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Autore: Roberto Turati    12/07/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Dopo l’inaspettata scoperta sugli effetti dell’edmundio sugli organismi viventi, ho giustamente fatto delle proiezioni su eventuali prove future. Il ciuffo d’erba che abbiamo fatto accidentalmente evolvere nella tenda ha subìto un’ulteriore mutazione: adesso ha la forma di un calice bombato con tre grossi petali pendenti verso il basso, l’interno è cavo e contiene un curioso viticcio retrattile che emerge se ci si avvicina alla pianta. Jack ha riferito di provare una sensazione di benessere quando si trova in sua prossimità, per cui ho voluto fare un esperimento: mi sono inciso una mano e l’ho avvicinata al viticcio; la ferita si è rimarginata in pochi istanti! Dal momento che su ARK esistono già due piante preistoriche ignote ai paleontologi chiamate “pianta X” e “pianta Y”, reputo opportuno battezzare questa nuova specie “pianta Z”. Desidero ardentemente fare una ricerca più approfondita sulle sue proprietà, così come non ci sono parole per descrivere la rabbia che provo per non poterlo confidare a nessuno, ma per il momento devo concentrarmi sul portare avanti lo studio sull’edmundio: devo assolutamente vedere se il DNA animale reagisce come quello vegetale.

A tal proposito, non riesco proprio a capire quel ragazzo: fino a qualche giorno fa era entusiasta almeno quanto me di essere qui, ad osservare da vicino i soldati dal futuro e il modo in cui impiegano l’edmundio, eppure da quando ho iniziato le ricerche sulla forma liquida è sempre agitato e non smette di supplicarmi di smettere, prima che ci scoprano. Non mi capacito che un giovane con un’intelligenza come la sua possa essere così inquadrato e privo di lungimiranza. Non si rende conto di quello che abbiamo per le mani? Non comprende che scienza e scoperta sono tutte un enorme, ma appagante rischio? Ho dovuto combattere più di un soldato al fronte per convincerlo ad aiutarmi a prendere un animale che possiamo sottoporre all’esperimento e ha addirittura insistito perché scegliessi la specie più innocua possibile, come se potesse succedere il finimondo in caso contrario! Incredibile… non vedo l’ora di vederlo ritirare tutto quello che ha detto, alla fine di questa vicenda!


Rockwell aveva scritto questa nota, dopo quello che avevano fatto con quella pianta. Il medico era più ansioso che mai di iniettare l’Elemento nel corpo di un animale, Jack era sempre più certo che la cosa non prometteva affatto bene. Avevano avuto diversi litigi: prima per fare questa prova, poi per catturare un animale selvatico al posto di rubarlo dal centro veterinario dell’URE ed infine perché prendessero un dodo e niente di più in alto nella catena alimentare. Ed ecco perché, in quel momento, erano appostati in silenzio su una piccola altura nelle pianure degli Ipmac Isile. Avevano posizionato semi e bacche assortiti su un ceppo d’albero a valle, nella speranza che qualche dodo nottambulo ne fosse attirato. Essendo piena notte, Jack ammazzava il tempo stando disteso sull’erba a fissare il firmamento, fantasticando su quanti altri stessero facendo altrettanto nel mondo, in luoghi più sicuri di quell’isola dimenticata da Dio. Eppure, fissare le stelle sembrava quasi cancellare la pericolosità di una zona selvaggia arkiana e gli faceva dimenticare per qualche secondo di star aiutando un vecchio medico folleggiante con manie di grandezza, il che lo confortava parecchio. Fu riportato alla realtà da Rockwell, che gli punzecchiò il braccio:

«C’è movimento laggiù, vai a dare un’occhiata!» bisigliò il medico, speranzoso.

Jack si mise seduto e scese pigramente la collina. Quando raggiunse il ceppo e vide cosa stava mangiando le bacche, si sbatté le braccia sui fianchi e alzò gli occhi al cielo: un listrosauro. Lo stesso che aveva già dovuto scacciare quattro volte. Senza dire una parola, afferrò l’animaletto per i fianchi e iniziò ad allontanarsi tenendolo in braccio. Il listrosauro non se ne lamentava mai; anzi, pareva trovarlo piacevole o divertente.

«Dobbiamo seriamente farti stare lontano per un po’…» commentò Jack, mordendosi subito la lingua per paura di aver attirato l’attenzione di qualche predatore di passaggio.

Notò un roveto carico di more e lamponi. Dunque mollò il listrosauro, ne raccolse un paio di manciate e le mise su un sasso, impilate in una montagnetta. Attirò il piccolo rettile fino al sasso e aspettò che iniziasse a mangiare. Iniziò subito a divorare le bacche, sporcandosi il becco di succo rosso e blu.

«Ecco, ora fa’ il piacere di farti andare bene queste!» lo ammonì Jack.

Per risposta, il listrosauro sollevò la coda e defecò, ignorandolo completamente.

«Grazie tante…» commentò il ragazzo, demoralizzato, poi cominciò a tornare indietro pensando a Laura.

Quando fu a venti passi dal ceppo vide Rockwell che correva a capofitto giù dalla collinetta, verso l’esca. Jack guardò e vide che, finalmente, un gruppo di sette dodo era venuto a servirsi da loro. Così anche lui comiciò a correre con tutte le sue forze, mentre i dodo iniziarono a disperdersi starnazzando alla vista dei due inseguitori. Rockwell provò ad afferrarne uno, ma gli venne una fitta alle ginocchia e cadde, facendosi venire altri dolori alle ossa. Jack fallì nel provare a tuffarsi su quello che gli sembrava il dodo più grasso e goffo, ma si rialzò in pochi secondi e riprovò, riuscendo ad afferrarlo come un giocatore di rugby si getta sul pallone. Stando attento a non farsi graffiare o beccare, Jack aggiustò la presa per impedire al dodo di dimenarsi e gli chiuse il becco.

«Ah… ahia… Edmund, stai diventando un relitto, ormai… ragazzo, l’hai preso?»

«Eh… sì, ne ho uno!» esclamò Jack, vagamente soddisfatto, ma preoccupato per cosa veniva dopo.

«Perfetto! E ora diamo la parola all’edmundio…»

“Aiuto…” pensò Jack, iniziando ad avere davvero paura.

Rockwell, che aveva già riempito una siringa di Elemento liquido, prese l’ago e si avvicinò al dodo. Gli sollevò un’ala e fece l’iniezione nell’addome. Subito, il pennuto smise di agitarsi e si irrigidì, con lo sguardo vuoto.

«Prova a lasciarlo andare…» chiese Rockwell, senza staccare lo sguardo dal dodo.

Jack lo lasciò libero e l’uccello fece due passi in avanti, prima di bloccarsi di nuovo come una statua. Rimase immobile quasi per un minuto… poi si inclinò e stramazzò a terra, morto. Rockwell ne fu sconvolto e rimase a bocca spalancata, mentre Jack si trattenne dal tirare un sospiro di sollievo, siccome si aspettava di peggio.

«È… l’ha… una reazione letale? Non capisco… p-p-perché l’erba si è evoluta e… e… e questo dodo è deceduto in pochi secondi?»

«Non si disperi, dottore: forse è proprio così che funziona! Magari abbiamo capito come c’è stata l’apocalisse nel futuro di Diana. Vede che fanno bene a proibire quella sostanza malefica?» lo confortò Jack.

«No, non può essere. Ci dev’essere una spiegazione! Forse questo esemplare era malato o aveva un altro tipo di anomalia che ha impedito all’edmundio di agire efficacemente… non può essere così!» il farmacista ci era rimasto davvero male.

Tastò il corpo del dodo e auscultò il torace per accertarsi che fosse morto.

«Purtroppo, è effettivamente trapassato. Però… è una femmina. A quanto pare, era pronta a deporre le uova. Forse la gravidanza ha alterato i suoi valori e non ha retto la presenza dell’edmundio, o gliene ho dato troppo o troppo poco? Insomma…»

«Dottor Rockwell, la smetta! È andata così, fine!» lo interruppe Jack, che iniziava a spazientirsi.

«Ma… sì. Sì, hai ragione, ragazzo: ho preteso troppo. Dimenticavo che ci sono anche le delusioni, nel mondo della scienza…»

«Be’, ha comunque scoperto cosa fa agli animali, no? Sempre meglio che non saperlo e rischiare di più!»

«Ti devo dare ragione. Coraggio, torniamo alla base dei soldati dal futuro, prima che la nostra assenza diventi troppo lunga. Io farò ancora qualche domanda sugli usi quotidiani dell’edmundio solido e tu potrai fare ancora tutte le domande che vuoi sui loro costumi, poi ci riuniremo agli altri, dovunque siano» stabilì Rockwell, triste e rassegnato.

«Ci sto»

E si incamminarono verso la base dell’URE. Ma non si accorsero che, nel frattempo, il dodo aveva riaperto gli occhi, che ora luccicavano di viola; e iniziò a contorcersi per terra. Sulla sua pelle, si formò un reticolo di capillari violacei e fosforescenti, dalla bocca uscì del vomito dello stesso colore e ancora più fluorescente…

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Nel mentre, in una tana di araneomorfi costruita in una rete di gallerie sotto la giungla delle Rocce Nere, si era diffuso il panico: i giganteschi ragni stavano passeggiando tranquillamente da una camera tappezzata di tela ad un buco riempito di filamenti appiccicosi per intrappolare le prede, si incrociavano e scambiavano rapidi e semplici messaggi di feromoni, le femmine fertili custodivano le sacche con le uova, deposte ogni cinque anni, in buche speciali. Le prede del giorno venivano portate dentro, fatte a pezzi e condivise. Era come un alveare o un formicaio, ma senza regina. Improvvisamente, però, qualcuno aveva cominciato a lanciare strani oggetti che splendevano di blu ed esplodevano pochi secondi dopo. Una serie di scoppi azzurri rigirarono tutta la terra in zona e portarono la tana allo scoperto. Terrorizzati e furiosi, gli araneomorfi cominciarono a zampettare in tutte le direzioni, sparpagliandosi a caso. Allora, la squadra di cattura di Diana iniziò ad immobilizzare quelli che capitavano rinchiudendoli con speciali dispositivi che creavano campi di forza dove li si lanciava. Quando ne ebbero presi trenta, Diana annunciò il compimento della missione e tornò la calma. Tutta la sua squadra si radunò intorno ai campi di forza pieni di ragni, osservandoli con soddisfazione e togliendosi i caschi.

«Complimenti, ragazzi, siete stati più coordinati che mai! È così che vi voglio, sempre!» commentò Diana, con un sorriso.

«Merito di chi ci aiuta a fare tutto così bene!» le rispose una donna.

«Grazie, Janet. Forza, ora chi di dovere teletrasporti queste schifezze a otto zampe alla base, così poi potrete andare tutti a dormire!»

Dunque, alcuni si allontanarono, mentre altri si avvicinarono ai ragni catturati per avviare il teletrasporto. Diana fu chiamata via radio da Santiago:

«Ehilà

«Ciao»

«Com’è andata coi ragni?»

«Splendidamente. Non vedo l’ora di raccontarlo a Skipper! Sarà fiero di sapere che la strategia che abbiamo pensato insieme ha funzionato»

«Come al solito!»

«Comunque, hai finito la registrazione settimanale delle scorte?»

«Sono qui per questo: c’è stata una diminuzione insolita della quantità finale di Elemento fluido nella tanica per il replicatore»

«Ah, sì? Be’, potrebbe essersi bucato: ha già rischiato di succedere, l’altra volta. Scoprite subito se è entrato in contatto con dell’erba o con qualche forma di vita endemica! Non vogliamo un casino genetico proprio qui»

«Ho già controllato: è intatto. L’unico modo in cui un decilitro potrebbe essere perso è prendendolo a mano»

«E chi mai… oh, no! Dici che sono i nostri due ospiti, quel Jack e il dottor Stonewell?»

«Credo che fosse Rockwell. Ma sì, sospetto anch’io: è sempre stato fissato con l’Elemento, specialmente con quello liquido. Forse ho fatto più male che bene a proibirglielo: avrei fatto prima a tenerlo segreto…»

«Dobbiamo subito fare due chiacchiere con lui! Va fermato, prima che faccia guai…»

«Tutto qui? Mi aspettavo di sentirti bestemmiare e urlare di buttarlo fuori a pedate»

«Oh sì, sono così incazzata che potrei spaccare un muro senza armatura. Ma oggi sono di buon umore: prima voglio provare a discuterne da persone civili. A me non sembrano cattivi, del resto. Sono lì?»

«No, sono andati nelle praterie, dovrebbero tornare a breve. Sarebbero pure capaci di aver già provato quel liquido su qualcosa!»

«Speriamo di no, sarebbe un gran bel casino. Va bene, sto arrivando. A tra poco!»

«D’accordo. Intanto controllo la loro tenda, forse trovo l’Elemento che hanno rubato…»

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Grazie a Cupcake (così aveva chiamato il pachicefalosauro), Laura aveva raggiunto in poche ore il fondo della montagna e adesso stava attraversando lo spazio sassoso fra l’Allics e il deserto. La cavalcata non era tanto comoda, a lungo andare: si era abituata a dare il cambio ad Helena ogni ora e aveva cavalcato tutta la notte. Ogni tanto le erano venuti dei colpi di sonno e aveva passato metà tragitto in dormiveglia, scattando di colpo sull’attenti e col mal di schiena quando Cupcake metteva la zampa in una cunetta o scavalcava un ostacolo. In più, a causa dei tagli che Doris le aveva fatto, non poteva stringere troppo le redini per evitare che lo sforzo tirasse i bordi delle ferite, ma di contro le veniva spontaneo per paura di cadere dalla sella. In altre parole, era come viaggiare su un treno vecchio e malandato, ma a cui si è affezionati. Finalmente, raggiunse il limite della zona arida: ad accoglierla, c’era una sorta di ponte ad arco che collegava due pilastroni d’arenaria, una sorta di ingresso naturale.

«Va bene, Cuppy, ci siamo – a quanto pareva, parlargli la confortava – Tu sei già stato nel deserto? Io ho visto l’Outback un paio di volte. Quanti bei ricordi…Ma preferisco di gran lunga l’oceano. Cerchiamo il villaggio…»

Proseguirono alla cieca fino a mattina inoltrata. Il Sole si alzava e, con esso, la temperatura. Il calore saliva dal terreno a vampate scottanti, mentre i raggi solari le bombardavano il viso: avrebbe potuto cuocere un uovo su una pietra, tanto era caldo. Passare dall’aria frizzante d’alta montagna a quell’afa soffocante fu un vero trauma. Fu tentata di togliersi la tuta mimetica, ma resisté: sapeva bene che a stare coperti nel deserto si crepava, ma almeno si stava al sicuro dalle scottature. Quindi si limitò a togliersi il bavero incorporato alla tuta, che tanto non aveva mai usato, e se lo avvolse in testa per proteggersi.

“Ah, molto meglio!” pensò.

La strada era un tortuoso percorso tra le formazioni rocciose. Alcune offrivano tanta ombra, il che non poteva che essere piacevole. Ad un certo punto, però, sopraggiunse la sete. Per fortuna, alla sella di Cupcake era legata una giara in terracottta da riempire d’acqua e aveva fatto scorta alle sorgenti sull’Allics. Quindi la prese e bevve un piccolo sorso, giusto per sciacquarsi la gola. Cupcake la notò e girò la testa verso la giara, tirando fuori la lingua e ansimando. Laura capì e, con una punta di imbarazzo, gli versò un goccio in bocca. Lui sollevò la testa per ingoiare, poi si rigirò la lingua nel becco. Attraversata una collina piena di cespugli spinosi, Laura notò un cartello che la rese speranzosa: ai piedi di un masso di arenaria, c’era un’indicazione a forma di freccia puntata verso la sua destra e un messaggio:

TIGUPLABIB VED VÒTIF IVEVLABAV
PÈFEC AZADLUTIG A TIVAF ID ECEP

EBECIMEF: CEZABAFI E DETÒTÒZI

Non capì una virgola, ma sperando che fosse un’indicazione per un villaggio, Laura decise di seguire la freccia. Certo, prima avrebbe dovuto cercare il piedistallo, metterci il Manufatto del Signore dei Cieli e prendere il nuovo tassello del mosaico, ma le importava molto di più raggiungere un luogo abitato e ritrovare gli altri, in quel momento. Quindi, dopo aver sacrificato un altro goccio d’acqua per lavare le ferite ai polsi, spronò Cupcake e ripartì. Raggiunsero una distesa dove crescevano svariati saguari, i cactus messicani. Passandoci accanto, Cupcake si fermò e si fermò davanti ad uno di essi, fissandone la cima senza più obbedirle. Laura guardò e si accorse che avevano i fichi d’India sulle punte delle braccia.

«Ma allora sei viziato!» scherzò, scimmiottando una mamma che riprende un bimbo.

Ma alla fine venne la tentazione anche a lei, dal momento che adorava quei frutti, specialmente quando era piccola. Cercò di “parcheggiare” il pachicefalosauro accanto al saguaro, quindi cercò di mettersi in piedi sulla sella, concentrandosi sull’equilibrio. A questo punto, appoggiò una mano in una scanalatura senza spine e con l’altra afferrò il fico più vicino, tirandolo finché si staccò. La spinta all’indietro la fece quasi cadere, ma riuscì a restare in piedi. Sistemò il frutto nella bisacca e raccolse tutti gli altri alla sua portata. Finito il lavoro, tornò a sedere sulla sella e ne offrì uno a Cupcake, che lo mangiò in un attimo. Ne iniziò uno anche lei e lo gustò con calma, mentre procedevano. Le formazioni rocciose non erano finite, però erano più lontane le une dalle altre. Nei dieci minuti successivi, non successe niente di particolare, a parte il fatto che Laura avvistò uno stormo di avvoltoi imperiali che volteggiavano all’orizzonte, alla sua sinistra.

“Meno male che non devo andare là!” pensò.

Poco dopo, trovarono un pozzo. Non era una sorgente, era proprio un pozzo costruito da persone, con argano e secchio.

“Oh, perfetto!” esultò Laura, volendo riempire ancora la giara.

Vi si avvicinò, scese da Cupcake e, anche se con molta goffaggine, calò il secchio. Quando sentì che si era riempito, lo riportò su e ci riempì il contenitore d’argilla, bevve, riempì ancora e lasciò che Cupcake bevesse il resto. Quando risalì, però, il silenzio fu rotto da un verso che le fece gelare il sangue:

GRUUUUUNFRRRRRROARRRRRFFFF!!!

Era abbastanza lontano, ma lo sentì benissimo. Cupcake si voltò di scatto e lei vide una sorta di cinghiale più grosso di un cavallo che trottava verso di loro: un deodonte, il vorace e prepotente suino dell’Oligocene. Laura sbiancò a vederlo: si avvicinava molto rapidamente e sembrava arrabbiato. Emise quell’agghiacciante grido un’altra volta; Cupcake rispose con un breve muggito e sfregando una zampa sul terreno, ma non era del tutto convinto: Laura sentiva che aveva paura quanto lei. Il pachicefalosauro provò a rispondere un’altra volta alle sfide del deodonte, ma quando il suino fu a dieci metri da loro non si trattenne più e cominciò a correre dall’altra parte.

«Ehi! No! Cuppy, stai sbagliando stra… no!»

Laura fece il possibile per reindirizzarlo nella direzione giusta che, per fortuna, non era quella del deodonte. Si sforzò parecchio ed ebbe l’impressione che i tendini dei polsi stessero per schizzare fuori, ma alla fine riuscì a farlo svoltare. Cupcake correva sempre più veloce, tenendo la testa bassa per fare meno attrito con l’aria, ma il deodonte non era da meno: passò dal trotto al galoppo e non dava segno di lasciar perdere. La fuga proseguì così fino al letto di un fiumiciattolo in secca e Laura vide un altro cartello, identico a quello di prima, che puntava a destra. Laura era contentissima che ci fossero i cartelli fuori dalle strade; era chiaro che fossero pensati per i dispersi. Quindi fece girare Cupcake e il deodonte pure. Laura credeva che li avrebbe lasciati stare dopo un po’ per il semplice fatto che si trovavano nel suo territorio, come spiegato nell’enciclopedia, ma non accadde: il maiale infernale li inseguiva con sempre più foga. I casi erano due: o aveva tanta fame, o non aveva ancora un territorio fisso nel deserto. Ma non aveva importanza, perché ormai era vicinissimo: Cupcake correva più veloce che poteva, ma il deodonte, perdendo bava schiumosa e grugnendo come se fosse posseduto, stava per raggiungerlo. Laura andò nel panico quando il deodonte cercò di mordere la testa della sua cavalcatura in corsa. Cupcake schivò e sferrò una testata in risposta, che stordì l’inseguitore e fece volare qualche goccia di sangue, costringendolo a fermarsi. Era la seconda volta in un giorno che quel pachicefalosauro le salvava la vita. Laura tirò un sospiro di sollievo, ma lo ritirò quando, girandosi per controllare, scoprì che il deodonte era tornato a rincorrerli. Ma vide anche qualcos’altro: in lontananza, era apparso un terzo animale che si avvicinava ancora più in fretta. Poco dopo, vide che era sellato e riconobbe la persona che lo cavalcava; un ampio sorriso le apparve in faccia, anche se era deformato dalla paura.

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Una volta raggiunto il deserto, Rexar aveva seguito l’odore fino a trovare una scia di impronte che si vedevano con chiarezza: quelle di un pachicefalosauro. Quando erano passati dall’olmo con le gambe umane, non era stato difficile capire cos’era successo: Laura doveva essersi impossessata della cavalcatura. Doris non c’era più: arrivata a metà dell’auto-riparazione, era tornata da Mike per dirgli della cattiva notizia e finire di aggiustarsi. Il gruppo aveva lasciato che Acceber andasse avanti con Rexar, ora che Laura era alla loro portata. E così, semplicemente, la figlia di Drof aveva seguito le tracce fino a vedere il pachicefalosauro inseguito dal deodonte. Aveva quindi ordinato a Rexar di scattare. Quando raggiunsero il deodonte, Acceber saltò a terra e lasciò che il tilacoleo facesse il resto: Rexar atterrò l’ungulato con un balzo, slittò atterrando oltre, si rialzò, gli afferrò la gola e lo soffocò a morte. Laura, accorgendosene, fece fermare Cupcake e scese, correndo dall’Arkiana.

«Acceber! Dio santo, ti devo una marea di favori!» esclamò, piangendo di gioia.

«Oh? Ma no, non serve! Ti abbiamo trovata, conta quello! Eri nei guai, ti ho tirata fuori, fine»

«Dove sono gli altri?»

«Stanno arrivando, approfittane per calmarti: ansimi più di uno ienodonte!»

«Già, lo noto solo ora… ah, c’è mancato poco!»

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Come annunciato, i suoi amici arrivarono una dozzina di minuti dopo con Helena, Mei e Nerva. Chloe e Sam corsero subito da lei, felicissimi. Chloe la abbracciò molto forte, mentre Sam si limitò ad una delle sue possenti pacche, cercando di contenere l’entusiasmo per imbarazzo.

«Forza, raccontaci come hai preso per il culo quel demente con la bombetta!» la incoraggiò Chloe.

«Ti prometto che, appena lo incontriamo, gli spacco la faccia per te» rassicurò Sam.

«Parteciperò anch’io: non ho finito con lui» concluse Mei-Yin.

Dunque, Laura raccontò tutto, facendo crepare i due amici dal ridere quando parlò della stupidità della troupe televisiva. Helena, invece, sorrise con una punta di compiacimento alla parte in cui Cupcake si attaccava a lei per il bisogno di un padrone o di una figura “genitoriale”. Finito il racconto, Helena e Nerva parlarono di quella bizzarra incisione rupestre pre-arkiana, lasciando Laura di stucco.

«Dunque il mistero si infittisce... chi è che lo diceva? Non me lo ricordo più…» rimuginò Sam.

«Be’, non ci resta che fare una pausa dai Piedi Sabbiosi e ripartire, giusto?» chiese Acceber, sperando di aver capito bene e guardando nella direzione dei due cartelli visti da Laura.

Laura rifletté un secondo: l’esperienza su ARK era un continuo tira-e-molla: a momenti si pentiva di esserci voluta venire perché era un luogo mortale, in altre occasioni era grata a se stessa per star vivendo un’avventura di proporzioni praticamente storiche. Ora, più che mai, voleva scoprire cos’accidenti era il Tesoro di ARK e chi erano i Pre-Arkiani, così come Helena se l’era chiesto prima di lei.

   
 
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