Capitolo ottavo
And I won't bow,
I won't break
No, I'm not afraid of you whatever it takes
I'll never bow, I'll never break
'Cause I'm a
warrior
I fight for my life like a soldier
All through the night
And I won't give up, I will survive
I'm a warrior
And I'm stronger, that's why I'm alive
I will conquer, time after time
I'll never falter, I will survive
I'm a warrior.
(“Warrior” – Avril Lavigne)
Alla fine Rinaldo Albizzi era riuscito a
prendere la Signoria per sfinimento, anche perché non avrebbe smesso di
convocare assemblee finché la maggioranza non avesse votato la condanna di
Cosimo! Così quei poveretti dovettero, in effetti, dare il loro voto per
condannare il Medici: in caso contrario, probabilmente non sarebbero mai più
ritornati a casa dai loro cari, imprigionati a vita nel Palazzo dei Priori…
A quel punto, però, si era creato un bel
casino perché Lorenzo de’ Medici aveva pagato il Generale Sforza e il suo
esercito e si trovava con loro alle porte di Firenze, minacciando di mettere a
ferro e fuoco la città se suo fratello non fosse stato liberato.
La situazione alquanto critica era
tuttavia stata risolta dall’intervento della volitiva Contessina che si era
presentata irrompendo a cavallo nel Palazzo dei Priori e aveva convinto i
membri della Signoria a commutare la condanna a morte di Cosimo in esilio, pena
l’attacco a Firenze da parte dell’esercito guidato da Francesco Sforza.
In conclusione, la famiglia Medici era
stata condannata all’esilio. Cosimo, invece di essere grato alla moglie che gli
aveva salvato la pellaccia, si era infuriato come una iena (forse preferiva
morire da martire?) e aveva deciso di
partire per Venezia con Lorenzo, Piero e Lucrezia lasciando Contessina a
Palazzo Medici… insieme al solo Giovanni che, com’è ovvio, non essendo un
Medici non aveva subito le conseguenze di quella condanna.
A dirla tutta, il ragazzo era rimasto
molto deluso da Cosimo: Contessina era stata tanto coraggiosa e aveva fatto di
tutto per amor suo e lui la trattava così male? Così, prima che Cosimo partisse
con la famiglia per Venezia, volle dirne quattro anche a lui (anche per la par condicio…).
“Messere, trovo che vi siate comportato
in maniera inqualificabile con vostra moglie che invece ha mostrato tanto
coraggio e tanto affetto nei vostri confronti” gli disse senza mezzi termini.
“Io l’ho ammirata molto e voi avreste dovuto fare lo stesso e ringraziarla, non
certo trattarla con una simile e ingiustificata durezza!”
Cosimo era ancora parecchio seccato per
via dell’esilio, tuttavia anche a lui non dispiaceva avere qualcuno che, ogni
tanto, gli dicesse le cose in faccia… visto che in fondo lo faceva per il suo
bene.
“Dovrei essere felice per una condanna
all’esilio? Proprio tu me lo dici? Eppure sai bene che cosa significhi”
replicò, brusco.
“Certo, ma so anche che dall’esilio si
può tornare, dalla tomba è un tantino più
difficile” ribatté Giovanni. “E poi l’idea di vostro fratello Lorenzo, far
saccheggiare Firenze dagli uomini di Sforza… ma che gli diceva il cervello?
Possibile che in questa città non ci sia nessuno che riesca a comportarsi come
una persona normale?”
Il Medici voleva mostrarsi arrabbiato,
ma il modo di fare di Giovanni gli metteva addosso una gran voglia di ridere.
Tuttavia ostentò ancora un’aria fredda e severa, aveva una reputazione da
mantenere, lui.
“Non è stata certo colpa di Lorenzo, lui
ha solo cercato di liberarmi. Albizzi ha avuto la possibilità di accettare le
nostre condizioni e le ha rifiutate sdegnoso” fece notare.
“Messer Albizzi, ah, certo, buono anche
quello!” esclamò il ragazzo, esasperato. “A volte penso che siate entrambi dei gran
testardi e che forse dovreste risolvere la questione che vi trascinate dietro
da vent’anni facendo a cornate tra di
voi. Sarei veramente curioso di vedere chi dei due ha la testa più dura!”
A quel punto Cosimo non riuscì più a
trattenersi e scoppiò in una gran risata.
“Forse avremmo dovuto farlo tanto tempo
fa, ma ormai è tardi” replicò. “Sono certo che Contessina saprà gestire gli
affari di famiglia al meglio durante la mia assenza e chissà, magari hai
ragione e un giorno i Medici potranno far ritorno a Firenze.”
“Ne sono convinto” affermò Giovanni.
Quando Cosimo uscì dal palazzo con la
sua famiglia, era ancora amareggiato con la moglie, ma il breve colloquio con
il giovane Uberti gli aveva risollevato almeno un po’ il morale e ridato
speranza. L’esilio non era la fine di tutto, Giovanni aveva ragione. Le cose
sarebbero potute cambiare, mentre la morte sarebbe stata… come dire… ben più definitiva. In esilio i Medici avrebbero
potuto fare amicizie, stringere alleanze e chissà, forse sarebbero rientrati a
Firenze prima del previsto.
Ma le cose non andavano
affatto bene a Firenze mentre Cosimo e la sua famiglia erano in esilio a
Venezia. Nei mesi successivi, Rinaldo Albizzi assoldò un gran numero di
mercenari per tenere la città in un regime di terrore ed essere più sicuro di
mantenere il potere, ma ottenne il solo risultato di rendersi ancora più odioso
agli occhi della gente comune, che pativa la fame e la perdita di casa e
lavoro, e perfino di alcuni degli stessi nobili, privati del loro potere e
consapevoli che la loro vita e quella dell’intera Firenze andava molto meglio
quando c’erano i Medici, che fossero o meno dei mercanti arricchiti.
Ancora peggio stavano
andando le cose per Giovanni, a cui sembrava di rivivere come in un incubo le
stesse persecuzioni e sofferenze provate dai suoi antenati: ancora una volta
una famiglia aveva assunto il potere con l’inganno, cacciando ingiustamente la
casata rivale; ancora una volta Firenze pativa la sottomissione forzata a un
tiranno e a mercenari stranieri e una lotta intestina che la dissanguava giorno
dopo giorno. Spesso il ragazzo pensava di aver commesso un grandissimo errore
venendo a Firenze con l’illusione che fosse un luogo diverso, dove gli Uberti
avrebbero riavuto gli onori che spettavano loro e dove finalmente la gente
avrebbe potuto vivere in pace e benessere, senza queste continue rivolte, senza
sicari che potevano tagliarti la gola in un vicolo o massacrarti di bastonate
per un capriccio.
E pensava anche che,
forse, tutto ciò che aveva sognato si sarebbe anche potuto avverare se i Medici
fossero rimasti al potere… ma la situazione era precipitata per colpa di
Albizzi, sì, quello stesso Albizzi a cui lui si era avvicinato, per il quale
aveva provato empatia, comprensione e… beh, sì, anche qualcos’altro che nemmeno
capiva bene.
Aveva sbagliato
tutto. Non avrebbe mai dovuto lasciarsi avvicinare da quell’uomo, anche se era
stato proprio Messer Cosimo a favorire quel legame, sperando in un’improbabile
riconciliazione con Rinaldo che proprio da quell’orecchio non ci sentiva. Erano
stati ingenui tutti e due, perfino Cosimo de’ Medici. Non c’era possibilità di
redenzione e di riconciliazione per uno come Albizzi, avrebbero dovuto
spazzarlo via e tanti saluti.
Eppure, ogni volta
che pensava così, Giovanni si sentiva male e non capiva perché.
Nel frattempo, Contessina
faceva il possibile per gestire gli affari dei Medici in una Firenze in piena
crisi e cercava anche alleanze con persone che avrebbero potuto aiutarla a
riportare a casa la sua famiglia. Una sera fu invitata ad una cena a Palazzo
Pazzi (che già allora non era un posto troppo sicuro in cui trovarsi…) da un
suo vecchio amico, innamorato di lei da sempre, Ezio Contarini. L’uomo
desiderava aiutarla e aveva pensato che partecipare a un banchetto al quale
erano presenti persone influenti come, appunto, Messer Pazzi, gli Albizzi, i
Contarini, il Gonfaloniere e altri sarebbe stato vantaggioso per lei. Dopo
molti ripensamenti, Contessina aveva accettato, ma a patto che con lei ci fosse
anche Giovanni. Non le sembrava corretto presentarsi ad una cena al fianco di
un suo vecchio spasimante proprio mentre il marito era in esilio, Dio solo
sapeva quante chiacchiere e calunnie girassero già sul suo conto: la presenza
di Giovanni avrebbe reso meno scandalosa quell’uscita e, inoltre, lui era un
Uberti e aveva pieno diritto di presenziare ad un banchetto di nobili.
Giovanni accettò
molto di malavoglia. Gli veniva l’orticaria al solo pensiero di metter piede a
Palazzo Pazzi (eh, già, non dimenticava il ruolo che quella famiglia aveva
avuto al fianco dei Donati nella persecuzione dei suoi antenati… e il lupo
perde il pelo ma non il vizio!) e, come se non bastasse, non aveva nessuna
voglia di ritrovarsi di fronte ad Albizzi. L’ultimo incontro avuto con lui era
stato soprattutto uno scontro, con quel ceffone che gli aveva tirato di fronte
a tutta la Signoria e le accuse urlate contro di lui e l’oltraggio alla sua
famiglia e… insomma, preferiva stargli lontano e basta.
Tuttavia non poteva
deludere Contessina che era sempre stata così gentile con lui.
Giovanni si era preparato
a una serata da schifo sotto ogni punto di vista, ma di certo non si aspettava
che le cose sarebbero andate ancora peggio del previsto!
Entrato nel salone di
Palazzo Pazzi accanto a Contessina, non ebbe neanche il tempo di sentirsi
rivoltare lo stomaco per la presenza del padrone di casa perché, proprio
accanto ad Andrea Pazzi e al Gonfaloniere Guadagni, a fare gli onori di casa in casa d’altri stava Rinaldo Albizzi,
tutto tronfio, compiaciuto e soddisfatto… con la moglie al fianco.
Albizzi accolse
Contessina con un gran sorriso (falso come Giuda) e cominciò a dire un mucchio
di cretinate sul fatto che l’ammirava per il suo coraggio, che conosceva bene
il suo nobile padre, che Cosimo era stato un vero sciocco a non seguire i suoi
saggi consigli e altre idiozie similari, ma Giovanni non capì una parola, non
le sentiva nemmeno, a dire il vero. Tutta la sua attenzione era stata catturata
dal modo in cui Madonna Albizzi stava appesa al braccio del marito con la
stessa espressione tronfia e soddisfatta su quella faccia da stronza,
ingioiellata come la Madonna in processione (questi furono i pensieri che
passarono per la mente del ragazzo…), e dalla naturalezza con cui
quell’ipocrita perverso di Albizzi faceva la parte del marito modello.
Il mal di stomaco che
aveva iniziato a torturare Giovanni già dal momento in cui aveva fatto il suo
ingresso nel salone di Pazzi si trasformò, di colpo, in un dolore acuto e
bruciante come se fosse stato trafitto da una spada infuocata e si irradiò
dallo stomaco al cuore, alla testa e in un sacco di altri posti.
Rabbia, dolore,
delusione, indignazione, mille sentimenti travolsero il ragazzino, che avrebbe
soltanto voluto mettersi a urlare.
Il Gonfaloniere
Guadagni, che lo aveva preso in simpatia fin dal suo primo duello verbale con
Albizzi (e che, forse, sperava di divertirsi anche quella sera), fu il primo ad
accorgersi del pallore mortale sul viso di Giovanni.
“Messer Uberti, vi
sentite bene?” domandò, preoccupato.
A quel punto anche
Contessina e Contarini si volsero verso di lui e la donna si spaventò vedendolo
in quelle condizioni.
“Giovanni, sei
pallidissimo e stai tremando, che cos’hai?” gli chiese, posandogli una mano
sulla fronte per sentire se avesse la febbre, ma il volto del ragazzo era
gelido. “Ti senti male? Ezio, forse dovremmo andarcene…”
“No” riuscì a
mormorare Giovanni, e la sua voce sembrava provenire dall’oltretomba, “no, non
voglio che vi disturbiate per me, Madonna. Io… io non mi sentivo bene già prima
di arrivare qui, credevo di farcela ma… ecco, preferisco tornare a Palazzo
Medici. Voi però restate pure con Messer Contarini, non vi preoccupate, non
voglio rovinarvi la cena.”
Dal canto suo
Albizzi, che ostentava generalmente la sensibilità di un pachiderma ma in
realtà era molto più acuto, aveva compreso perfettamente la ragione del
repentino malessere del ragazzo. Anzi, forse in un certo qual modo sapeva di
averlo perfino provocato, ma vedendolo stare così male aveva iniziato a provare
un principio di qualcosa che poteva ricordare, molto alla lontana, un senso di
colpa.
“Ti faremo
accompagnare a Palazzo Medici da qualcuno, non puoi andare da solo in queste
condizioni” disse, ma uno sguardo di puro odio di Giovanni lo azzittì seduta
stante.
“Conosco
perfettamente la strada” replicò in tono glaciale.
Per un istante tutti
ammutolirono, poi fu Contessina la prima a intervenire.
“Come preferisci,
Giovanni” disse, “il nostro Palazzo non è lontano e a casa ci sarà Emilia.
Rivolgiti a lei per qualsiasi bisogno, va bene? E io tornerò presto.”
“Vi ringrazio,
Madonna Contessina. Perdonatemi ancora, e anche voi, Messer Contarini” rispose
il ragazzo. “Vi auguro una buona serata.”
Rivolse poi uno
sguardo frettoloso davanti a sé.
“Buona serata anche a
voi, Messer Guadagni, e scusate questo spiacevole contrattempo” disse al
Gonfaloniere, ignorando ostentatamente tanto Pazzi quanto Albizzi e consorte.
Girò sui tacchi e se ne andò seguendo le regole della più elementare forma di
maleducazione, tanto per far capire al gruppetto che cosa pensava di loro.
Giovanni tornò in
fretta a Palazzo Medici, che in effetti non era molto lontano da Palazzo Pazzi
(pensate voi, erano pure vicini di casa!)
e camminare all’aria aperta gli permise di scaricare un po’ del nervosismo
accumulato. Però, nel momento in cui giunse a palazzo e riuscì ad arrivare fino
alla sua stanza, la tensione che lo aveva sostenuto fino a quell’istante si
sciolse e il ragazzo poté soltanto buttarsi sul letto, scoppiando in un lungo
pianto disperato, con singhiozzi che lo scuotevano e lo facevano tremare tutto.
Non
mi importa niente di quel bastardo ipocrita e tanto meno di quella mummia
ingioiellata che si tira dietro! Non me ne importa niente! Che tutti gli
Albizzi brucino all’inferno!
Ma forse qualcosa gli
importava, perché continuò a piangere e piangere finché, sfinito, non si
addormentò.
Il giorno dopo,
comunque, stava meglio. Contessina fu felice di vedere che aveva ripreso un
colorito sano e si sentì più tranquilla quando Giovanni le disse che sarebbe
uscito a fare due passi. Ovviamente anche lei sapeva che Cosimo aveva tentato
di avvicinarlo ad Albizzi nella speranza di una tregua fra loro e aveva
compreso che il ragazzo soffriva perché le cose erano finite così male… magari,
però, non immaginava che Giovanni l’avesse presa così sul personale!
Il giovane Uberti
stava passeggiando sulla riva dell’Arno e, nel frattempo, si diceva che avrebbe
dovuto cominciare seriamente a pensare alla possibilità di andarsene da Firenze
e di raggiungere il fratello e la madre a Mantova, quando venne avvicinato da un
servitore di Rinaldo Albizzi.
“Messer Uberti, il
mio padrone mi ha ordinato di consegnarvi questa lettera” disse l’uomo.
Giovanni guardò
l’incolpevole domestico come se fosse responsabile di tutti i mali del mondo.
“Vi prego, Messere,
prendetela, il mio padrone ha insistito molto” ripeté il servo.
Dite
pure al vostro padrone che può ficcarsi la sua lettera dove non batte il sole e
andarsene al diavolo, pensò il ragazzo, fissando la
missiva come se fosse qualcosa di schifoso appiccicato alla suola del suo stivale.
Tuttavia era pur sempre un giovane nobile e non pronunciò quelle parole. Alla
fine si arrese e prese la lettera, più che altro perché non voleva che quel
pover’uomo fosse punito per non avergliela consegnata. Però la tenne in mano
come se scottasse e non provò nemmeno ad aprirla.
“Beh, adesso l’ho
presa. Cosa ci fai ancora qui?”
“Messere, il mio
padrone mi ha ordinato di attendere la vostra risposta” rispose il servitore.
Un sorrisetto amaro
sfiorò le labbra di Giovanni.
“Ah, davvero? Molto
bene” disse. Accartocciò la missiva e senza pensarci due volte la gettò nel
fiume che scorreva poco distante. “Riferisci pure al tuo padrone che questa è la mia risposta!”
Il servo lo fissò,
allibito, poi chinò il capo in segno di saluto e si allontanò.
Ma
chi si crede di essere quel presuntuoso? Capirà presto cosa significa
oltraggiare un Uberti!
Il gesto impulsivo
era servito a sfogare la rabbia di Giovanni, ma nel cuore del ragazzo restava
una spina che pungeva forte e lo torturava e lui non capiva perché e nemmeno
come farla smettere…
Fine capitolo ottavo