Date una medaglia alla biondina!» la prese in giro Mike.

«Mike, sei davvero sicuro di voler rilasciare tutte queste informazioni private? Le mie statistiche indicano che sarebbe altamente rischioso per il successo della nostra spedizione, in caso il nostro ostaggio fugga»

«Lo so, Doris, ma siccome non scapperà mai… – si schiarì la voce e iniziò a raccontare con aria fiera, come se la sua fosse una vita da invidiare – Questa è la storia del sottoscritto, Mike Yagoobian…»

«Che schifo di nome…»

«…un povero cristiano da Seattle che non ha mai conosciuto la normalità, cresciuto per strada come qualsiasi barbone e circondato da altri barboni»

«Ecco perché hai quest’odore!» scherzò Laura, contraccambiando il sarcasmo.

«…sì, grazie tante. Comunque, l’arte del rubare e del truffare è stata sempre la mia fedele alleata morale, ma per mia fortuna avevo un amico mille volte più agiato. Un genio delle scienze, specialmente della meccanica e della robotica. Insuperabile progettatore e anche benefattore, visto che si accorse di me per strada e diventò il mio migliore amico senza un chiaro motivo e iniziò a darmi mance mensili…»

La pomposità con cui raccontava una biografia abbastanza banale stonava così tanto che Laura era costretta a trattenere le risate, visto che sarebbero state così fragorose da sbilanciarla e farla cadere da Girodue.

«Sto parlando, ovviamente, del professor Hermann Melville!»

«Ma… quello è l’autore di Moby Dick

«No! Quello è “Herman” con una N sola, il nome del mio amico ne aveva due, è diverso!»

«E poi perché “ovviamente”? Non ne ho mai sentito parlare»

«Certo, è perché voi cinici e viscidi borghesi non avete occhi per i veri genii come lui, quando capitano!»

«Parli come se tutti fossero ricchi, tranne te!»

«Il povero Hermann era ignorato e sfottuto dall’intero mondo della scienza… lui, che ha inventato il primo robot capace di volere e di intendere! Il cappello-domestico, una rivoluzione del mondo dei lavori manuali! Nessuna ditta volle mai finanziarne la produzione in serie, così l’unico modello che costruì fu DOR-15, la qui presente Doris!»

«Io sono DOR-15, il primo ed unico cappello-domestico dell’industria. Posso esserle d’aiuto?» Doris rafforzò il racconto recitando il suo slogan d’accensione.

Un’invenzione come Doris le sembrò geniale e ridicola allo stesso tempo. A essere sincera, anche lei si sentiva un po’ dispiaciuta per lo spreco di talento di quel Melville.

«Così la regalò a me e da allora io e DOR-15 siamo soci. Non sai quanto siamo capaci di fare insieme! Da quando ho lei, le mie truffe sono infallibili! Ogni volta elaboriamo dei piani e li confrontiamo, prima di partire in azione. I miei progetti sono geniali, anche se… be’, alla fine scegliamo sempre quelli di Doris. Ma comunque sono io quello che fa tutto!»

«La soggettività del tuo racconto distorce sensibilmente la realtà dei fatti» obiettò la bombetta.

«Bello, ma... cosa c’entrate con ARK?»

«Ah, giusto! Mi ero fatto trascinare dai ricordi… la meccanica non era l’unica cosa di cui si occupava. Dimmi, biondina, hai presente quei tizi che credono che ci sia qualcosa di cui nessuno sa ma che dovrebbe?»

«Ehm… i complottisti?»

Girodue scosse la testa e fece vibrare le ali per sgranchirsi e lei ebbe un tuffo al cuore, credendo di cadere.

«Uhm… sì, ma no. Fatto sta che era anche appassionato di storia. In vita sua ha visto tutto il mondo e studiato tutte le civiltà e sai cosa notò? Cioè, neanch’io so cosa notò, dico solo cosa mi ha raccontato»

Laura rimase in silenzio, in preda alla sospensione, in attesa che il discorso continuasse. Mike si irritò per quello:

«Allora, ti decidi a fare la domanda basita da colpo di scena? Così non posso fare la rivelazione ad effetto, non c’è gusto!»

Laura non ci poteva credere, ma sospirò raccogliendo tutta la sua pazienza e lo accontentò:

«Cosa notò?»

«Che fra le tracce lasciate dalle civiltà c’erano dei segni che non sembravano farina del loro sacco (parole sue) e sembravano parlare di creature come quelle di questo posto… e anche di strana gente parecchio più avanti di loro!»

«Oh… quindi i Pre-Arkiani usavano spesso quei passaggi! Interessante…» riflettendoci, dimenticò dov’era e di essere in ostaggio.

«Oh, almeno il commento basito da colpo di scena ti è riuscito! Torniamo a noi… Hermann fece la sua scoperta definitiva quando, nella British Library, trovò questo nascosto dietro una copia de L’Evoluzione delle Specie»

E le mostrò la sua copia dell’enciclopedia su ARK. Laura sbarrò gli occhi: quello fu quasi come prendere una secchiata d’acqua fredda. Guarda caso, lei e l’amico dell’uomo con la bombetta avevano trovato quel libro nello stesso, identico modo.

«Purtroppo, Darwin aveva strappato l’ultima, preziosissima pagina, dove c’erano le coordinate e la cartina di ARK»

Un altro dettaglio uguale.

«Si sarebbe messo volentieri alla ricerca dell’informazione mancante, così da cercare il Tesoro e riscattarsi di tutte le ingiustizie di una vita… peccato che gli venne la leucemia. Prima di essere ricoverato e tirare le cuoia, il generoso professor Melville affidò questa missione all’altra persona che merita di averlo quanto lui: me!»

«Vorrei chiederti di considerare anche me» protestò DOR-15.

«Me e Doris! Mi promise ricchezza, fama e gloria. Come potevo rifiutare? Così, dopo che morì, mi misi alla ricerca di quella pagina in tutto il mondo. E fu così che trovai la tua amica Walker e i suoi compagni, due anni fa. Vedi, se ti ho rapita è solo colpa tua! Se ti fossi fatta gli affari tuoi, io avrei fatto tutto in tranquillità e sarei già dove voglio arrivare! Ma ormai è irrilevante: il Tesoro di ARK ci aspetta! Muhuhuhaha!»

Laura capiva il suo punto di vista, ma non le importava assolutamente niente se voleva rifarsi una vita: lei aveva tutto il diritto di scoprire cosa nascondeva l’isola, tanto quanto Darwin, Melville ed Helena. Si sarebbe ripresa il manufatto, gli avrebbe impedito di prendere i tasselli del mosaico per poi tornare dagli altri.

“Però devo pensare bene a come fare… innanzitutto, mi serve l’occasione giusta!” si disse Laura, pensando fin da subito ai momenti di stand-by di Doris.

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Dopo aver avvertito Jack e Rockwell della scomparsa di Laura, il gruppo si era messo subito all’inseguimento dell’uomo con la bombetta. Rexar, ormai, conosceva perfettamente l’odore di tutti loro e gli era stato piuttosto facile trovare una pista. Così Acceber aveva chiesto se Mei poteva accompagnarla mentre andava qualche centinaio di metri più avanti degli altri, giusto come scusa per stare da sola con la sua eroina e farle una serie di domande su di lei. Mentre gli altri le seguivano lungo il fianco destro della montagna, conversavano per non sentire troppo la preoccupazione. Chloe, che camminasse o che stesse sulla sella di Usain, osservava l’oceano che si vedeva da lì: meraviglioso almeno quanto il paesaggio dell’entroterra che si poteva ammirare dal villaggio delle Aquile Rosse. Sam si fece raccontare da Nerva la storia del centurione:

«La vita del soldato non era stata sempre parte dei suoi progetti. Ero il figlio di un modesto latifondista della campagna emiliana; da bambino mi ero sempre divertito ad osservare i servi al lavoro e alla fine mi appassionai ad agricoltura e allevamento…»

«E loro ti lasciavano fare?»

«Certe, una mano in più fa sempre comodo quando lavori in una villa. Ma mio padre voleva che votassi la mia vita a servire l’imperatore entrando nell’esercito, come aveva fatto lui»

«Aspetta, quindi in famiglia eravate soldati o padroni di zappatori?»

«Mio padre era vecchio, stanco e senza un piede, non poteva più combattere. Il latifondo era un dono per la carriera da milites che l’aveva fatto diventare abbastanza noto fra i generali dell’italica terra e delle province. Non ebbi scuse: ho dovuto dire addio alla campagna e farmi soldato. Grazie al mio innato talento per combattere e l’influenza di mio padre, diventai decurione e centurione molto più in anticipo della media…»

«Eh, senti questo raccomandato!» lo canzonò Sam, facendo sorridere Helena e incuriosendo Chloe, ancora presa ad ammirare la vista di montagna.

«Non intellege male, io me ne vergognavo, ma non potevo farci niente. Mi affermai con la conquista della Dacia e la nomina a generale, poi Traiano mi affidò la spedizione in Oriente e trovai quest’isola. Sapete già il resto»

«Mai avuto una cotta? Che strano…» lo stuzzicò Chloe.

«Una… quid

«Uff… sei mai stato innamorato?»

«Oh! No, mai»

Sam stava per provocarlo chiedendogli se era imbarazzato perché non aveva mai avuto una fidanzata o se non voleva confessare di averne avuta una, ma Helena richiamò l’attenzione di tutti:

«Ehi, guardate lassù!»

Stava indicando la parete rocciosa alla loro sinistra. Tutti guardarono dove lei indicava e si stupirono nel vedere un’incisione nella pietra a forma di… fungo atomico.

«Uao… questo mi mette un po’ di ansia, francamente!» commentò Sam.

«Secondo voi è arte pre-arkiana, come le rovine?» chiese la biologa, emozionatissima: scoprire di aver perso dei dettagli due anni prima le faceva sentire le farfalle nella pancia.

«Mah… io scommetto di sì – azzardò Chloe – Chi è che su un’isola preistorica si mette a scolpire esplosioni nucleari come se fossero i disegni dell’uomo primitivo?»

«Ti do ragione» rispose Helena.

«Lo penso anch’io, ammesso di averci capito qualcosa. Gli Arkiani non hanno l’aria di sapere cos’è un atomo e neanche ospiti d’onore da altre epoche lo saprebbero. Per cui, se non è stato il pilota dell’Enola Gay o roba così, dev’essere come dite voi» affermò Sam, sempre scherzando.

Nerva, dal canto suo, si limitava ad osservare le singole linee delle incisioni con attenzione. Alla fine, prese la parola a sua volta:

«Credo di riconoscere lo stile di questa strana ars»

«Come?!»

Helena era così tesa che avrebbe potuto saltargli addosso, come per strappargli fuori le rivelazioni di bocca.

«Ho visto un’immagine fatta nello stesso modo su un’altra roccia, due anni fa»

«E non me l’hai mai detto?!» sobbalzò Helena.

«Come potevo immaginare che ti servisse?»

«Ma… no, è vero. Comunque, anche quella aveva un fungo atomico?»

«No. Era un’immagine che a quei tempi non potevo capire, ma si trattava di quelle due strane spirali legate da linee colorate, quelle che vedo qualche volta nei libri di medicina di Rockwell. Come si appellabat? Erano tre litterae, se non sbaglio…»

«Ehm... il DNA?» chiese Sam.

«Esatto!»

Helena non credeva alle proprie orecchie.

«Oh, mio Dio… - quasi balbettava – I Pre-Arkiani… conoscevano l’energia termo-nucleare e la genetica! È molto più di quanto io ed Edmund avessimo ipotizzato su di loro… questo va oltre ogni congettura che abbiamo fatto su di loro. Ma allora potrebbero anche…»

«Ehi, voi, tutto bene? Perché vi siete fermati?» furono chiamati da lontano da Acceber, che si era accorta della loro assenza ed era tornata indietro con Mei.

«Forza, andiamo!» esclamò Nerva.

Dovette tirare Helena per le braccia, visto quanto era estasiata e distratta, ma alla fine ripartì anche lei. Non vedeva l’ora di riflettere meglio sulla nuova scoperta, ma avrebbe potuto permettersi di chiamare Rockwell solo appena si fossero accampati… aveva una voglia bruciante di mettere per iscritto le sue scoperte, come quando teneva il suo diario. Era così eccitata!

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L’uomo con la bombetta si accampò al tramonto. Si fece aiutare dai documentaristi ad accendere un fuoco da campo, poi si allontanò con Doris dicendo che dovevano “discutere sul da farsi”. Laura fu lasciata lunga distesa a ridosso di un macigno, mentre Girodue nascose la testa sotto un’ala e si addormentò. I tre documentaristi si sedettero attorno al fuoco e riguardarono le riprese della giornata, commuovendosi ogni due secondi. Avevano lasciato una telecamera che catturava i movimenti in un cespuglio e, per un quarto d’ora, guardarono gli animali che ci erano passati davanti.

«Non ci credo, uno smilodonte! La tigre dai denti a sciabola!» esclamò Vicky, che faceva la presentatrice nelle scene informative o dialogate.

«Sta trascinando una preda… cos’è, un ippopotamo-maiale?» chiese Allan, il fonico.

«Ma come, non hai studiato neanche un po’? È una fiomia, il capostipite degli elefanti!»

«Vicky, sei tu il cervello. Noi abbiamo studiato cinematografia e tu non saresti qui senza di noi» replicò Phil, il cameraman.

Quando lo smilodonte uscì dall’inquadratura, lo schermo del tablet diventò nero, poi tornò l’immagine. Le ore segnate erano le 17:16, tre ore prima. Un oviraptor era corso nel cespuglio, smuovendo un po’ la telecamera, e aveva mangiato in tutta fretta un uovo appena rubato. Guardarono avidamente come lo apriva picchiettando sul guscio col becco e come beveva il tuorlo a leccate, raccogliendo fino all’ultima goccia. Infine aveva lasciato il guscio rotto fuori dall’arbusto ed era sparito dietro una curva del sentiero. Qualche minuto dopo, era arrivato un pachirinosauro di corsa, che annusò in giro ed emise un gemito sconsolato quando trovò l’uovo rotto. Era evidente che si trattava della madre, che aveva superato l’effetto del feromone tranquillante dell’oviraptor.

«Il ladro di uova della Mongolia!» commentò Vicky.

Il loro fantasticare fu improvvisamente interrotto dalla voce di Laura:

«Scusate, avete un secondo?»

«Cosa c’è?» chiese Allan.

«Devo fare la pipì… - affermò la ragazza, imbarazzata – Mi potreste slegare?»

«Ma Mike ci ha detto che gli hai chiesto di tenerti sempre legata per allenarti con la recitazione del ruolo della rapita…» ricordò Phil, perplesso.

«Sì, però salvo urgenze… ehm… corporee! Avanti, non è educato farla fare addosso a una donna!»

Allora Allan si avvicinò imbarazzato e le liberò i polsi. Laura cercò la borsa di Mike, legata alla sella di Girodue, cercò e prese il manufatto e i tasselli presi dalle rovine senza farsi notare: quei tre si erano distratti ancora ed erano come in trance. Allora, senza perdere un istante, corse via. Corse con tutta la forza che aveva nelle sue gambe, senza fermarsi né guardarsi indietro, stando attenta a non inciampare da qualche parte. Trovò un punto nella parete in cui c’era un buco, l’inizio di una galleria alta quanto un bambino. Incoraggiata dalla fretta, Laura ci strisciò dentro ed entrò in un sentiero sassoso stretto tra due alte pareti, attraversato da un rigagnolo. Forse era stato quello a scavare la fenditura. Senza rifletterci troppo, Laura corse fino in fondo e uscì infilandosi nella fessura che ne segnava la fine, ringraziando di essere sottile come un chiodo, in barba a sua madre che le diceva sempre di mettere su qualche chilo. Quando fu fuori, scoprì di essere sul lato frontale dell’Iddirac, la più settentrionale delle montagne gemelle. Il pendio scendeva molto meno scosceso da quella parte, però c’erano diversi gradini abbastanza alti da rendere cadute e scivoloni mortali. Se voleva scendere, avrebbe dovuto fare zig-zag, visto che i dislivelli erano collegati così. Qua e là c’erano conche circondate da alberelli, piene d’acqua piovana o da cui uscivano limpide acque di sorgente. Ma quello che attirò subito la sua attenzione fu cosa c’era a valle: una breve piana aspra e pietrosa divideva le ultime macchie boscose… dalla regione desertica. Il cantone settentrionale dell’isola, visto dall’alto, si presentava come una distesa dorata che intervallava spiazzi sabbiosi a colline di roccia rossa dalle forme varie, ma principalmente geometriche. Ad un certo punto, le rocce terminavano e il tutto si riduceva ad un mare di dune che si estendeva fino all’oceano della costa Nord. Laura rimase così, incantata e ipnotizzata, finché il pensiero della situazione non la riscosse. Rifletté e capì di avere due scelte: provare ad incontrare gli altri per strada o cercare di raggiungere il deserto da sola, sperando che anche loro stessero andando lì. In ogni caso, la scelta più opportuna sembrava raggiungere la regione arida, quindi inspirò a fondo e si rimise in marcia.

 

Camminò per un’ora, tenendo occhi e orecchie aperte: con la poca bravura che aveva con le armi, incontrare un predatore avrebbe significato la sua morte anche senza che Mike l’avesse disarmata. Poi, però, svoltò una curva e rimase impietrita: all’ombra di un vecchio olmo, un pachicefalosauro sellato osservava in silenzio un troncone umano senza testa né gambe. Lo scenario non era difficile da spiegare: quelli dovevano essere i resti del suo padrone e il piccolo dinosauro, ormai solo, rimaneva lì, incapace di separarsi dal compagno umano. Appena vide Laura, si alzò ed emise un gemito che le fece salire le lacrime agli occhi: anche se era solo un verso, riuscì a percepire tutta la tristezza e solitudine di quel pachicefalosauro. Scuotendo piano la sua testa a cupola, si avvicinò a Laura, che si spaventò e indietreggiò. Ma si fermò, capendo presto che non intendeva attaccarla. Provò a stare ferma per capire cosa succedeva: il pachicefalosauro annusò la sua tuta mimetica, le leccò la faccia e…Si sedette accanto a lei porgendole la schiena, con aria di invito.

«Oh… tu… vuoi che ti cavalchi?» chiese Laura, sorpresa, come se potesse risponderle.

Davvero quel pachicefalosauro si stava sottomettendo a lei? Aveva così tanto bisogno di un padrone? La sola spiegazione logica che Laura seppe darsi era che fosse molto giovane, quindi non ancora del tutto autonomo. Facendosi coraggio, allungò la mano e gli accarezzò collo e muso, lui ricambiò chiudendo gli occhi, fremendo e mugolando. Fu una sensazione meravigliosa: non aveva mai provato quell’emozione in vita sua. La sua gioia diventò improvvisamente paura quando sentì una voce femminile meccanica:

«Sei consigliata di non opporre resistenza e di seguirmi»

Davanti a lei c’era Doris. Ci era voluto meno del previsto perché scoprissero la sua fuga.

«Sai una cosa? No! Questo è il mio viaggio e lo faccio come voglio io!» si ribellò Laura, in un aspettato lampo di coraggio in stile Sam.

«Dunque mi costringi a ricorrere nuovamente alla manipolazione neurale»

La bombetta si avvicinò, ma Laura decise di lottare e la afferrò prima che potesse posarsi sulla sua testa. Doris cominciò ad agitarsi e a tirare in ogni direzione per liberarsi, ma la ragazza non voleva arrendersi. Allora DOR-15 estrasse due delle zampe meccaniche e le punse i polsi, ferendola.

«Ah!» si lamentò Laura, come il sangue iniziò a scorrere, scuro e denso.

«È stata legittima difesa, per definizione» si giustificò Doris.

«Cosa?! Sono io che mi difendo! Vuoi ipnotizzarmi!»

«Questa prospettiva è alquanto relativa, troppo per farti avere ragione»

Ma, prima che Doris facesse un secondo tentativo, il pachicefalosauro scattò in avanti e sferrò una testata a sorpresa, mandandola a sbattere contro l’olmo e aprendole un buco da cui zampillavano scintille.

«Errore… errore… errore… calotta centrale danneggiata… attivare auto-riparazione e attendere…» scandì il cappello, prima di spegnersi.

Laura guardò il pachicefalosauro con ammirazione.

«Be’, dunque… volevi unirti a me, giusto?» chiese, quando lui si rimise in posizione.

Provò a montarlo come faceva con Alba e trovò che era addirittura più facile. Dunque lo spronò e il suo viaggio riprese in compagnia della sua nuova cavalcatura. Doveva anche pensare a dargli un nome, visto che non aveva idea di come lo chiamasse il vecchio padrone…

   
 
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