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Autore: Ellie_x3    21/07/2019    7 recensioni
Aveva sperimentato un tipo ben diverso d'amore, lui, un sentimento crudele e meschino che non faceva altro che male.
Tagliava in profondità le membra di un uomo, recidendo i muscoli, non lasciando altro che languore, scavando nelle ossa fino a prosciugare qualsiasi ricordo dell'essere umano che era stato in passato. Il sentimento mostrato da Alain aveva in sé la dolce sfrontatezza dell'attrazione: inequivocabile, sì, ma di gran lunga meno disperato e violento di ciò che provava Rossignol.
Magari, si disse, non esistono tipo diversi d'amore, ma solo uomini che lo vivono diversamente.
Forse Rossignol stava mentendo e non era affatto amore quello che provava per Alain, ma una cosa era certa: Alain era innamorato di lui.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
Capitoli:
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VI


Non appena ebbe sbrigato le formalità e si fu sistemato nuovamente negli appartamenti riservati alla sua famiglia nel cuore del palazzo, Rossignol si trovò posto di fronte ad un bivio: versarsi così tanto vino da potervi annegare, scivolando in un dolce oblio alcolico insieme ad una domestica o due e svariati paggi mandando al diavolo tutti gli altri, oppure agire con metodo e dedicarsi alle questioni che aveva evitato fino ad allora.
Tuttavia aveva la terribile sensazione che una volta finito il vino, liberato l'ultimo cicisbeo, cantata l'ultima aria, i problemi sarebbero stati lì ad aspettarlo, esattamente dove li aveva lasciati.
Non aveva una vera scelta.

“Porta questo al duca D'Ovigny. Non occorre che tu rimanga ad aspettare una risposta immediata,” aveva istruito Remis, consegnando nelle sue mani fidate un biglietto in carta d'avorio.
Dovevano vedersi per chiarire la questione lasciata in sospeso prima che questa si ingigantisse, e discutere di ciò che era stato promesso da d’Artois; non era un patrono che Rossignol stava cercando, vero, ma non aveva in animo di rifiutare un’offerta del genere nel caso si presentasse. Che la clausola fosse casta amicizia, beh, preferiva riferirglielo di persona. 

Mai, mai, il giovane avrebbe sospettato di veder comparire meno di un’ora dopo Remis con un altro biglietto, la cui cera era ancora tiepida.
“Una risposta, così in fretta?” domandò, aggrottando la fronte.
Giovane com'era, raramente gli era capitato di scontrarsi con le trame ordite dal destino, un giocatore d’azzardo che si divertiva nel scegliere il peggior momento per muovere i fili degli eventi.

Remis scosse la testa.
“No, monsieur. Ho recapitato l’invito come istruito, ma monsieur le duc non era nei suoi appartamenti.”
Rossignol, inarcando un sopracciglio, allungò una mano per farsi consegnare la lettera.
Anche se avesse avuto sospetti sul destinatario, la rarità di un emissario che si disturbava a sigillare dei biglietti informali all'interno del palazzo non lasciava dubbi.
“Chi te l'ha data, Remis?”
“Martin, monsieur. Per voi, dal Principe di Waldeck-Pyrmont.”
Rossignol, confermato il proprio dubbio, ebbe l'istinto di lasciar andare la lettera e calpestarla.
Dunque lo teneva d’occhio!
Come sempre, dopo settimane di silenzio, il suo confessore compariva con un tempismo che sfiorava il ridicolo. Non solo quel principe capriccioso l'aveva fatto aspettare 
rendendo tutta la faccenda più pietosa e risibile di quanto fosse in partenza ma decideva di intralciare anche le buone azioni di Rossignol nei confronti di D'Ovigny.
Come poteva essere felice di ricevere quel biglietto, se da una parte era stremato per tutto il pensare al pover’uomo, alle sue pene amorose ed a come mettervi fine senza sconvolgerlo? Come poteva non provare un briciolo di pietà né per l'uno né per l'altro, quando desiderava che fossero entrambi delle signore rispettabili e non dei più che onorevoli gentiluomini?
Nessuno dei due gli era indifferente, dopotutto; aveva gli occhi

“Ha lasciato detto qualcosa? Desidera incontrarmi?”
“No, signore. Non ha detto nulla.”
Oh, meraviglioso.
Ora il principe scriveva i propri inviti di bentornato sui tovaglioli, sulle cartacce, senza uno straccio di visita amichevole, senza cortesia. E dire che Rossignol gli aveva anche scritto, prestandosi così alla parte del folle, di incontrarlo non appena fosse stato libero. 

Ma perché proprio ora, quando era dovere di Rossignol esser buono con D'Ovigny...
“Lasciami solo, Remis. Ti darò disposizioni quanto prima.”
Guardò lungamente il biglietto, che sembrava essere stato appallottolato e poi rimesso insieme, e con le mani che tremavano staccò il sigillo di ceralacca.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, quante volte la pendola sul caminetto — Afrodite, nel suo peplo d’oro, pronta a ridere di lui — ma Rossignol non si accorse di avere le lacrime agli occhi se non quando una gli scivolò lungo il mento, piovendo sulla carta.
Quella lettera valeva più quella di ogni parola che fosse mai stata scambiata fra loro. E le avrebbe rilette ancora una volta, quelle parole, se non avesse sentito una voce conosciuta che l’aveva fatto sussultare violentemente.
D'Ovigny aveva mantenuto la parola.
“Rossignol?” si sentì chiamare, e la voce aveva una buffa nota preoccupata, come se il gentiluomo fosse sorpreso di trovarlo con gli occhi lucidi e paonazzo, per non parlare dei capelli scompigliati e la giacca aperta. “Avevo ricevuto il vostro biglietto, mon ami, ma se siete indisposto posso...”
Quella singola lacrima pareva turbare D'Ovigny e Rossignol avrebbe voluto urlare, spiegare che aveva appena ricevuto una notizia meravigliosa. Era sollevato dalle insistenze di un uomo ed era libero, se non condiscendente, a gettarsi fra le braccia di un altro.
Al diavolo anche le signore, a questo punto, si disse.
Era altro quello che il destino continuava a gettargli addosso, e se lo sarebbe fatto bastare senza più lamentarsi perchè era stanco di cerca di risalire la corrente, esausto, e voleva lasciarsi andare.
Sarebbe stato così bello lasciarsi andare, se solo qualcuno fosse stato disposto ad aspettarlo nell'abisso.

Rossignol alzò gli occhi lentamente, senza preoccuparsi di asciugarli col fazzoletto. Sorrise, ma non riuscì ad essere convincente nemmeno con sé stesso.
Lui e il principe T., nella lunga separazione, sembravano non vedersi da millenni: com'era, allora, che il viso di D'Ovigny rimaneva così familiare a Rossignol, così chiaramente delineato nonostante non lo vedesse dallo stesso tempo?
Era come se qualcuno avesse sfumato i contorni di ogni ricordo che il ragazzo condivideva con il principe e, se erano mai stati reali, non aveva più importanza.

“Voi siete venuto a vedermi.” mormorò, la voce animata da una sincera gratitudine. Lui era lì e, Rossignol non poté nascondere nemmeno a sé stesso la delusione, lui non aveva avuto paura. “No, duca, vi prego. Rimanete.”
D'Ovigny si avvicinò di un passo e Rossignol, seppur annebbiato dalla velocità con cui si erano susseguiti gli eventi, notò che il conte lo guardava senza prestare la minima attenzione all'ambiente circostante, nonostante fosse la prima volta che entrava nei suoi appartamenti.
“Volete dirmi cosa vi è successo, Rossignol? Sembrate sofferente.”
“Lo sono,” ammise il ragazzo, in un sussurro. “Ma non ha importanza. Con voi qui per un po', posso dimenticarmene.”
D’Ovigny si umettò le labbra, spostando il peso da un piede all’altro. Indossava il disagio con dignità, come un mantello drappeggiato sulle spalle di un cavaliere.
Sì, forse un cavaliere era quello di cui aveva bisogno.
“Rossignol, non dovete sforzarvi.”
“Davvero, voglio vedervi; il modo in cui vi ho trascurato è imperdonabile e voglio che lasciate che vi ponga rimedio," sospirò, posando la lettera accanto a sé. “Ho pensato molto alle parole che mi avevate rivolto, anche se non ho mai avuto il coraggio di scrivervi; credo che abbiate ragione. Credo, con la giusta prudenza e il benestare di d’Artois, di avere un accordo da proporvi.”
D’Ovigny annuì.
“Avete tutta la mia attenzione,” assicurò.
Dopotutto, il suo stile di vita dispendioso non si pagava da solo, le scarpe di velluto e le rendite per le scommesse non si acquistavano con le buone intenzioni ma con i regali di amanti fedeli; uomini e donne come la Polignac, come D’Ovigny.
Con tutta la disperazione di quell'attimo, Rossignol si disse che non poteva di certo disattendere le segrete speranze di d'Artois e D'Ovingy.
Né, principalmente, quelle del principe T. stesso, che tanto ambiva alla sofferenza d'un martire.

Con il dorso della mano Rossignol si asciugò alla buona le guance umide di lacrime e si alzò; distrattamente, si augurò che la luce delle candele facesse giustizia agli occhi scintillanti di lacrime e al viso arrossato.
“Non vi dispiace cenare con me questa sera, non è vero, monsieur? E se declinerete ne sarò molto offeso, questo dovete saperlo. Ho bisogno di avere compagnia, sapete, dopo tutta quella campagna, e voi mi siete caro. Mi fa molto piacere che mi facciate visita con così tanta sollecitudine e che abbiate la bontà di perdonare i torti che in passato vi ho arrecato.”
A quelle parole D'Ovigny spalancò gli occhi, che erano d'un color rame che Rossignol non aveva mai notato prima, e protese le braccia verso di lui in un gesto amichevole.
“Non siate così sorpreso, Rossignol, vi prego.” disse. Sforzò un sorriso, andando ad appoggiargli le mani sulle spalle – e com'erano grandi, quelle mani dalle dita sottili, in confronto all'ossatura femminea di Rossignol. “Certo che sono venuto a vedervi... C'è forse qualcuno con cui avete litigato?”
Il ragazzo dovette trattenersi dal non urlare il nome del principe T., dal non sputarlo nella conversazione con sdegno.
Annuì, invece, sentendo testa pesante.

Stare in piedi come sciocchi, l'uno con le mani sulle spalle dell'altro, sorprendentemente non gli causava alcun imbarazzo.
“No.”

 

 

“Bentornato, mio più caro amico.
Perdonatemi se potete, poichè non ho la forza, il coraggio né il desiderio di arrischiarmi a incontrarvi.
Temo che il mio comportamento nel vedervi dopo una così lunga separazione andrebbe contro il riguardo che vi state così duramente imponendo, in quanto non sono certo passati inosservati i molti sforzi per nascondere quelli che spero essere i vostri reali pensieri.

Sono immensamente felice nel sapervi di nuovo a Versailles, questo lo dovete sapere.
Trascorro i momenti prima di andare a dormire ad immaginare come potrebbe avvenire un incontro casuale, come potreste rivolgermi quel vostro sorriso e accusarmi ancora una volta delle mille colpe che trovate in me, ma ora che mi chiedete di vedervi non ho che una risposta: non posso. So, sono certo, che supererei ampiamente i limiti del rispetto, dell’amicizia, della fiducia.
Non sono un uomo coraggioso, Rossignol.
Se lo fossi, avrei perseguito l’arte della guerra piuttosto che quella dell’inezia.

Per tutto quello che resta da dirci, lascerò che ciò che non vi scrivo arrivi ugualmente al vostro orecchio. Mi auguro che troverete conforto nel fatto che stia infine rispettando il vostro desiderio di seppellire tutto quello che è accaduto nel passato, e lasciarvi finalmente libero di esercitare le vostre amicizie come preferite.

Sinceramente e sentitamente vostro,

T.

Principe di Waldeck-Pyrmont”

 

Lungi dall'essere rispettose dei sentimenti altrui come dichiaravano di voler essere, dire che tali parole avevano sconvolto il giovane animo di Rossignol era riduttivo. Ogni lettera, ogni tracciato d’inchiostro l’aveva scosso, riportando a galla gli avvertimenti di d’Artois; il principe era una creatura fragile, ma non v’era nulla di delicato in quelle parole.
Infine, quando l'aveva esposto, si tirava indietro.
Rossignol aveva la bizzarra sensazione d’essere stato abbandonato su una scogliera un istante prima di buttarsi. Si trovava preda del vento battente, solitario, lasciato a sentirsi sciocco in egual maniera per i rischi assunti e le speranze disattese.

D'Ovigny, d'altra parte, era l'ultima persona da cui il ragazzo si sarebbe dovuto o potuto rivolgere per sfogare il tumulto che la lettera aveva sollevato: era furioso e offeso ma non avrebbe dovuto lasciar trapelare il minimo turbamento.
Come poteva T., un principe, dimostrarsi tanto disonesto?
In fondo, Rossignol aveva sempre temuto che quello sguardo così torbido, sporcato dalla presenza che doveva essere divina se non diabolica, prima o poi avrebbe mosso il primo passo indietro, tremante e terrorizzato. 

La vera motivazione dietro quella visita mancata era semplice viltà. Certo, v'erano stati dei segnali in passato; come avesse potuto non coglierli, Rossignol non se ne capacitava. Furono le stesse mani di T. — Rossignol giurò di sentirle spingerlo in piedi, e giurò di sentire le sue dita che tracciavano un sorriso sul suo volto — a trascinarlo verso il nuovo arrivato e a rendere le cose facili.
Il principe, per quanto l'avesse fatto penare nel recente passato, era un capitolo chiuso; D'Ovigny, invece, ringalluzzito dalle cortesi insistenze di quell'impiccione di Charles Philippe d'Artois, era lì davanti a lui. 


#

 

 

“Ditemi, siete felice di essere tornato?”
In quel caso era una domanda molto semplice e Rossignol gliene fu grato. In particolare, le apprezzava quando ogni parte del suo corpo era priva di forza, così languida, rendendolo un’entità malleabile in corpi più grandi e decisi del proprio, ma che nondimeno sapeva guidare perché conoscessero esattamente come muoversi per incontrare ogni suo desiderio. Ma amava quel genere di domande semplici anche perchè avevano spesso una risposta facile dietro la quale nascondersi, e non perse l'occasione, stiracchiandosi:
“Tanto. Tutto questo mi mancava terribilmente e temo di non essere fatto per la vita in campagna...” esitò, scoccando all'uomo steso fra le coperte uno di quei suoi sorrisetti maliziosi prima di alzarsi. Afferrò la camicia abbandonata sul pavimento, conscio di un paio d’occhi troppo chiari fissi sulla sua schiena nuda.
Era conscio dell’effetto che la propria figura snella poteva suscitare, illuminata dalle luci del giardino che penetravano nella stanza dalla porta finestra, e indossò la camicia con studiata lentezza, lasciando che cadesse morbidamente sui fianchi nudi.

“Mi domando come facciate voi, duca, a vivere in un luogo dove si cacciano lupi e ci si ritrova ancora in castelli di pietra. Non vi sentite incupiti e freddi?”
D'Ovigny rise, un suono ricco che lo scosse da capo a piedi.
Era un peccato non poter apprezzare appieno una voce così bella, un uomo così amabile, un amante così abile.
D'ovigny, da gentiluomo che era, non si sarebbe mai imposto sui desideri di una fanciulla e, per qualche motivo che non comprendeva, Rossignol godeva dei medesimi privilegi.
“Non è forse per questo che veniamo in villeggiatura dove la civiltà è più sofisticata?” replicò, e per un attimo Rossignol fu costretto a fronteggiarlo. Nei modi di Alain scopriva le spiagge argentee e i castelli Arturiani che si ergevano come giganti, il mare gelido e i vecchi lupi che scendevano ogni estate. “Però dovete ricordare, Rossignol, che in ogni uomo di montagna langue una voce che lo richiama alle sue valli e ai suoi castelli.”
Rossignol sorrise a quella rivelazione, tornando a sedersi ai piedi del letto.
“E sono forse voci cavernose quelle che vi chiamano, duca?”
D'Ovigny annuì, tendendosi verso il ragazzo con quell'aria complice che dava al discorso un senso di mistero, come se stesse rivelando un segreto.
“Spaventosamente cavernose.”
“Com'è antiquato,” considerò Rossignol, scoppiando finalmente in una risata. “Permettetemi di dirvi che le vostre lugubri voci dei monti non mi attraggono: preferisco di gran lunga quelle dei boschetti, o delle aiuole.”
Il duca, dopo un attimo di silenzio, annuì e si tirò indietro.
Rossignol sentì sul proprio viso lo sguardo tagliente di D'Ovigny, con la netta sensazione che l'espressione dell'uomo non fosse più né allegra né piacevole: solo mortalmente seria.

“É comprensibile.” disse, ma sembrava un'altra persona. Cos'era tutta quella gravità, quella melanconia? Rossignol temeva la risposta e non chiese, ma ciò non rese più piacevole il cambiamento. “Hanno voci più simili alla vostra.”

 

 #

 

Quella mattina, Rossignol si mise a letto con un grosso peso che gli opprimeva il petto. D'Ovigny se n'era andato senza dire quando si sarebbero visti nuovamente.
Aveva detto qualcosa di strano? Se non fosse stato per le rassicurazioni di d'Artois, nonché l'infraintendibile luce negli occhi di D'Ovigny sopra di lui, le tracce arrossate delle sue unghie sulla sua schiena, Rossignol sarebbe stato certo di aver offeso in qualche modo l'amico.
Nel frattempo, prima di coricarsi, era passato da un uomo all'altro con la disinvoltura per cui era noto.
Non era una novità che un uomo si sedesse allo scrittoio e componesse lettere: suo padre scriveva lettere d'affari, i suoi fratelli lettere di credito. Rossignol, confermando se stesso, scriveva d'amore.

Metteva insieme i più leggiadri rifiuti e le più mortificate scuse, pur non provando alcuna pena né per le prime né, tanto meno, per le seconde.
Eppure, non gli era proprio riuscito di liberarsi del principe T. con la veloce noncuranza a cui era avvezzo.
Aveva scritto e riscritto, ma senza mai riuscire a creare qualcosa che letto ad alta voce non suonasse sdegnosamente offeso. Un problema, davvero, giacchè Rossignol era offeso, e infinitamente. Sperava che l’ebrezza, il dolore che faceva sussultare ogni parte della sua carne torturata e dei muscoli stanchi, il senso di completezza generati dalla compagnia di D’Ovigny l’avrebbero aiutato, ma furono comunque necessari svariati tentativi perché fosse soddisfatto.
 

Principe,

Non sprecherò nemmeno una riga di formalità.
Avevate promesso di venire a trovarmi, invece scopro che siete troppo impensierito per il mio delicato equilibrio personale per farlo: dico piuttosto che temete di vedermi. Ma non vi ferirò in alcun modo accusandovi d'essere un vile ed un debole, poiché l'avete ammesso voi stesso, seppur con ben altri termini.
Siete stato generoso con voi stesso, monsieur, e plaudo tale scelta. La conservazione del proprio paradiso di tranquillità non è forse l'aspirazione di alcuni di noi? 

Bravo, mio confessore, che mi convincete a provare e mi lasciate solo nel momento dell’azione. Vi rassicuro sul fatto che non sono sicuro di desiderare la vostra compagnia, ora che voi per primo me l'avete negata una volta. 
In tutta onestà, signore, credo di aver rischiato sin troppo in passato nel protrarre tale amicizia che pare non portar altro che malumori e voglio assicurarvi che d'ora in avanti non avrete di che temere: non dovrete avere alcun desiderio, né voglia o necessità di vedermi di persona. Non vi sarà richiesta alcuna di quelle formalità, normali, azzardavo a pensare, fra amici, che vi hanno invece causato tanta pena. 
Il senso del vostro biglietto, come vedete, è stato perfettamente compreso: volevate lasciarlo parlare nascondendovi dietro il più eloquente silenzio delle parole ed, ebbene, esse hanno sortito il loro giusto effetto.
Potete esser certo che non le dimenticherò.

Rossignol

 

Erano state righe penose, quelle, e tagliavano come coltellate.
“Remis,” aveva chiamato, accorgendosi d'avere la voce roca per la stanchezza e la rabbia. Uscì più un ringhio di bestia che un vero ordine, ma Remis non parve impressionato: avendo vissuto con i propri parenti prima di trasferirsi da Monsieur De Gramont, il ragazzo sapeva che erano ben altri i veri abissi dell'ira di un uomo, e spesso si accompagnavano alla cinghia.
Rossignol, che di rado si arrabbiava, era addirittura meno incline alla violenza di una signorina. 

“Remis, porta questa al Principe T. e consegnalo nelle sue mani, non importa se è in compagnia.”
Il servitore annuì e Rossignol pensò che, nella sua livrea blu e con la parrucca incipriata, poteva essere un angelo messaggero. Il bardo dell'ultimo biglietto, il salvatore dall'oblio.
Sì, aveva rischiato molto; e per mandare tutto à la merde sul finale, che ironia.
Si appoggiò allo schienale della sedia, lasciando cadere la testa all'indietro, ed ascoltò il suono dei tacchi di Remis sul legno. Un passo, due, tre, la porta che si apriva.
Rabbrividì.
“Ah, Remis.” chiamò, drizzandosi in piedi tutto d'un tratto. Il cigolio si interruppe.
“Sì, monsieur?”
“Non accettate alcuna risposta, per favore. É importante; che supplichi, se vuole, ma tu consegnerai quel biglietto senza trattenerti per un solo istante più del necessario,” si umettò le labbra, come sovrappensiero. “Hai stretto amicizia con uno dei paggi che la corona ha assegnato al Principe, non è vero?”
Remis sbattè le palpebre, sorpreso.
“É vero, monsieur,” ammise “Non pensavo di farvi un torto.”
Sulle labbra di Rossignol, di fronte a tutta quell'esitazione, comparve l'accenno di un sorriso. Erano giovani, lui e Remis: forse, se fossero stati più saggi, nessuno di loro due si sarebbe avvicinato troppo a Parigi e all'accecante luce della Corte.
Forse sarebbero vissuti tranquilli, allora.
“Nessun torto. Non sono come i nostri padri, Remis: puoi vedere il tuo amico quanto vuoi. Solo, non accettare lettere sotto nessun tipo di insistenza.”

 

 

Marie-Jeanne Rose Bertin era la migliore delle sarte di Parigi e, di gran lunga, la miglior modista personale che Marie Antoinette potesse mai desiderare.
Nei giorni in cui non si incontravano di persona, la sovrana aveva un certo daffare nello scrivere biglietti indirizzati alla donna, nelle sue botteghe d'alta moda di Parigi, riguardo idee e modelli che le sarebbe piaciuto provare.

Per caso la regina poteva desiderare un abito più largo e una vita più stretta? Una moda più audace o un vestito di scena per le sue modeste, ma ambite, rappresentazioni? Madame Bertin aveva la soluzione. E faceva sembrare tutto così terribilmente semplice!
Non era la prima volta che la regina tesseva le lodi della donna, come se poi i suoi capolavori sartoriali non fossero da soli più che eloquenti, e tuttavia d'Artois la ascoltava sempre ben volentieri.
Ciò che entusiasmava Marie Antoinette non poteva che contagiare i presenti.
“Vi offro la mia parola, mon cher, è impagabile,” dichiarò la regina, sfiorando con il ventaglio il braccio del cognato.
Per tutta risposta, lui le offrì un sorriso.
“Naturalmente. Ne parlavamo quest'oggi a colazione...”
“Ah, voi avete un pasto interessante,” commentò la regina, con un broncio leggero.
Al solito, quell'espressione si addiceva più di altre al suo viso tondo, rendendo la bocca un minuscolo bocciolo di rosa in un mare di pelle bianca come il latte; per chiunque avesse gusti del genere, la sovrana era una capricciosa tremendamente attraente, l’aria infantile mai svanita seppur fosse madre.
Che lo facesse inavvertitamente oppure no, aveva poca importanza. D'Artois ammirava le libertà che la cognata di concedeva, più o meno regolarmente, e di certo non sarebbe stato lui a fermarla: non si sarebbe mai perdonato se fosse stato così folle da allontanare la donna più piacevole dell'intero paese.
“Il vostro non vi soddisfa?” D'Artois cercò di essere conciliante, chinandosi verso Antonietta per avere più intimità. Erano gran confidenti, loro due, e buoni amici: di tanto in tanto, il conte sentiva, tuttavia, di dover difendere il fratello. “Il re non è delle compagnie più piacevoli al mattino, ma non è certo cosa infrequente. Converrete che, in genere, la conversazione si fa più brillante dopo una tazza di cioccolato.”
Antonietta scosse le spalle, affondando ancor più nel divanetto.
“Purtroppo non è il caso di mio marito.” replicò, con evidente stizza nella voce, agitando in aria il ventaglio chiuso.
Madame Bertin era in ritardo e d'Artois avrebbe tanto voluto che fosse quello ad infastidire la cognata, che rimaneva tanto clemente con coloro che le piacevano quanto severa con chi le faceva l'enorme dispetto d'annoiarla.
Louis Auguste non era di certo nella cerchia di coloro che sapevano affascinare la regina e ciò preoccupava d'Artois, che pure non sapeva bene come darle torto: il re era noioso e, seppur conscio dei propri limiti, non se ne curava affatto.
“Forse, se vi interessaste ai suoi chiavistelli...”
“Vi prego! Chiavistelli, Charles!”
“Lo so, ma—”
“Sono più interessanti le composizioni malinconiche di vostra moglie.”
D'Artois rise, gettando indietro la testa.
Sua moglie era così stonata da far dubitare che a Torino qualcuno le avesse dato un'istruzione in canto e composizione, eppure era anche cocciuta come un mulo. Nonostante tutto, però, il conte la trovava abbastanza attraente da affrontare la sua temibile voce nella camera matrimoniale; la nascita di Louis Antoine aveva causato grandi ansie la coppia reale e ancora, dopo anni, tanto Antonietta quanto Maria Teresa se ne rammaricavano.

“Fortunatamente ora che è tornato un certo usignolo non ci si può lamentare. Rossignol ha il controllo della situazione e un egocentrismo tale da tenere tutti lontani dal pianoforte,” osservò, aggirando con grazia le lacune della moglie. “É diventato piuttosto bravo, non è vero?”
Antoinette, nascosta dietro il rosa del ventaglio da giorno, sorrise come ci si sarebbe aspettato una bambina davanti ad un piatto di biscotti lasciato incustodito.
“Mi domando a cosa sia dovuta quest'improvvisa ispirazione per le arie d'amor perduto.”
“Sarà certo da imputare ad una donna, anche se ormai ho perso il conto.”
“E dire che è così giovane!”
L'uomo annuì, con una certa fierezza.
“Un numero notevole e un'esperienza eccezionale per la sua età.”
Stavolta, la regina lo colpì deliberatamente con il ventaglio, il quale si chiuse con uno scatto secco.
Monsieur, è solo un ragazzo!” replicò, con una punta d'indignazione. “Dovreste portarlo sulla retta via, non istigarlo a stringere più legami di quanti ne possa rispettare.”
“Eppure è parte della sua verve,” osservò d'Artois, prontamente.
Marie Antoinette annuì, ma era un suono leggero; aveva già perso completamente interesse per il discorso.
Non le piaceva fare la morale alle persone, ma negli ultimi anni di tanto in tanto ne sentiva la necessità
come se l'età, nonostante tutto, stesse portando qualche giovamento anche al suo carattere frivolo.
“Mi diverte molto,” concesse, lasciando vagare lo sguardo verso la porta.
Un istante dopo, d'Artois sapeva che sarebbe stato ignorato in favore di una piccola folla di sarte e sartine, capitanate dalla battagliera Madame Bertin: udiva in lontananza lo scalpiccio che indicava il loro arrivo, cariche di pacchetti, incarti e cappelliere. 

La nuova moda di Versailles doveva esser creata quel giorno, e provata tre giorni dopo. Tanto bastava per per calamitare l'interesse di una regina.
“Maestà...” mormorò, intenzionato a chiedere di essere congedato. Desiderava parlare con D'Ovigny, e presto, per incitarlo a vincere il favore degli altri nobili senza incaponirsi su Rossignol se proprio non c'era speranza di un avvicinamento.
Antoinette, però, aveva altri piani. Fece cenno al cognato di stare seduto.
“Ho bisogno del vostro giudizio per i colori di questo mese. Mi aiuterete, non è vero? Il vostro buon gusto è impagabile, Charles! E troveremo un colore che si addica al nostro uccellino nella sua gabbia dorata; desidero offrigli un regalo di bentornato.”
D'Artois accennò un inchino.
“Siete generosa come sempre, 'Toinette.”
La donna rise, una risata leggera che sembrava toccare il cielo. Mai nessuno, a Versailles, avrebbe più riso in quel modo.

 

 

Avrebbe riconosciuto in mille mondi i passi della creatura che amava, Rossignol. Aveva orecchie affinate dall'esperienza e mani che saettavano fuori dalle tasche pronte ad abbracciare, stringere, sfilare nastri e slacciare corpetti. Ma era diverso, quel giorno. Erano passi virili quelli che sradicavano l'erba e spostavano il ghiaino.

Non sono innamorato di D’Ovigny.

Mai il giovane si sarebbe immaginato di finire intrappolato in un tale scherzo del destino.
Non c'era stato che un errore, fra loro, nient'altro che un gigantesco errore sin dall'inizio. Una burla ordita da altri con spaventose ripercussioni ed un gioco che Rossignol, per la prima volta, non s'era divertito a giocare: ed ora, ora che poteva vedere chiaramente la figura per principe T., i suoi occhi lucidi e la pelle bianca come carta, così cupa in contrasto con la seta scarlatta dell'abito, avrebbe voluto riavvolgere il tempo per non incontrarlo affatto.
Era elegante, quel giorno, lo stesso principe che spesso si vestiva svogliatamente.
Come se fosse una gran ricorrenza, una festa, un momento di gioia; ma non era nulla di tutto ciò, come ben sapeva Rossignol, e i vestiti curati non potevano nascondere il fatto che nel suo sguardo si celasse più un animale ferito che un uomo.

“Mi seguite, ora?” domandò, con una punta di sarcasmo, fronteggiando il principe. 
T. scosse la testa, passandosi una mano fra i capelli scuri, scompigliandoli in un gesto che mai Rossignol gli aveva visto fare.
I suoi movimenti erano a scatti come quelli di un ingranaggio mai oliato.

“Non mi lasciate scelta, se non accettate le mie lettere.”
“Voi non volevate vedermi,” replicò, immediatamente.
Quando vide T. sussultare, il ragazzo ebbe la sensazione di essere in una bolla senz'aria.

“Avevo mal interpretato,” esitò, “Sono stato uno sciocco ed un codardo, e mi dispiace. Mi dispiace di avervi rifiutato una volta quando voi siete scappato decine di volte e ve l’ho lasciato fare. Mi dispiace.”
“Non so bene che farmene delle vostre scuse” 
“State mentendo a voi stesso, Rossignol.”
Ora, questa frase non voleva essere un'accusa
– aveva in sé tutta l'oggettività della constatazione ma il biglietto in cui Ursule lo invitava a farla finita con quella farsa era ancora una ferita fresca sull'onore di Rossignol, che sentì le guance imporporarsi.
Un tempo, sua sorella Josephine l'aveva accusato di essere veloce ad arruffare le penne, come un uccellino impaurito e furibondo al tempo stesso; Rossignol calzava a pennello come nome, dopotutto.
“Io starei mentendo a me stesso!” rilanciò, con un tale furore che gli fu necessario muovere un passo in avanti per sottolineare la propria dichiarazione. “Guardatevi, principe, come siete ipocrita. Professate cose assurde e appena si inizia a credervi, contro ogni buonsenso, vi ritirate come un topo nel vostro buio! Chi è che mente, tra noi? Io o voi?”
“Ho tentennato e vi sto chiedendo perdono.”

Rossignol, a questo punto paonazzo, scosse il capo.
Desiderava dimenticare quelle parole e scacciare la strisciante, improvvisa paura d'essere stato frainteso per tutto quel tempo. Vero, aveva fatto delle resistenze, eppure credeva d'esser stato chiaro riguardo i propri sentimenti.
Dunque gli si chiedeva di credere che tutti a corte sapevano, tutti sospettavano, meno che l’interessato? La sensazione d'essere stato preso in giro
di essersi preso in giro – gli scorreva nelle vene come veleno, facendogli girare la testa.
“Vi odio,” dichiarò.
Ed era orrore quello che gli ribolliva nel sangue; verso sè stesso, per essersi lanciato su d’Ovigny come un ripiego, verso d’Artois che lo aveva avvertito riguardo la fragilità dell’uomo che aveva davanti, verso il principe stesso. Disgusto verso la ferita che si era aperta negli occhi dell’uomo, per il modo in cui era sobbalzato e le sue spalle si erano irrigidite. 
“Rossingol?”

“Voi non avete mai amato nessuno oltre voi stesso, non avete mai seguito alcuna strada al di fuori di quella del vostro capriccio, mai ascoltato voce oltre la vostra. Ed io... No, monsieur, faccio fatica a credere a quello che dite; mi avete abbandonato nel momento in cui ho ceduto.”
Ho ceduto. 
Io, io ho ceduto.
Non credeva che T. potesse comprendere l'importanza di quel semplice verbo. Rossignol non cedeva, non si piegava, ma non aveva la forza né le parole di spiegarglielo.

“Vi ho amato con così tanto riserbo per i vostri desideri che neanche voi vi siete mai accorto appieno della forza del mio interesse.” T. lanciò un lungo sguardo a Rossignol, dal profondo dei suoi occhi scuri. Erano torbidi e arrossati, e lo stomaco di Rossignol si torse dolorosamente. “E queste parole che ora voi mi rivolgete, crudeli ed ingiuste, temo che non ne capiate la portata.”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. 
Non c'era modo di dichiararsi ferito da tutto quel discorso senza mostrarsi vulnerabile, così Rossignol reagì al meglio con quello che aveva: un'inesauribile fonte di menzogne e trucchetti. Perché doveva essere diverso dalle altre mille volte in cui si era tirato fuori dalle situazioni più spinose?
“Siete impazzito e mi fate anche un po’ pena, non ami,” rispose, allontanando il discorso con un gesto della mano.
T., sorprendentemente, non apparve affatto sorpreso.
“Folle? Forse avete ragione. So di amarvi anche se le mie mani non vi hanno nemmeno sfiorato! Certo, non posso darvi torto.”
Il ragazzo si scostò un ricciolo biondo dietro l'orecchio, faticando nel nascondere la propria incredulità. Un uomo fatto come T. , un principe del sangue nato nella perfezione più dorata, si stava definendo folle d'amore per lui. 
Era meschino e crudele e non lo meritava, non meritava il diritto di confondere così un uomo del genere.
Il principe T. l'aveva visto per la prima volta come una fanciulla e da allora mai aveva nascosto d'essersi innamorato della tentazione rappresentata da Charlotte, delle sue guance rosee e delle cattiverie che sapeva dire.
No, Rossignol aveva capito sin troppo bene perchè si era innamorato di lui, ma ancora non capiva come poteva corrisponderlo.

Tuttavia, il ragazzo si sentì di puntualizzare, come un bambino lagnoso:
“Sbagliate principe, ci siamo sfiorati eccome. Era un solo ballo, ma l'avete già dimenticato?”
In cuor suo, sperava che l’avesse dimenticato.
Rossignol, preso tra il desiderio di liberarsi dello scomodo innamorato che l'aveva ferito e il bisogno di tenerlo vicino, di dare e trovare conferme. 
Com'era bizzarro, quel sentimento che stracciava il cuore e obnubilava la mente.
Il principe T. scosse la testa, portandosi le mani alle tempie.
“Non una consolazione, se non quel ballo e quell'istante che mi concedeste ad Aprile per rafforzare la mascherata della vostra Marchesa. Non uno spiraglio da allora. Volete vedermi morto per avere la prova delle mie parole?”
“No!”
Gli era sfuggito dalle labbra con una certa violenza quando avrebbe voluto urlare il contrario.

Non ne era certo.
“Sembra piuttosto il contrario. Mi tormentate così bene,” attese un istante, studiando il viso paonazzo del ragazzo. “Non ho mai creduto, fino a questo istante, che poteste ricambiare.”
Rossignol tentennò, inclinando il capo ora a destra, ora a sinistra. 
Pareva spaventato dalla stessa risposta che ci si aspettava, e strinse le labbra prima di rispondere:
“Infatti non è così.” 
Alle orecchie del principe T., quella negazione era un'affermazione.
Il rossore sulle guance incredibilmente bianche di Rossignol e il luccichio dei suoi occhi azzurri rivelava ciò che lui si rifiutava di ammettere. 

Se non fosse stato in compagnia, e in un momento così cruciale, T. avrebbe voluto mettersi a piangere e a saltare e a cantare e a pregare: indeciso su quale follia commettere per prima non fece nulla, aprendosi solo in un gran sorriso. 
Rossignol scosse il capo e aggiunse, con voce più dura:
"Non era una menzogna, quel ballo. Vi potranno dire che non ho freni, ma nemmeno io mi spingo così oltre per una scommessa.”
A quelle parole, il principe T si incupì. 
Non aveva idea che una figura tanto graziosa potesse esprimere giudizi così aspri su se stesso e, più di tutto, lo offendeva l'idea che Rossignol si giudicasse tanto male. Non vedeva, forse, lo splendore che emanava? La gioia che portava agli altri giocando con i cani di d’Artois, scherzando con i cortigiani, vincendo a carte con l'ingenuità di chi si serve solo della fortuna e non dell'astuzia?
Il principe T. non poteva credere che quel giovane fosse davvero cieco di fronte alle proprie qualità, che pure erano così palesi agli altri. Il solo pensiero lo infastidiva enormemente.
"Non offendetevi così, Rossignol, non avete il diritto di parlar male di ciò che Dio ha creato perfetto. Il vostro corpo e i vostri modi sono pura arte: non vi appartengono. Pertanto non avete il diritto di essere così severo con voi stesso."
"Ma, principe, io vi faccio soffrire," replicò il ragazzo, abbassando lo sguardo. 
T. mosse un passo verso di lui, prendendogli le mani in uno slancio d'affetto.
Si imbarazzò enormemente d'essersi tirato indietro una volta: non aveva visto, forse, il candore della modestia in quegli occhi? Come aveva potuto ignorarlo? 

"Per il bene di entrambi, non è così?" domandò, stringendo le dita di Rossignol fra le proprie. "Siete più saggio di me, eppure così giovane! Lo fate per questo, non è così?"
"Certamente non per me,” esitò, cercando di schiarirsi la voce, “non posso.”
"Non vede nessuno, non ode nessuno. Dite, avete forse paura dei pettegolezzi? Delle malelingue? Delle serpi che si annidano fra gli arazzi, dietro porte segrete, dedite ai segreti altrui? Sapevo che avreste temuto ciò che vi può distruggere, Rossignol. Ma vi proteggerei in punta di spada, se dovessi, e qui siamo nascosti e al sicuro."
Il ragazzo si sentiva le membra tremendamente appesantite e faticò anche a muovere un passo indietro.
Cos’era che lo terrorizzava? Il pensiero di andar contro il coniglio di d’Artois o di concedersi di provare qualcosa oltre all’euforia del rischio? Le loro mani si sciolsero e Rossignol sentì uno strano freddo pervaderlo, come se improvvisamente fosse giunto l'inverno e nulla fosse più bello né vivo.

Ora che l’aveva davanti, T. lo terrorizzava.
Ne aveva bisogno se si rifiutava di vederlo, ma averlo fra le mani era come vivere costantemente nell'orrore dell'alba prima di una battaglia.

Il viso spigoloso di T., che era il ritratto d'un uomo disperato e pallido animato ormai solo dalla speranza, lo scrutava come ad attendere una risposta positiva. Negli occhi da lupo aveva fatto capolino l'animo umano, di nuovo. Ma Rossignol non aveva cuore di distruggere ciò che aveva di più caro.
"No. Non posso." si schiarì la voce, a fatica, "Sono così miseramente schiavo di me stesso da non poterlo dire senza piangere, vedete? Vi rifiuterò quest'ultima cortesia. Distruggerei me stesso e voi e il consiglio di altri che non oso nominare. Non voglio vedervi più, non voglio parlavi più. Mi spiace, mi spiace, mi spiace, ma ciò che mi chiedete è troppo. Statemi lontano, vivremo entrambi felici.” 

 

Quella sera stessa, il Principe T. fece chiamare Remis nelle sue stanze.
Sapeva che Martin aveva un buon rapporto con il giovane paggio di Rossignol e, sebbene con grande riluttanza, decise che sarebbe stato giusto far leva sull'amicizia fra i due per compiere un ultimo, disperato tentativo. 
Battendo le ore con il tacco del proprio stivale, rimase in attesa. Solo molto tempo dopo la porta si aprì.
Fecero capolino prima le tozze dita di Martin, poi il suo viso lucido e tondo, una grossa luna piena spruzzata di efelidi.

Non v'era l'ombra di un sorriso, sul suo volto.
“Dov'è lui?” lo salutò T., spoglio della cordialità che si premurava di tenere con pari e domestici. 
“Mi dispiace.”
Per un attimo, in preda ad una furia cieca, il principe dovette trattenersi dal rovesciare tutti i mobili della stanza, distruggere piatti e finestre. Voleva radere al suolo il mondo intero ma, ancora di più, disprezzava sé stesso per essersi messo in una tale posizione.
Gli sarebbe stato facile stare al fianco di Rossignol come amico, ma aveva preferito distruggersi.
Poteva facilmente immaginare che tipo di ordini avesse ricevuto Remis dal momento che, per un attimo, aveva avuto la tentazione di fare lo stesso: chiudersi, non parlare mai più con Rossignol, dimenticare la sua esistenza, il suo sorriso, il rumore delle sue scarpe sulla ghiaia e la delicatezza della sua calligrafia.
Ma sarebbe stato inutile.
“Grazie, Martin,” rispose dopo un istante di silenzio, accasciandosi su uno dei divanetti posizionati accanto alle vetrate che davano sul retro e sul giardino. Scoprì di non avere più alcun desiderio di muoversi. Era sfinito. “Puoi andare a dormire, ora.”
Monsieur...
“Sì?”
Com'era fastidioso doversi occupare dei domestici e dei paggi. Martin esitò inizialmente, ma subito dopo riprese coraggio.
“Remis mi ha confidato che Monsieur De Gramont è molto turbato nei vostri riguardi e ha minacciato di chiamare dei suoi amici, semmai vi avvicinerete nuovamente,” il giovane prese un pausa, come se quelle parole gli costassero molta fatica. “Voci dicono che Monsieur De Gramont abbia frequentazioni poco raccomandabili.”
Nonostante tutto, il principe T. gli dedicò un breve sorriso.
Sardonico, stanco, ma pur sempre un sorriso.

“Verrò ucciso in una lite da taverna per Rossignol, secondo te?” domandò, ridendo della probabilità di quelle stesse parole.
Per Rossignol l'avrebbe fatto.
Sarebbe morto ogni giorno per lui.

   
 
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