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Autore: Old Fashioned    22/07/2019    20 recensioni
Un cavaliere teutonico abbandona i fasti della sede veneziana dell'Ordine per prendere parte alla crociata in Livonia. Laggiù verrà in contatto con un nuovo nemico, che non ha intenzione di accettare la conversione e che osteggia con tutte le sue forze la presenza dell'Ordine.
Un atto di generosità nei confronti di un mendicante sarà ciò che al momento del bisogno gli salverà la vita.
Prima classificata al Contest "A zonzo nel tempo!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
Genere: Azione, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Gente mia, ecco la seconda parte del mappazzone. Un grandissimo ringraziamento a chi è passato anche solo a dare un’occhiata, e un ringraziamento speciale a chi mi ha lasciato il suo parere^^





Seconda parte



Fratello Reinhardt si affacciò alla merlatura della torre maggiore e lasciò vagare lo sguardo sulla vallata. Quella che al suo arrivo si era presentata come un sontuoso tappeto di oro, carminio e bruno appariva ora come una distesa bianca, costellata di neri alberi spogli, su cui i raggi del sole disegnavano ombre color indaco.
Aspirò con voluttà la brezza gelida, socchiuse gli occhi come forse un tempo avrebbe fatto annusando il più raro balsamo dell'Oriente.
La neve, in effetti, aveva un profumo. Era odore di pulito, di rigore. Era l'odore delle cose che andavano come avrebbero dovuto andare.
Alzò una mano per proteggersi dal riverbero, poi si girò per evitare che il sole gli battesse sul viso e a quel punto vide che qualcuno stava attraversando la vallata diretto a Segewold.
Osservò con più attenzione: erano quattro figure, un uomo, una donna e due bambini; gli abiti che indossavano li identificavano come coloni tedeschi.
Arrancavano come potevano nella neve fresca, l'uomo zoppicando vistosamente e appoggiandosi a un bastone improvvisato, la donna cercando di mantenere l'equilibrio nonostante un bambino in collo e altri due per mano.
Un tramestio alle sue spalle gli fece capire che qualcun altro si era accorto delle persone in avvicinamento. “Dobbiamo dare l'allarme!” disse una voce. Subito dopo la porta che conduceva alle scale fu spalancata e passi precipitosi si persero verso il basso.
Reinhardt rivolse un'altra occhiata al gruppetto. L'uomo era caduto, uno dei bambini lo tirava per la falda del vestito in un tentativo di farlo alzare.
Corse a sua volta giù per la scala a chiocciola, percorrendola così in fretta che quando arrivò all'altezza del cortile gli girava un po' la testa.
Nel barbacane c'era già una piccola folla di soldati, intravide nella penombra il mantello grigio di un sergente.
Qualcuno propose: “Facciamoli entrare!”
“Piano,” replicò un'altra voce, “prima controlliamo che siano veramente tedeschi.”
Poi tutti si fecero da parte per lasciare spazio all'imponente figura di fratello Manfred, Komtur del castello.
Questi ascoltò con aria grave i rapporti delle sentinelle, quindi conciso ordinò: “Aprite.”
Vennero fatti scorrere i catenacci, le due ante si schiusero con un basso cigolio. Al di là del ponte, nel mezzo della bianca distesa inviolata, lo sparuto gruppetto arrancava. Fin da quella distanza si sentiva il pianto del bambino che la donna aveva in braccio.
“Andiamo a prenderli, signore?” propose un armigero.
Senza staccare gli occhi dai fuggiaschi, fratello Manfred disse: “Aspetta.” Li fissò per qualche istante in silenzio, infine ordinò: “Portate il mio cavallo. Quattro cavalieri in armi e otto sergenti con me.”
Reinhardt rimase vagamente stupito dalla richiesta del Komtur, ma notò che a nessun altro era parsa eccessiva. Gli scudieri anzi si stavano già affrettando a portare fuori dalla stalla i cavalli per bardarli.
Si fece avanti per offrirsi volontario.

Fratello Manfred in testa, il drappello si riversò fuori dalle mura di Segewold. Nel veder uscire i cavalieri con la croce nera, l’uomo sollevò la mano che non reggeva il bastone e la agitò sopra la testa. Gridò qualcosa, che però si perse nel frastuono dei cavalli che passavano sul ponte di legno.
Gli animali partirono al galoppo leggero, sollevando spruzzi di neve con gli zoccoli. Per quanto la candida coltre attutisse i rumori, il terreno tremava sotto l'impatto dei grandi destrieri da guerra.
Fratello Reinhardt fissò lo sguardo sulla famiglia. La donna stava aiutando l’uomo a camminare, i bambini più grandicelli correvano affondando nella neve. Ogni tanto uno dei due si fermava e si voltava indietro indeciso, come ponderando l’eventualità di tornare con gli adulti, ma invariabilmente la donna gli faceva segno di andare avanti.
Il Komtur diede ordine di assumere la formazione d'attacco. Reinhardt quasi sussultò, chiedendosi per un istante perché il confratello avesse deciso di caricare degli inermi contadini, ma in quel momento qualcuno esclamò: “Eccoli!”
Si girò in quella direzione: sulle prime non vide nulla, poi si accorse che al limitare del bosco c’erano delle figure che si muovevano.
Un istante dopo, uno dei bambini cadde faccia in giù nella neve e non si mosse più. Gli impennaggi di una freccia gli uscivano dalla schiena.
Dai margini della foresta si staccarono degli uomini a cavallo, che presero a galoppare verso i coloni. Uno di essi spronò per ottenere maggiore velocità, raggiunse la coppia ed estrasse la spada. Gridò qualcosa in una lingua che Reinhardt non conosceva, poi sferrò un tondo rovescio.
Il corpo della donna si accasciò sussultando, la testa descrisse una parabola in aria, quindi atterrò sulla neve con un tonfo sordo e rotolò due o tre volte lasciandosi dietro una scia vermiglia.
Il Samogizio voltò il cavallo per riguadagnare la copertura della foresta, ma a quel punto fratello Reinhardt spronò e abbassò la lancia in posizione d'attacco.
L'uomo si accorse della minaccia e cercò di riguadagnare velocità, ma il suo basso ronzino non poteva competere con il morello del Teutonico.
La lancia lo colpì fra le scapole e lo sbalzò di sella. Reinhardt passò oltre, tirò le redini, fece girare il cavallo sui posteriori e partì per un secondo attacco. Per un istante colse negli occhi del Samogizio qualcosa che poteva somigliare allo sgomento, ma non se ne curò: strinse le ginocchia, rinsaldò la presa sull'arma e spronò.
Passato da parte a parte, l'uomo si torse nell'aria e ricadde in un turbinare di neve.
Reinhardt sfilò la lancia dal corpo esanime, si guardò intorno: due Mantelli Grigi stavano inseguendo un Samogizio che per scappare più in fretta si era addirittura liberato di parte dell'armatura e dello scudo, un altro aveva raccolto il bambino superstite, se l'era issato sull'arcione e stava galoppando verso Segewold. Un fratello cavaliere combatteva a piedi, armato di spada contro tre diversi avversari, ma sembrava che la cosa non lo impegnasse nemmeno più di tanto. Dalla corporatura imponente, Reinhardt valutò che doveva trattarsi di fratello Friedrich o di fratello Mathias.
Per un attimo ponderò se avvicinarsi per dargli man forte, ma un istante dopo il cavaliere abbatté l'avversario che gli stava di fronte con un fendente dal basso verso l'alto che spedì un violento spruzzo di sangue ad arrossare la neve tutt'intorno, quindi si girò fulmineo alla propria destra e con una mezza volta di polso sfruttò la forza che la spada ancora possedeva per caricare un tondo rovescio col quale abbatté anche il secondo avversario. Si fece indietro per evitare un attacco del terzo uomo, lo provocò con una finta, sottrasse bersaglio, caricò una punta alta e lo trafisse con tale forza che gli fece uscire la spada dalla schiena.
Dopodiché si raddrizzò ansante e si guardò intorno con l'aria di un toro infuriato che non trova più niente da incornare.
Fratello Reinhardt vide che i Samogizi superstiti stavano scappando verso le foreste. Un paio di cavalieri e i sergenti rimasti li stavano inseguendo, ma ormai essi avevano acquisito troppo vantaggio ed era chiaro che sarebbero riusciti a far perdere le loro tracce.
Fratello Manfred smontò da cavallo, si avvicinò al corpo della donna e lo rivoltò sulla schiena, scoprendo il fagotto che quelle membra irrigidite continuavano convulsamente a stringere. Si chinò a scostarne un lembo, scrutò con aria grave ciò che esso custodiva, quindi si rialzò scuotendo la testa. “Requiem aeternam dona eis, Domine,” mormorò segnandosi, “et lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace.”
Una volta pronunciata la preghiera, il Komtur si rivolse al contadino, che giaceva rannicchiato e piangente nella neve. “Alzati,” gli ordinò.
L'uomo si levò in piedi a fatica, puntellandosi al bastone.
“Da dove vieni?” gli chiese fratello Manfred fissandolo attento.
“Dalla fattoria di Peltes, signore.”
“Sei ferito?”
“Alla gamba.”
“Sono stati loro?”
L'altro chinò la testa. “Sì, signore. Io...” Forse avrebbe voluto dire altro, ma la voce gli tremò e si spense in un mormorio roco. Egli dapprima fissò il corpo esanime della donna, quindi spostò lo sguardo sul bambino che giaceva faccia in giù.
Il cavaliere fissò a sua volta il corpo del bambino, quindi gli disse: “Uno dei tuoi figli almeno è salvo, ringrazia Dio per questo.” Fece una pausa, durante la quale dedicò alla foresta uno sguardo torvo, quindi concluse: “E ringrazia l'Ordine, perché ti giuro che esso non lascerà questo crimine impunito.”



Erano passati due giorni, ma dalla fattoria devastata continuava a levarsi una lenta colonna di fumo nero.
Il calore degli incendi aveva sciolto la neve tutt'intorno, lasciando sul terreno una fanghiglia grigiastra e disseminata di detriti.
Ogni cosa era stata distrutta, ogni edificio dato alle fiamme. Persone e animali giacevano nella posizione in cui erano stati uccisi. Un bambino nudo penzolava impiccato dal ramo di un albero, il collo abnormemente lungo e il volto violaceo, con la lingua che protrudeva dalla bocca in un ghigno demoniaco. A una donna era stato squarciato il ventre; gli intestini ne erano rotolati fuori e il gelo li aveva poi appiccicati al terreno, dove rimanevano come flosci cordami grigi.
Al centro dell'aia c'era quello che sembrava un vecchio albero contorto, composto da un tronco nodoso e da due rami che si allargavano come braccia.
I cavalieri si fermarono perplessi. Fratello Manfred si avvicinò lentamente allo strano simulacro, lo aggirò e una ruga profonda gli si scavò sulla fronte. “Questo passa ogni limite,” proferì gelido, quindi spronò e trottò via.
Quando il Komtur si fu allontanato, gli altri rimasero a scambiarsi mute occhiate. Infine fratello Siegfried, vinto dalla curiosità, andò a vedere. Arrivato nel punto in cui si era fermato fratello Manfred spalancò gli occhi, sbiancò e dovette allontanarsi in tutta fretta.
A quel punto, Fratello Reinhardt si voltò verso Fratello Ulrich in una muta richiesta di spiegazioni.
“Va' a vedere,” gli suggerì quest'ultimo in tono duro. “Io l'ho visto fare quando servivo a Wenden. Va' a vedere, ti garantisco che se tu vivessi un anno presso i Samogizi non impareresti altrettanto bene che razza di gente sono.”

Quello che sembrava un tronco con due rami era in realtà una rudimentale croce, costruita legando insieme spezzoni di travi mezze carbonizzate.
A quel grottesco supplizio era inchiodato un uomo. Il corpo era ormai irrigidito, ma la sua posizione contorta lasciava capire che la morte doveva essere giunta solo dopo un'orrenda agonia.
Il volto del poveretto, gonfio e livido, era irriconoscibile: al posto degli occhi vi erano due buchi dai bordi bruciacchiati, naso e orecchie mancavano. La bocca spalancata, ricolma di sangue coagulato, indicava che la lingua era stata strappata via. Al posto dei genitali vi era una piaga frastagliata.
Il sangue colato dalle innumerevoli ferite si era raccolto in una pozza ai piedi della croce ed era ormai congelato al pari di tutto il resto.
“Signore Iddio,” mormorò Reinhardt, non del tutto certo di non essere sbiancato come fratello Siegfried.
Fece arretrare il cavallo, che innervosito dall'odore di morte stava scalpitando con le orecchie piatte sul collo, quindi raggiunse Ulrich.
“Ebbene?” lo accolse questi.
Reinhardt rimase in silenzio. Aveva cominciato a nevicare e radi fiocchi fluttuavano verso terra. Il cielo era una tavola grigio pallido, tagliata a metà dalla colonna di fumo che continuava a salire densa e pesante.
Levò lo sguardo a incontrare quello del confratello e con voce incolore semplicemente disse: “Ho capito.”
Ulrich annuì grave, quindi replicò: “Non pensare mai che questa gente sia diversa da come l’hai vista oggi. Non pensare mai che ti rispetti se non hai una spada in mano o che abbia pietà di te se non ha la consapevolezza che farti del male significherebbe riceverne molto di più dai tuoi confratelli.”
A quelle parole Reinhardt si girò di nuovo verso la croce, che in quella luce fredda appariva nera. Inconsapevolmente toccò il simbolo che gli ornava il petto.
“Ti stai chiedendo se questo sia un messaggio per noi?” lo richiamò alla realtà Ulrich, che aveva notato il gesto. Si girò a sua volta verso il macabro allestimento, quindi proseguì: “Non sbagli: lo è. È la fine che ci augurano e che tenteranno in ogni modo di farci fare.”

Il viaggio di rientro trascorse in un silenzio funereo. La neve continuava a cadere stentata, riuscendo appena ad attecchire dove il terreno era più solido, ma infradiciandosi immediatamente nelle zone fangose.
“Tempo schifoso,” commentò dopo un po' fratello Ulrich, che cavalcava al fianco di fratello Reinhardt. “Almeno gelasse sul serio. Lo vedi? Adesso sembra tutto solido, in realtà sotto è una palude. Se esci dalle strade battute, i cavalli affondano fino ai ginocchi e poi non escono più. E al disgelo è anche peggio, perché sotto quel che rimane della neve c'è un acquitrino impraticabile.”
L'altro si limitò ad annuire. Al solito, a perdita d'occhio non si vedeva anima viva, ma ciò che era accaduto nella fattoria tedesca faceva capire chiaramente che in realtà la gente c'era, e in qualche modo era perfettamente al corrente di ogni spostamento dell'Ordine. “Loro come fanno?” chiese.
“A girare qui in mezzo, vuoi dire? Ci sono nati, sanno riconoscere il terreno solido a colpo d'occhio e sanno muoversi su quello molle senza affondare.”
Di nuovo calò il silenzio e per un po' Reinhardt rimase semplicemente a guardare i fiocchi di neve che si posavano sul manto lucido del suo cavallo e uno dopo l'altro lentamente si scioglievano trasformandosi in perle trasparenti.
Poi un movimento al margine della strada attirò la sua attenzione: si voltò e intravide qualcuno che si spostava agile, apparendo e scomparendo tra le ondulazioni del terreno e le alte erbe da palude che crescevano un po' ovunque.
D'istinto posò la mano sul pomo della spada e con l'altra strinse le redini, preparandosi a un eventuale inseguimento, poi ricordò quello che aveva appena udito sullo stato del terreno. Emise un sospiro di frustrazione.
Si voltò a cercare con lo sguardo il misterioso inseguitore, e a quel punto si trovò di fronte un ragazzetto vestito di stracci, magro, con gli occhi verdi e i capelli come una matassa di stoppa. “Ma sei tu?” non poté fare a meno di mormorare.
Il giovane gli rivolse una specie di sorriso, quindi saltò fra le erbe agile come una lontra e in un attimo scomparve alla vista. Reinhardt dovette trattenersi dal rivolgergli un gesto di saluto.
Fratello Ulrich si voltò verso di lui. “Hai detto qualcosa?”
“C'era il ragazzo del villaggio,” spiegò l'altro “quello a cui piaceva il mio cavallo.”
“Il Curo? Non mi piace il modo in cui ci sta sempre intorno. Magari è proprio quel figlio di una cagna che dice agli altri dove siamo. Dovevi tirargli dietro la lancia.”
“È solo un povero mendicante,” fu la risposta.
“Qui i poveri mendicanti ti tagliano la gola e ti lasciano a rantolare nel tuo stesso sangue, se fai tanto di farti trovare distratto.”



Nel piazzale di Segewold vi era un silenzio di pietra, rotto solo dal basso sibilo di un maestrale carico di gelo.
I cavalieri erano allineati in una lunga fila e attendevano, muti e immobili come statue. Mantelli e gualdrappe schioccavano nel vento.
Reinhardt, a cavallo insieme agli altri, fissò lo sguardo sulla porta del Capitolo e finalmente la vide aprirsi. Comparve sulla soglia fratello Manfred. Il Komtur appariva ancora più alto e imponente del solito; la sua espressione severa, tagliente come il filo di una lama, era quella di chi ha preso una decisione dura ma necessaria e non ha timore di metterla in atto.
Egli mosse nel cortile passi che echeggiarono come rintocchi, quindi con voce grave recitò: “Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia. Mia grazia e mia fortezza, mio rifugio e mia liberazione, mio scudo in cui confido, colui che mi assoggetta i popoli.”
Il vento gemette in risposta, si udì un tintinnio metallico di finimenti.
Arrivò uno scudiero, conducendogli per le redini il più grande dei suoi destrieri da guerra, bardato con una gualdrappa candida segnata da due croci nere. L'uomo montò in sella e un servitore gli porse un Grande Elmo ornato ai lati di larghe ali nere e argento.
Egli lo prese e lo posò sull’arcione in modo che tutti potessero vederlo.
“Fratelli,” disse semplicemente, “è giunto il momento di colpire i pagani come loro hanno colpito i contadini della fattoria di Peltes. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro. Frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro.”
Di nuovo il vento ululò ferale, facendo schioccare le bandiere dell’Ordine sugli spalti.
Fratello Manfred consegnò allora il Grande Elmo allo scudiero, affinché lo custodisse fino al momento della battaglia, quindi diede di sprone al cavallo, che si mosse a un passo vigoroso e fiero. Sfilò davanti ai confratelli e a ognuno di essi rivolse uno sguardo, come per assicurarsi che anche nei loro occhi ardesse la stessa fiamma che accendeva i suoi.
Giunse al barbacane.
Le porte di quercia si spalancarono con un lungo gemito, rivelando il candore di neve inviolata, sotto un cielo grigio come ferro.
I cavalieri si disposero a due a due alle spalle del Komtur e uscirono in silenzio.
Dietro di loro, sergenti, armigeri appiedati e scudieri formarono una lunga colonna.

“Oggi si fa sul serio,” disse fratello Ulrich.
Fratello Reinhardt, che cavalcava al suo fianco, gli chiese: “Che significa?”
“Il Komtur comanda che vengano indossati i Grandi Elmi con le insegne delle casate. Significa che l’Ordine si mostrerà in tutta la sua potenza, per far passare a quei pagani senza Dio la voglia di ammazzare contadini inermi.”
“Pensi che sarà sufficiente?”
Ulrich alzò le spalle. “Di sicuro li terrà buoni per un po’.”
Reinhardt si voltò a fissare la colonna di cavalieri che fratello Richard, Komtur di Treyden, aveva mandato in appoggio al contingente di Segewold. “Che cosa succederà?” chiese.
“L’hai sentito: occhio per occhio, dente per dente.”
L’altro rievocò l’immagine dell’uomo crocifisso, con il viso sfigurato e i genitali tagliati. Strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia in un’espressione cupa.
Fratello Ulrich sembrò accorgersi del suo smarrimento. “Distruggeremo un paio dei loro villaggi,” spiegò, “anche se non sarà certo un gran danno, considerando come sono fatti. Probabilmente di abitanti non ne troveremo, perché saranno già scappati nelle paludi. Quella gentaglia ha sempre qualcuno che li informa in anticipo dei nostri spostamenti.”
“E se ci fossero?”
L’altro lasciò passare qualche istante, quindi rispose: “So cosa stai pensando: un cavaliere non uccide persone inermi.” Di nuovo si interruppe. Strinse i denti, forse assorto in qualche ricordo non particolarmente piacevole, quindi riprese: “In primo luogo, qui di inermi non ce ne sono.”
“Ma le donne? I bambini?” lo interruppe Reinhardt.
“Sono perfettamente capaci di piantarti un coltello nella schiena, se fai tanto di dar loro le spalle. Ho visto io stesso un moccioso che non poteva avere più di sette anni uscire da un cespuglio, infilarsi tra le zampe di uno dei nostri destrieri e squarciargli il ventre da sotto.”
Reinhardt non replicò. Aveva combattuto senza quartiere in Terra Santa, ma sempre contro altri uomini d’arme. Contro gente che faceva quello per mestiere, se non per scelta di vita, che vestiva di ferro e maneggiava abitualmente la spada, ben consapevole di tutti i rischi connessi a tale attività. Gettò un’occhiata fugace alle dure erbe di palude che la neve non era riuscita a coprire del tutto e si chiese cos’avrebbe fatto se improvvisamente un bambino fosse uscito da lì e avesse provato a squarciare il ventre al suo cavallo.
Emise un sospiro e levò lo sguardo sul cielo grigio.
Per un po’ rimase assorto ad ascoltare i rumori della colonna in marcia: il tonfare soffice degli zoccoli nella neve, il tinnire dei finimenti, lo scricchiolio del cuoio, qualche breve conversazione a bassa voce.
Forse Dio lo stava mettendo alla prova.
Dio sapeva, naturalmente, quale fosse il punto debole di ognuno, ed ecco che per saggiare la forza delle sua fede lo poneva di fronte agli ostacoli che per lui sarebbe stato più difficile superare.
“Le donne dei Samogizi sono davvero così pericolose?” chiese.
“Tu prega il Signore che questi qui non ti prendano mai vivo,” replicò fratello Ulrich in tono duro. “Pregalo con tutto il cuore e augurati che ascolti le tue suppliche.”

Un lamento squarciò la trasognata calma in cui fratello Reinhardt da un po’ si stava crogiolando. Imprecando in cuor suo per essersi fatto cogliere alla sprovvista, il cavaliere si girò verso la provenienza del grido e vide uno dei soldati a terra, con una freccia che gli usciva dalla gola. Spruzzi di sangue arrossavano la neve fresca.
Alzò gli occhi verso quella che avrebbe potuto essere la provenienza del dardo e in un intrico di vegetali colse un movimento.
Senza esitare spronò il destriero, che balzò in avanti abbandonando la strada battuta e prese a farsi strada con vigore nella neve alta. Quando fu più vicino alla macchia di alberi marcescenti, si accorse che si trattava in realtà di un villaggio, che i pagani avevano mimetizzato con rami ed erbe di palude, di certo in attesa del loro arrivo.
Udì a quel punto un tramestio, quindi una freccia gli sibilò vicino all’orecchio. Il destriero scalpitò innervosito, Reinhardt vide una figura esile balzare fuori da una delle spelonche, colse il baluginio di una lama nella penombra dell’abitazione.
D’istinto brandì la lancia e la scagliò. Si udì un lamento, la figura crollò a terra, quindi si rialzò malamente e scomparve zoppicando e lasciandosi dietro una scia di sangue. Un altro gli corse incontro con la spada sguainata, egli fece indietreggiare il cavallo, snudò la lama a sua volta e abbatté l’avversario con una punta dall’alto. Recuperò l’arma, si fece indietro, altra gente gli stava venendo incontro. Il destriero fece una mezza impennata, rampò con gli anteriori, costringendo un pagano ad arretrare precipitosamente. Altri però gli stavano correndo addosso, Reinhardt vide con orrore un ragazzino gettarsi carponi con una daga stretta in pugno e immaginò il suo destriero rovesciarsi col ventre squarciato.
Una lancia inchiodò a terra il giovane pagano, il coltello scivolò via.
Reinhardt si girò di scatto e vide fratello Ulrich e un altro paio di cavalieri.
I Samogizi a quel punto si dileguarono scomparendo nelle campagne, sul villaggio calò un silenzio cupo.
“Tutto a posto?” chiese fratello Friedrich. Reinhardt notò che non aveva la lancia. Cercò con lo sguardo il pagano che era stato colpito poco prima e lo vide rannicchiato a terra, con le mani serrate sull’asta che gli usciva dall'addome e una pozza di sangue che gli si allargava sotto.
Scese da cavallo e fece qualche passo nella sua direzione.
“Che fai?” chiese alle sue spalle fratello Ulrich.
Reinhardt non rispose, anche perché obiettivamente non avrebbe saputo cosa rispondere. Non lo sapeva neppure lui, cosa avrebbe voluto o dovuto fare.
Avanzò di un altro passo. Il pagano, che fino a quel momento era rimasto rannicchiato a rantolare, si girò verso di lui.
Il cavaliere dovette faticare per per non fare un salto indietro: era una giovane donna, o forse un ragazzo imberbe, non si capiva. Il suo sguardo, lucido di sofferenza, esprimeva una febbrile volontà di lottare.
“Signore Iddio,” mormorò. Si fece il segno della croce e il ragazzo, o quel che era, sputò nella sua direzione.
Fratello Fredrich comparve al suo fianco. Dedicò poco più di uno sguardo al ferito, maschio o femmina che fosse, quindi afferrò l’asta della lancia e la sfilò con un movimento secco.
“Andiamo?” chiese poi.
“Aspetta,” replicò fratello Reinhardt. “Cosa facciamo con quello… quella?”
“Lo seppelliamo, al massimo. Non vedi che è morto?”
L’altro abbassò lo sguardo e incontrò occhi spalancati e immobili, che anche nel trapasso conservavano un vago barlume della ferocia che li aveva animati in vita.
“Questo qui avrà al massimo quattordici anni,” gli giunse la voce critica di fratello Mathias.
Questa qui,” lo corresse fratello Friedrich. “Per me è una femmina.”
“Non sarò certo io ad accertarmene,” rispose l’altro. “E ora andiamo, stanno aspettando noi.”

Si lasciarono alle spalle il villaggio in fiamme, che mandava verso il cielo una greve colonna di fumo bigio.
“Ora lo vedranno,” disse fratello Ulrich, “e capiranno che non scherziamo.”
Fratello Reinhardt, che aveva ancora davanti agli occhi lo sguardo feroce di quel ragazzo o ragazza, si limitò ad annuire.
“Nulla vale come l’esempio pratico, vero?” gli chiese l’altro.
“Cosa?”
“Avrei potuto raccontarti com’è fatta questa gente fino alla Quaresima, e tu non ti saresti comunque convinto.” Fece una breve pausa, durante la quale si girò sulla sella per controllare i dintorni, quindi soggiunse: “Ora invece hai capito, vero?”
Reinhardt emise un sospiro. “Credo di sì.”
“Se non fosse arrivato il Fritz, a questo punto staremmo in due su un solo cavallo come i Templari.”
L’altro stava per rispondere quando cominciò a udire una sorta di tuonare lontano. Istintivamente alzò lo sguardo al cielo aspettandosi l’addensarsi di nubi temporalesche, ma esso rimaneva di un grigio uniforme.
Si guardò fugacemente intorno per spiare le reazioni degli altri: nessuno sembrava farci caso. Il suono però proseguiva. Aumentava, anzi, assumendo la connotazione di un rullare cupo e incalzante, sul quale si inserivano quelli che sembravano lunghi muggiti.
Alla fine Reinhardt si voltò verso il confratello. “Che cos’è?”
L’altro non pareva particolarmente impressionato. “Vuoi dire questo rumore?”
“Sì.”
“Tamburi di guerra, canti in onore dei loro idoli. Pensano di spaventarci con un po’ di chiasso.”
“Credi che daranno battaglia?”
Fratello Ulrich alzò le spalle. “A un certo punto non potranno esimersi: è inverno e anche loro hanno bisogno di rifugi.”
A quelle parole l’altro si voltò a fissare la colonna di fumo che continuava a salire nell’aria immobile. “Che intendi dire?”
“Di solito funziona così: loro distruggono una fattoria, noi in risposta bruciamo villaggi finché loro non si trovano nella necessità di affrontarci in campo aperto per farci smettere. A quel punto noi ne ammazziamo un po’ e di solito gli altri per qualche mese stanno tranquilli.”
Fratello Reinhardt non rispose. I tamburi si erano fatti più forti, il canto pareva l’ululato di demoni infernali. Non si vedeva nessuno, ma sembrava che ogni roccia, ogni albero facesse scaturire quei suoni spaventosi. Si guardò intorno come se d'un tratto i Samogizi in armi avessero potuto sorgere dal terreno tutt'intorno a loro. “Dove sono?” chiese a disagio.
“Tra un po' arriveranno,” disse l'altro per tutta risposta.
I tamburi tacquero, i canti si affievolirono fino a cessare e sulle campagne calò un silenzio spettrale.
Il Komtur alzò un braccio e le schiere si fermarono. Il vento passò gemendo sulla pianura, i mantelli bianchi ondeggiarono.
Le bandiere dell'Ordine furono innalzate e schioccarono fiere nell'aria gelida.
Cominciò a quel punto a farsi udire un urlio diffuso, grida roche, strida e ululati. Il terreno tremava come percosso da un immenso maglio.
Impassibile, fratello Manfred diede un ordine secco e la schiera di cavalieri si dispose in una linea frontale. I Grandi Elmi vennero indossati, le lance impugnate. I cavalieri erano giganti di ferro, solenni e immobili.
I clamori si fecero più intensi, la vibrazione divenne il rombo cupo di centinaia zoccoli e piedi in corsa.
A un altro comando le lance vennero brandite. Un fremito di luce passò sulle punte affilate. I destrieri scalpitarono, rasparono la terra impazienti di lanciarsi all'assalto.
Le froge umide soffiarono densi getti di vapore.

Attraverso il Grande Elmo, fratello Reinhardt vedeva una striscia così candida che quasi gli faceva dolere gli occhi, sotto una striscia più sottile di un cupo color piombo. Se si girava, vedeva dei suoi confratelli solo i cimieri: orsi, leoni, lupi e draghi dalle fauci spalancate, ali e corna, spade brandite, corone, aquile e fenici.
Mostri e belve sembravano ringhiare bramosi, gli occhi davano l'idea di guizzare alla ricerca del nemico.
Ed esso giunse, dilagando sulla pianura come un'onda di piena. Guerrieri a cavallo e a piedi, che avanzavano in una disordinata corsa, emettendo roche grida di battaglia.
Reinhardt fece un groppo delle redini, rinsaldò la presa sulla lancia. Di nuovo si girò a fissare i confratelli, ricavandone l'impressione di un bastione di ferro, contrapposto a una vivida foga animale.
Il bastione rimase immoto, impassibile mentre i Samogizi correvano ululando ingiurie e sfide. Non ebbe un fremito al lancio dei primi proietti, ignorò il baluginare delle armi sguainate.
E infine giunse il segnale: le lance calarono in posizione d'attacco, i grandi destrieri da guerra balzarono in avanti.
Le ginocchia strette, i muscoli tesi, Reinhardt fissò lo sguardo su un guerriero che montava un cavallo alto e robusto, forse frutto di una razzia. Dava l'idea di essere un capo, portava un'armatura elaborata e aveva una lunga spada lustra. I capelli, biondi e arruffati, erano legati in una coda.
Riconobbe tra i suoi ornamenti il simbolo di Perkūnas, ovvero l'idolo che i Samogizi reputavano più importante.
Pensò alla propria croce nera. “Gott mit uns!” gridò d'impulso. Strinse la presa sulla lancia, spronò. Il motto proruppe in più punti dello schieramento, incupito dagli elmi, feroce. Si ripeté, sincronizzandosi fino a divenire un unico assordante ruggito.
La lancia impattò con una violenza che quasi gli mozzò il respiro. Il Samogizio con le insegne di capo scomparve dalla sua vista, il cavallo scosso corse via. Un altro guerriero cercò di afferrarlo per montargli in sella, ma fu raggiunto e abbattuto da un fratello cavaliere.
Reinhardt continuò ad avanzare. Vide sfilare elmi appuntiti adorni di pelliccia, volti barbuti, qualche chioma ispida. Di nuovo abbassò la lancia, sbalzò di sella un guerriero a cavallo, passò oltre. Il Grande Elmo attutiva i rumori della battaglia, tuttavia ovunque percepiva urla, nitriti e clangore di armi. Spronò, l'animale rispose con un poderoso galoppo. Abbassò l'asta in posizione di attacco, puntò un altro Samogizio a cavallo. Questi lo vide e cercò di scartare per evitare l'impatto, ma la lancia lo passò da parte a parte, facendogli uscire un fiotto di sangue alla bocca. Il corpo si accasciò tirandosi dietro l'arma, Reinhardt la lasciò andare, sfoderò la spada e si ributtò nel centro della mischia.
Qualcuno lo tirò per la falda del mantello, egli si girò di scatto e pur attraverso le feritoie dell'elmo vide una mano brancicare verso i finimenti del suo cavallo.
Calò la spada e l'arto volò reciso, lasciandosi dietro uno spruzzo vermiglio. Si spinse in avanti, alla ricerca di altri avversari.
Dopo aver attraversato la pianura come una gigantesca falce, la linea dei cavalieri si era frammentata e ovunque infuriavano gli scontri.
Fratello Reinhardt vide un confratello cadere a terra assieme al cavallo, un paio di Samogizi gli si avventarono addosso, un altro si aggrappò al cimiero. Il cavaliere abbatté quest'ultimo a mani nude, poi si fece indietro cercando di allontanarsi dall'animale agonizzante, ma nel frattempo altri pagani tentarono di afferrarlo.
Egli però aveva sfoderato la spada, e quelli che lo stavano incalzando più da presso caddero malamente nel loro stesso sangue.
Reinhardt si fece avanti. Raggiunse al galoppo il confratello, si piegò sulla sella e calò un tondo dritto sul collo di uno dei pagani. Quella che volò in aria, descrivendo un'ampia parabola, gli parve la testa di una donna.
Tirò le redini raddrizzando la schiena, fece girare sui posteriori il suo agile destriero, lo spinse nuovamente in avanti, ma nel tempo della conversione l’altro aveva già ucciso i due nemici che lo minacciavano da vicino. Gli altri stavano scappando.

Quando i pagani andarono in rotta, Reinhardt aveva la sensazione di essere appena entrato in campo. Gli sembrava che fossero passati solo pochi, convulsi attimi.
Poi però si guardò intorno e si accorse che tutta la pianura era costellata di cadaveri. C’erano soldati riversi al suolo, qualche sergente, addirittura un mantello bianco, ma perlopiù i corpi erano quelli dei Samogizi, e ce n’erano a perdita d’occhio.
Per certi aspetti, la cosa lo stupì: da quando si trovava in Livonia, non li aveva mai visti combattere fino alla morte. Perlopiù, quando si accorgevano che le cose si mettevano male, preferivano abbandonare lo scontro e dileguarsi nei boschi per poi combattere nuovamente in condizioni più favorevoli.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo sul campo di battaglia: questa volta non doveva essere stato così facile dileguarsi.
Si tolse il Grande Elmo e tenendolo sull’arcione inspirò a pieni polmoni. L’aria era fredda, piacevole sulla pelle accaldata, ma greve dell’odore di sangue e di corpi smembrati. Ogni tanto, un refolo di fumo acre la appesantiva ulteriormente.
Aggrottò le sopracciglia. Man mano che la tensione dello scontro veniva meno, cominciavano a farsi sentire la stanchezza e il dolore. Il braccio destro gli faceva male come se ci fosse un cane che glielo stava mordendo, si sentiva la camicia appiccicata addosso dal sudore.
Si guardò gli abiti e si accorse che ormai erano ben lungi dall’essere candidi: le falde del mantello erano strappate, tagliate da colpi di spada. Sulla destra l’indumento era talmente inzuppato di sangue da esserne appesantito.
Per un po' rimase a fissare perplesso quella larga macchia rossa, già scura e secca sui bordi, poi si piegò in avanti per controllare che il cavallo non avesse qualche ferita.
Una voce lo fece sussultare: “Ebbene, fratello, come va?”
Si girò di scatto, la mano corse d'istinto al pomo della spada. Riconobbe fratello Manfred.
“Scusate,” disse, abbandonando la presa sull'arma.
L'altro scosse la testa. “Apprezzo chi non si fa cogliere alla sprovvista,” rispose. “Meglio mettere mano alla spada quando non ve n'è bisogno che non farlo quando le circostanze lo richiedono. Non sei d'accordo?”
“Sì, avete ragione.”
Il Komtur, le mani appoggiate sull'arcione, annuì e disse: “Ti sei comportato bene in battaglia, fratello.”
Reinhardt chinò appena la testa. “Vi ringrazio,” rispose.
“Sei ferito, per caso?”
Il più giovane crollò il capo. “No, signore.” Di nuovo abbassò gli occhi sui propri abiti. “No, non credo.”
“Rendiamo grazie a Dio per questo,” rispose il Komtur. “Non tutti sono così fortunati alla loro prima battaglia contro i pagani.”
Detto questo, fratello Manfred spronò il destriero e raggiunse un gruppetto di sergenti e mezzi fratelli che stavano allineando da una parte i corpi dei Samogizi. Reinhardt notò che fratello Emelrich stava già indossando i paramenti per impartire una benedizione alle salme.
Cercò con lo sguardo fratello Ulrich, augurandosi che non appartenesse a lui il mantello bianco che aveva visto a terra calpestato e insanguinato.
Lo scorse ai margini del campo, seduto su un manto di pelliccia che probabilmente aveva raccolto da qualche nemico morto. Assicurò il Grande Elmo alla sella, quindi scese da cavallo e tenendo l'animale per le redini lo raggiunse.
Al suo arrivo l'altro alzò lo sguardo su di lui. “Sei qui,” disse.
“A Dio piacendo.”
L'altro sorrise. “Pare che tu sia piaciuto anche al Komtur. L'ho visto mentre ti parlava, aveva l'aria soddisfatta.”
Reinhardt si limitò ad annuire.
Fratello Ulrich gli fece cenno di sedere accanto a lui. “Che c'è?” gli chiese poi. “Sei ferito per caso?”
“No, è che...” Sospirò, scosse la testa. “Non lo so, non capisco. Noi portiamo del bene a costoro, portiamo il vero Dio, portiamo case di pietra, attrezzi utili. Perché invece di accettare il nostro aiuto si ostinano a combatterci?” Fece un ampio gesto per indicare il campo di battaglia, quindi in tono amaro soggiunse: “Perché donne o ragazzini a stento in grado di sollevare un'arma si ergono contro di noi facendo questa misera fine? Non sanno che i loro idoli sono solo simulacri di legno che non significano nulla?”
“Forse vogliono vivere a modo loro,” fu la risposta dell'altro, pronunciata col tono paziente del genitore che sente un bambino fare una domanda profondamente ingenua.
“Si fanno ammazzare a decine pur di poter continuare a vivere in spelonche buie, venerando idoli e mangiando quel poco che la loro coltivazione inefficace consente di strappare alla terra?”
“Loro credono che sia giusto così. E ora siedi, Reinhardt, hai la faccia di uno che sta per cadere lungo disteso da un momento all'altro.”



   
 
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