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Autore: seavsalt    18/07/2019    0 recensioni
Eira si risveglia in una clinica di un'antica città, senza sapere perché si trovi lì, né quale sia la propria stessa identità. Soltanto la "straordinaria verità" potrà svelarle la risposta di ogni quesito irrisolto; ma non tutto, a Yharnam, è come sembra. I ricordi si mescolano ai sogni, in un mondo oppresso dalle belve: qual è la verità?
Note dell'autrice: tutta la storia diverge molto dall'opera originale, nonostante ogni speculazione di lore sia basata su saggi esistenti e del tutto attinenti al mondo di Bloodborne. Inoltre presenta alcuni dialoghi tratti direttamente dall'opera originale. La protagonista è un mio original character.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Gehrman, Laurence, Nuovo personaggio, Padre Gascoigne
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Il suolo non era scomodo, forse un po' ruvido, ma di sicuro non era freddo come si aspettava. Si sollevò da terra con fatica facendo leva con le braccia e la prima cosa che riuscì a distinguere fu la nebbia, una densa foschia che la avvolgeva trasmettendole una sensazione di calore. Prima che potesse anche solo muovere un dito essa si diradò con la stessa velocità con cui era comparsa. Quello che si parò davanti ai suoi occhi fu tutt'altra cosa. La città inospitale lasciò posto a un luogo completamente accogliente, ricco di gigli bianchi che fiorivano da ogni parte e su cui si stagliava, in cima a una collinetta, un edificio in legno. Le sue guglie, la cui altezza veniva raggiunta solo da arbusti molto probabilmente secolari, spiccavano gloriosamente su un cielo quasi surreale. E proprio lì, in mezzo alla volta celeste, la luna splendeva di una luce abbagliante. Eira pensò che quella luna fosse proprio strana, le sembrava così diversa dal resto del paesaggio da apparirle come se stesse per staccarsi dal cosmo da un momento all'altro. Il satellite era ciò che rendeva quel luogo inquietante; questo, e anche il fatto che tutto ciò che la circondava non poggiava su nulla, o almeno quella era l'impressione che le dava. Guardando l'orizzonte, infatti, non vi erano che chilometri e chilometri di fitta nebbia sormontata dal cielo inaspettatamente azzurro e interrotta ogni tanto da pilastri grigi che spuntavano da chissà dove. Vedeva dei piccoli esserini bianchi, impossibili da descrivere per quanto erano mostruosi e dolci allo stesso tempo, che spuntavano da alcune vasche e anche dal terreno, ed ebbe la sensazione che l'avessero guidata dal momento in cui aveva messo piede nella clinica dopo il proprio risveglio. E poi vide le lapidi; le lapidi erano ovunque. Per un momento credette di essere morta e di trovarsi all'altro mondo, fin quando non sentì una voce provenire dalle proprie spalle, una voce che credeva di aver già sentito da qualche altra parte; ma aveva perso la memoria e non avrebbe saputo dirlo con certezza.

"Salve, buona cacciatrice".

Eira si voltò di scatto e la figura di una donna, alta, vestita con degli abiti molto graziosi, le sorrideva con aria calma e paziente. La sua carnagione era pallida, fin troppo effettivamente, le ciocche che spuntavano da una graziosa cuffietta erano di un biondo chiarissimo, quasi bianco, mentre le palpebre sbattevano in modo innaturale sugli occhi di un azzurro limpidissimo. Fu soltanto osservando meglio che lo notò; le sue dita erano come quelle di una bambola. Cercò di parlarle, ma dalla bocca non le uscì nemmeno un filo di voce e la giovane donna continuò a parlare, immobile, con lo stesso sorriso.

"Sono un automa, veglierò su di te in sogno".

La ragazza sentì il cuore fermarsi. Un sogno. Tutto questo era un sogno. Magari era già morta, tra le strade di quella città, e sognava negli ultimi attimi della propria vita. I sogni hanno un grande potere, sì, questo lo sapeva. Qualcosa riaffiorò nella propria mente, delle parole, indistinte, indecifrabili, misteriose. Come il sogno in cui si ritrovava.

"Nobile cacciatrice, caccerai belve selvagge... E io sarò qui per te... A rinfrancare il tuo spirito malsano".

Non era una cacciatrice. Non aveva mai cacciato belve. Questo era ciò che la mente le diceva, ma la propria memoria era inaffidabile. E se il sogno le stesse rivelando dettagli dei suoi ricordi perduti? E se quell'automa fosse la propria coscienza? Eira era una cacciatrice, da quel momento. Lo aveva detto l'automa e lei le credeva, senza sapere il perché. Non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando. L'odore del sangue le riempiva il naso, ma non le diede fastidio, anzi. Quel sangue caldo, quello del lupo che aveva ucciso a mani nude, stava così bene sulla propria pelle. Finalmente una tiepida sensazione di benessere. L'automa reclinò la testa da un lato.

”Hai parlato con Gehrman? Egli è stato un cacciatore, tempo fa, ma ora è un semplice consigliere. Egli è oscuro, invisibile nel regno dei sogni. Eppure egli è qui, in questo sogno... questo è il suo scopo"

le disse, guardando oltre le sue spalle, in direzione dell'edificio. Eira era curiosa, impaziente di parlare con il cacciatore che l'automa le aveva indicato, non solo perché significava un'altra presenza di vita all'interno del proprio sogno, il che lo rendeva ancora più surreale, ma perché quel nome le era stranamente familiare. Se i ricordi stavano tornando a poco a poco, sentiva che quello era il posto giusto per ritrovarli tutti, uno ad uno. Stava per fare un passo verso la grande struttura di legno, quando sentì uno strano calore avvolgerle il corpo e il paesaggio cominciò a farsi più lontano e indistinguibile, sfocato. Si voltò in direzione dell'automa tentando di raggiungerla, mentre diventava un tutt'uno con la nebbia, cercando di aggrapparsi all'unica figura di cui si fidasse in quel momento, ma lei non fece un passo, né cancellò il dolce sorriso dalle proprie labbra, che in quel momento si socchiusero per far uscire delle parole che tolsero ogni preoccupazione alla cacciatrice. Dopotutto, la voce della bambola la faceva sentire a casa. Il sogno era la sua casa, ora.

"Addio, buona cacciatrice. Che tu possa trovare la via nel mondo della veglia".

Il luogo del suo successivo risveglio era molto più comodo del precedente. Si trovava di nuovo su un letto, ma stavolta era un giaciglio morbido e caldo. Si mise seduta, mentre si guardava intorno e notava che aveva gli stessi vestiti macchiati di sangue addosso. Ma, passandosi una mano sulla faccia, si rese presto conto che quest'ultima era pulita. Non le servì molto tempo per capire che non aveva sognato. O almeno, non aveva sognato il proprio risveglio nella clinica, ma gli esserini bianchi e l'automa sì, li aveva sognati, ne era certa, ed era grata alla propria memoria per non averli dimenticati. D'altro canto, non era nemmeno morta. Si trovava in una piccola camera da letto molto spartana, eppure accogliente nella propria semplicità. Non sapeva se avrebbe voluto davvero alzarsi e scoprire cosa ci sarebbe stato oltre la porta della stanza, ma non ebbe il tempo di pensare che proprio quest'ultima si spalancò. Eira si agitò nel vedere una mano avvolta da un guanto bianco aggrappata alla maniglia e il tempo sembrò scorrere più lentamente mentre una figura vestita con una divisa blu avanzava all'interno della stanza. Dall'uscio fece capolino il volto di un uomo dai capelli biondi e lunghi fino alle spalle, il quale sgranò gli occhi sorpreso, rimanendo così per una manciata di secondi, lasciando Eira con il fiato sospeso. L'uomo si arrotolò i baffi biondi tra le dita guantate, pensieroso. < Beh, sono felice di vedere che sei viva, straniera > le disse con voce decisa, accennando un sorriso e avvicinandosi di più a lei. La giovane era terrorizzata, come se non sapesse più come approcciarsi a un'altra persona. < Chi sei? > fu l'unica cosa che riuscì a dire, mentre si copriva inutilmente con le lenzuola del letto, quasi nella vana speranza che la potessero difendere. Almeno la voce le era tornata, pensò. L'uomo ridacchiò divertito e fece un mezzo inchino prima di presentarsi. < Cielo, dove sono finite le mie buone maniere! Valtr. Incantato >. Eira non si fidava. Non percepiva la stessa sensazione che aveva avuto con l'automa e si ricordò anche degli sguardi scettici e di disgusto dei popolani della città. < Non mi sembra che gli stranieri qui siano trattati con tutto questo riguardo > sentenziò, senza preoccuparsi del fatto che l'uomo avrebbe potuto accanirsi su di lei in qualsiasi momento. Valtr alzò un sopracciglio, ma le sue labbra si curvarono in un sorrisetto quasi ironico. < E se ti dicessi che sono uno straniero anche io? > La ragazza rimase visibilmente senza parole e in imbarazzo, e si maledì per aver avuto un tale coraggio nel fare delle accuse senza delle basi certe. Diresse lo sguardo da un'altra parte, per evitare gli occhi azzurri dell'altro che la guardavano divertiti, e bofonchiò qualche scusa. < Eira... è il mio nome >. Valtr assunse un'espressione più rilassata nel sentire le parole della giovane. < È un bel nome. Dunque, Eira... cosa ci facevi accasciata per le strade di Yharnam? Non è proprio il posto migliore per riposarsi, sai. Soprattutto se sei una straniera >. Eira capì che Yharnam era il nome della città in cui si trovava, un nome che, al contrario di altre cose, non le risultava familiare. Guardò l'uomo, ancora più imbarazzata, da dietro le lenzuola, che ormai erano arrivate a coprirle anche metà del viso. < Io... Non lo so, in realtà. Devo essere svenuta dopo essere uscita da quella clinica >. Valtr si fece improvvisamente più serio. < Clinica... Intendi quella di Iosefka? > La ragazza scosse la testa. < Non lo so, forse? Mi sono risvegliata in un letto di questa clinica, senza alcuna memoria di cosa ci facessi lì. Non ricordo nulla che sia precedente al mio risveglio, in realtà... > L'uomo si avvicinò e si mise seduto sul ciglio del letto, mentre nel suo volto si poteva vedere un velo di preoccupazione. < Capisco... Quando ti ho, sai, raccolta dalla strada ho notato il tuo braccio sinistro. Hai fatto una trasfusione? > le disse, con un tono un po' più rilassato. < Sì, o almeno credo... > Eira non sapeva se avrebbe dovuto davvero dirgli le poche cose che sapeva sulla propria confusa esistenza, ma Valtr sembrava avere una genuina preoccupazione verso i suoi confronti. Magari l'avrebbe aiutata. < Perché ti interessa saperlo, comunque? > L'altro la guardò sorridendo. < Beh, voglio aiutarti. Quindi, se hai perso la memoria, immagino che tu non abbia nemmeno un posto dove stare, giusto? > Nel cuore della ragazza si accese un barlume di speranza. Valtr probabilmente non era una cattiva persona. < Giusto, ma- > non fece in tempo a finire la frase che l'uomo si alzò di scatto, mentre il suo volto si accese di pura gioia. < Ottimo! Allora ti permetterò di rimanere qui, ma a una condizione > esclamò sorridente. Eira aggrottò confusa la fronte. < Quale sarebbe? > Valtr ridacchiò felice, prima di riprendere a parlare. < Sei una cacciatrice, no? > A quella domanda non sapeva come rispondere in modo corretto. Gli avrebbe detto sia sì che no, visto quello che aveva appreso nel sogno, ma non voleva tirare fuori l'argomento. Quello del sogno era un segreto che avrebbe tenuto per sé, e per lei sola. Si limitò ad annuire scuotendo la testa. Ora gli occhi azzurri di Valtr risplendevano di orgoglio e il suo sorriso andava da un orecchio all'altro. < Allora unisciti al mio gruppo di cacciatori. Cacciamo le belve aiutandoci a vicenda, liberiamo la città dall'orribile piaga che la sopprime e dai parassiti che minacciano la popolazione. Molti di noi sono stranieri e così dimostriamo alla gente di Yharnam che non siamo malvagi, che non nascondiamo nulla, che in fondo possono riuscire ad accettarci. Magari riuscirai anche a ricordare qualcosa sul perché sei qui >. Lo guardò con ammirazione, pensando che non aveva torto. E poi, se sarebbe dovuta restare lì ancora per molto, tanto valeva farsi degli alleati. < Allora, che ne dici? > Valtr le tese la mano sinistra avvolta dal guanto bianco. Eira non sapeva che genere di piaga affliggesse la città di Yharnam, né a cosa servissero dei cacciatori, ma avrebbe eliminato qualsiasi ostacolo che le avesse impedito la strada verso il recupero della propria memoria. Ormai non aveva nulla da perdere. Sorrise e con forza afferrò la sua mano.
   
 
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