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Autore: Abby_da_Edoras    19/07/2019    4 recensioni
Con questa long fic vado a infastidire anche la prima stagione della serie TV "I Medici", ma per un buon motivo: come sempre, salvare la vita ai personaggi che mi sono piaciuti e, anche in questo caso, uso la tecnica della leggerezza, della parodia, e inserisco un personaggio originale, Giovanni Uberti, il cui prestavolto è l'attore che interpreta Jeremy Gilbert in The Vampire Diaries (non c'entra niente, ma mi piaceva!). Dunque, Giovanni arriva a Firenze per motivi tutti suoi, personali e familiari, e si troverà suo malgrado proprio nel bel mezzo delle lotte intestine tra Medici e Albizzi. Nonostante all'inizio non voglia assolutamente farsi coinvolgere, poi si troverà fin troppo coinvolto! E sarà lieto fine per tutti, perché io scrivo per questo.
Voglio mettere in chiaro che in questa storia mi ispiro esclusivamente alla serie TV e che non voglio minimamente arrecare offesa a qualunque personaggio storico venga nominato. Per le parti relative agli Uberti e alla loro storia, mi ispiro al romanzo "Il Cavaliere del giglio" di Carla Maria Russo.
Non scrivo a scopo di lucro e personaggi e situazioni appartengono a autori, registi e produttori della serie TV "I
Genere: Angst, Commedia, Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Medici Abby's Version'
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Capitolo ottavo

 

And I won't bow, I won't break
No, I'm not afraid of you whatever it takes
I'll never bow, I'll never break

'Cause I'm a warrior
I fight for my life like a soldier
All through the night
And I won't give up, I will survive
I'm a warrior
And I'm stronger, that's why I'm alive
I will conquer, time after time
I'll never falter, I will survive
I'm a warrior.

(“Warrior” – Avril Lavigne)

 

Alla fine Rinaldo Albizzi era riuscito a prendere la Signoria per sfinimento, anche perché non avrebbe smesso di convocare assemblee finché la maggioranza non avesse votato la condanna di Cosimo! Così quei poveretti dovettero, in effetti, dare il loro voto per condannare il Medici: in caso contrario, probabilmente non sarebbero mai più ritornati a casa dai loro cari, imprigionati a vita nel Palazzo dei Priori…

A quel punto, però, si era creato un bel casino perché Lorenzo de’ Medici aveva pagato il Generale Sforza e il suo esercito e si trovava con loro alle porte di Firenze, minacciando di mettere a ferro e fuoco la città se suo fratello non fosse stato liberato.

La situazione alquanto critica era tuttavia stata risolta dall’intervento della volitiva Contessina che si era presentata irrompendo a cavallo nel Palazzo dei Priori e aveva convinto i membri della Signoria a commutare la condanna a morte di Cosimo in esilio, pena l’attacco a Firenze da parte dell’esercito guidato da Francesco Sforza.

In conclusione, la famiglia Medici era stata condannata all’esilio. Cosimo, invece di essere grato alla moglie che gli aveva salvato la pellaccia, si era infuriato come una iena (forse preferiva morire da martire?) e aveva deciso di partire per Venezia con Lorenzo, Piero e Lucrezia lasciando Contessina a Palazzo Medici… insieme al solo Giovanni che, com’è ovvio, non essendo un Medici non aveva subito le conseguenze di quella condanna.

A dirla tutta, il ragazzo era rimasto molto deluso da Cosimo: Contessina era stata tanto coraggiosa e aveva fatto di tutto per amor suo e lui la trattava così male? Così, prima che Cosimo partisse con la famiglia per Venezia, volle dirne quattro anche a lui (anche per la par condicio…).

“Messere, trovo che vi siate comportato in maniera inqualificabile con vostra moglie che invece ha mostrato tanto coraggio e tanto affetto nei vostri confronti” gli disse senza mezzi termini. “Io l’ho ammirata molto e voi avreste dovuto fare lo stesso e ringraziarla, non certo trattarla con una simile e ingiustificata durezza!”

Cosimo era ancora parecchio seccato per via dell’esilio, tuttavia anche a lui non dispiaceva avere qualcuno che, ogni tanto, gli dicesse le cose in faccia… visto che in fondo lo faceva per il suo bene.

“Dovrei essere felice per una condanna all’esilio? Proprio tu me lo dici? Eppure sai bene che cosa significhi” replicò, brusco.

“Certo, ma so anche che dall’esilio si può tornare, dalla tomba è un tantino più difficile” ribatté Giovanni. “E poi l’idea di vostro fratello Lorenzo, far saccheggiare Firenze dagli uomini di Sforza… ma che gli diceva il cervello? Possibile che in questa città non ci sia nessuno che riesca a comportarsi come una persona normale?”

Il Medici voleva mostrarsi arrabbiato, ma il modo di fare di Giovanni gli metteva addosso una gran voglia di ridere. Tuttavia ostentò ancora un’aria fredda e severa, aveva una reputazione da mantenere, lui.

“Non è stata certo colpa di Lorenzo, lui ha solo cercato di liberarmi. Albizzi ha avuto la possibilità di accettare le nostre condizioni e le ha rifiutate sdegnoso” fece notare.

“Messer Albizzi, ah, certo, buono anche quello!” esclamò il ragazzo, esasperato. “A volte penso che siate entrambi dei gran testardi e che forse dovreste risolvere la questione che vi trascinate dietro da vent’anni facendo a cornate tra di voi. Sarei veramente curioso di vedere chi dei due ha la testa più dura!”

A quel punto Cosimo non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una gran risata.

“Forse avremmo dovuto farlo tanto tempo fa, ma ormai è tardi” replicò. “Sono certo che Contessina saprà gestire gli affari di famiglia al meglio durante la mia assenza e chissà, magari hai ragione e un giorno i Medici potranno far ritorno a Firenze.”

“Ne sono convinto” affermò Giovanni.

Quando Cosimo uscì dal palazzo con la sua famiglia, era ancora amareggiato con la moglie, ma il breve colloquio con il giovane Uberti gli aveva risollevato almeno un po’ il morale e ridato speranza. L’esilio non era la fine di tutto, Giovanni aveva ragione. Le cose sarebbero potute cambiare, mentre la morte sarebbe stata… come dire… ben più definitiva. In esilio i Medici avrebbero potuto fare amicizie, stringere alleanze e chissà, forse sarebbero rientrati a Firenze prima del previsto.

Ma le cose non andavano affatto bene a Firenze mentre Cosimo e la sua famiglia erano in esilio a Venezia. Nei mesi successivi, Rinaldo Albizzi assoldò un gran numero di mercenari per tenere la città in un regime di terrore ed essere più sicuro di mantenere il potere, ma ottenne il solo risultato di rendersi ancora più odioso agli occhi della gente comune, che pativa la fame e la perdita di casa e lavoro, e perfino di alcuni degli stessi nobili, privati del loro potere e consapevoli che la loro vita e quella dell’intera Firenze andava molto meglio quando c’erano i Medici, che fossero o meno dei mercanti arricchiti.

Ancora peggio stavano andando le cose per Giovanni, a cui sembrava di rivivere come in un incubo le stesse persecuzioni e sofferenze provate dai suoi antenati: ancora una volta una famiglia aveva assunto il potere con l’inganno, cacciando ingiustamente la casata rivale; ancora una volta Firenze pativa la sottomissione forzata a un tiranno e a mercenari stranieri e una lotta intestina che la dissanguava giorno dopo giorno. Spesso il ragazzo pensava di aver commesso un grandissimo errore venendo a Firenze con l’illusione che fosse un luogo diverso, dove gli Uberti avrebbero riavuto gli onori che spettavano loro e dove finalmente la gente avrebbe potuto vivere in pace e benessere, senza queste continue rivolte, senza sicari che potevano tagliarti la gola in un vicolo o massacrarti di bastonate per un capriccio.

E pensava anche che, forse, tutto ciò che aveva sognato si sarebbe anche potuto avverare se i Medici fossero rimasti al potere… ma la situazione era precipitata per colpa di Albizzi, sì, quello stesso Albizzi a cui lui si era avvicinato, per il quale aveva provato empatia, comprensione e… beh, sì, anche qualcos’altro che nemmeno capiva bene.

Aveva sbagliato tutto. Non avrebbe mai dovuto lasciarsi avvicinare da quell’uomo, anche se era stato proprio Messer Cosimo a favorire quel legame, sperando in un’improbabile riconciliazione con Rinaldo che proprio da quell’orecchio non ci sentiva. Erano stati ingenui tutti e due, perfino Cosimo de’ Medici. Non c’era possibilità di redenzione e di riconciliazione per uno come Albizzi, avrebbero dovuto spazzarlo via e tanti saluti.

Eppure, ogni volta che pensava così, Giovanni si sentiva male e non capiva perché.

Nel frattempo, Contessina faceva il possibile per gestire gli affari dei Medici in una Firenze in piena crisi e cercava anche alleanze con persone che avrebbero potuto aiutarla a riportare a casa la sua famiglia. Una sera fu invitata ad una cena a Palazzo Pazzi (che già allora non era un posto troppo sicuro in cui trovarsi…) da un suo vecchio amico, innamorato di lei da sempre, Ezio Contarini. L’uomo desiderava aiutarla e aveva pensato che partecipare a un banchetto al quale erano presenti persone influenti come, appunto, Messer Pazzi, gli Albizzi, i Contarini, il Gonfaloniere e altri sarebbe stato vantaggioso per lei. Dopo molti ripensamenti, Contessina aveva accettato, ma a patto che con lei ci fosse anche Giovanni. Non le sembrava corretto presentarsi ad una cena al fianco di un suo vecchio spasimante proprio mentre il marito era in esilio, Dio solo sapeva quante chiacchiere e calunnie girassero già sul suo conto: la presenza di Giovanni avrebbe reso meno scandalosa quell’uscita e, inoltre, lui era un Uberti e aveva pieno diritto di presenziare ad un banchetto di nobili.

Giovanni accettò molto di malavoglia. Gli veniva l’orticaria al solo pensiero di metter piede a Palazzo Pazzi (eh, già, non dimenticava il ruolo che quella famiglia aveva avuto al fianco dei Donati nella persecuzione dei suoi antenati… e il lupo perde il pelo ma non il vizio!) e, come se non bastasse, non aveva nessuna voglia di ritrovarsi di fronte ad Albizzi. L’ultimo incontro avuto con lui era stato soprattutto uno scontro, con quel ceffone che gli aveva tirato di fronte a tutta la Signoria e le accuse urlate contro di lui e l’oltraggio alla sua famiglia e… insomma, preferiva stargli lontano e basta.

Tuttavia non poteva deludere Contessina che era sempre stata così gentile con lui.

Giovanni si era preparato a una serata da schifo sotto ogni punto di vista, ma di certo non si aspettava che le cose sarebbero andate ancora peggio del previsto!

Entrato nel salone di Palazzo Pazzi accanto a Contessina, non ebbe neanche il tempo di sentirsi rivoltare lo stomaco per la presenza del padrone di casa perché, proprio accanto ad Andrea Pazzi e al Gonfaloniere Guadagni, a fare gli onori di casa in casa d’altri stava Rinaldo Albizzi, tutto tronfio, compiaciuto e soddisfatto… con la moglie al fianco.

Albizzi accolse Contessina con un gran sorriso (falso come Giuda) e cominciò a dire un mucchio di cretinate sul fatto che l’ammirava per il suo coraggio, che conosceva bene il suo nobile padre, che Cosimo era stato un vero sciocco a non seguire i suoi saggi consigli e altre idiozie similari, ma Giovanni non capì una parola, non le sentiva nemmeno, a dire il vero. Tutta la sua attenzione era stata catturata dal modo in cui Madonna Albizzi stava appesa al braccio del marito con la stessa espressione tronfia e soddisfatta su quella faccia da stronza, ingioiellata come la Madonna in processione (questi furono i pensieri che passarono per la mente del ragazzo…), e dalla naturalezza con cui quell’ipocrita perverso di Albizzi faceva la parte del marito modello.

Il mal di stomaco che aveva iniziato a torturare Giovanni già dal momento in cui aveva fatto il suo ingresso nel salone di Pazzi si trasformò, di colpo, in un dolore acuto e bruciante come se fosse stato trafitto da una spada infuocata e si irradiò dallo stomaco al cuore, alla testa e in un sacco di altri posti.

Rabbia, dolore, delusione, indignazione, mille sentimenti travolsero il ragazzino, che avrebbe soltanto voluto mettersi a urlare.

Il Gonfaloniere Guadagni, che lo aveva preso in simpatia fin dal suo primo duello verbale con Albizzi (e che, forse, sperava di divertirsi anche quella sera), fu il primo ad accorgersi del pallore mortale sul viso di Giovanni.

“Messer Uberti, vi sentite bene?” domandò, preoccupato.

A quel punto anche Contessina e Contarini si volsero verso di lui e la donna si spaventò vedendolo in quelle condizioni.

“Giovanni, sei pallidissimo e stai tremando, che cos’hai?” gli chiese, posandogli una mano sulla fronte per sentire se avesse la febbre, ma il volto del ragazzo era gelido. “Ti senti male? Ezio, forse dovremmo andarcene…”

“No” riuscì a mormorare Giovanni, e la sua voce sembrava provenire dall’oltretomba, “no, non voglio che vi disturbiate per me, Madonna. Io… io non mi sentivo bene già prima di arrivare qui, credevo di farcela ma… ecco, preferisco tornare a Palazzo Medici. Voi però restate pure con Messer Contarini, non vi preoccupate, non voglio rovinarvi la cena.”

Dal canto suo Albizzi, che ostentava generalmente la sensibilità di un pachiderma ma in realtà era molto più acuto, aveva compreso perfettamente la ragione del repentino malessere del ragazzo. Anzi, forse in un certo qual modo sapeva di averlo perfino provocato, ma vedendolo stare così male aveva iniziato a provare un principio di qualcosa che poteva ricordare, molto alla lontana, un senso di colpa.

“Ti faremo accompagnare a Palazzo Medici da qualcuno, non puoi andare da solo in queste condizioni” disse, ma uno sguardo di puro odio di Giovanni lo azzittì seduta stante.

“Conosco perfettamente la strada” replicò in tono glaciale.

Per un istante tutti ammutolirono, poi fu Contessina la prima a intervenire.

“Come preferisci, Giovanni” disse, “il nostro Palazzo non è lontano e a casa ci sarà Emilia. Rivolgiti a lei per qualsiasi bisogno, va bene? E io tornerò presto.”

“Vi ringrazio, Madonna Contessina. Perdonatemi ancora, e anche voi, Messer Contarini” rispose il ragazzo. “Vi auguro una buona serata.”

Rivolse poi uno sguardo frettoloso davanti a sé.

“Buona serata anche a voi, Messer Guadagni, e scusate questo spiacevole contrattempo” disse al Gonfaloniere, ignorando ostentatamente tanto Pazzi quanto Albizzi e consorte. Girò sui tacchi e se ne andò seguendo le regole della più elementare forma di maleducazione, tanto per far capire al gruppetto che cosa pensava di loro.

Giovanni tornò in fretta a Palazzo Medici, che in effetti non era molto lontano da Palazzo Pazzi (pensate voi, erano pure vicini di casa!) e camminare all’aria aperta gli permise di scaricare un po’ del nervosismo accumulato. Però, nel momento in cui giunse a palazzo e riuscì ad arrivare fino alla sua stanza, la tensione che lo aveva sostenuto fino a quell’istante si sciolse e il ragazzo poté soltanto buttarsi sul letto, scoppiando in un lungo pianto disperato, con singhiozzi che lo scuotevano e lo facevano tremare tutto.

Non mi importa niente di quel bastardo ipocrita e tanto meno di quella mummia ingioiellata che si tira dietro! Non me ne importa niente! Che tutti gli Albizzi brucino all’inferno!

Ma forse qualcosa gli importava, perché continuò a piangere e piangere finché, sfinito, non si addormentò.

Il giorno dopo, comunque, stava meglio. Contessina fu felice di vedere che aveva ripreso un colorito sano e si sentì più tranquilla quando Giovanni le disse che sarebbe uscito a fare due passi. Ovviamente anche lei sapeva che Cosimo aveva tentato di avvicinarlo ad Albizzi nella speranza di una tregua fra loro e aveva compreso che il ragazzo soffriva perché le cose erano finite così male… magari, però, non immaginava che Giovanni l’avesse presa così sul personale!

Il giovane Uberti stava passeggiando sulla riva dell’Arno e, nel frattempo, si diceva che avrebbe dovuto cominciare seriamente a pensare alla possibilità di andarsene da Firenze e di raggiungere il fratello e la madre a Mantova, quando venne avvicinato da un servitore di Rinaldo Albizzi.

“Messer Uberti, il mio padrone mi ha ordinato di consegnarvi questa lettera” disse l’uomo.

Giovanni guardò l’incolpevole domestico come se fosse responsabile di tutti i mali del mondo.

“Vi prego, Messere, prendetela, il mio padrone ha insistito molto” ripeté il servo.

Dite pure al vostro padrone che può ficcarsi la sua lettera dove non batte il sole e andarsene al diavolo, pensò il ragazzo, fissando la missiva come se fosse qualcosa di schifoso appiccicato alla suola del suo stivale. Tuttavia era pur sempre un giovane nobile e non pronunciò quelle parole. Alla fine si arrese e prese la lettera, più che altro perché non voleva che quel pover’uomo fosse punito per non avergliela consegnata. Però la tenne in mano come se scottasse e non provò nemmeno ad aprirla.

“Beh, adesso l’ho presa. Cosa ci fai ancora qui?”

“Messere, il mio padrone mi ha ordinato di attendere la vostra risposta” rispose il servitore.

Un sorrisetto amaro sfiorò le labbra di Giovanni.

“Ah, davvero? Molto bene” disse. Accartocciò la missiva e senza pensarci due volte la gettò nel fiume che scorreva poco distante. “Riferisci pure al tuo padrone che questa è la mia risposta!”

Il servo lo fissò, allibito, poi chinò il capo in segno di saluto e si allontanò.

Ma chi si crede di essere quel presuntuoso? Capirà presto cosa significa oltraggiare un Uberti!

Il gesto impulsivo era servito a sfogare la rabbia di Giovanni, ma nel cuore del ragazzo restava una spina che pungeva forte e lo torturava e lui non capiva perché e nemmeno come farla smettere…

Fine capitolo ottavo

   
 
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