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Autore: MackenziePhoenix94    24/07/2019    0 recensioni
SECONDO LIBRO.
“Un sogno non può durare per sempre. Arriva per tutti il momento di svegliarsi e di fare i conti con la realtà.
E quel momento, purtroppo, è arrivato anche per me”.
Dopo due sole settimane, Nicole ritorna a Chicago portando con sé i segni, sia mentali che fisici, della sua relazione con Theodore Bagwell.
Ciò che ha in mente è chiaro e ben delineato: lasciarsi alle spalle l’uomo che l’ha presa in giro e ricominciare una nuova vita, questa volta sul serio; ma i suoi piani vengono nuovamente sconvolti quando riceve una chiamata proprio dal suo ex compagno.
L’uomo, in lacrime, la supplica di raggiungerlo e, così facendo, costringe Nickie ad affrontare l’ennesimo bivio: rifiutare o accettare?
Ancora una volta, Nicole decide di seguire il proprio cuore: senza esitare, parte per Panama, per raggiungere Bagwell, del tutto ignara delle conseguenze che la sua decisione avrà.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono una ricercata, di conseguenza non posso uscire di casa perché potrei essere riconosciuta da qualcuno.

Tuttavia non trascorro le mie giornate sul divano o chiusa a chiave nella camera degli ospiti: il silenzio ed il buio portano a riflettere, e riflettere porta a ricordare, ed io non voglio assolutamente ricordare tutto quello che è accaduto nelle ultime due settimane; la notte è una tortura già abbastanza crudele, non c’è bisogno di rincarare la dose anche durante il giorno, rischierei solo di andare fuori di testa e costringerei Karla a farmi ricoverare in una clinica psichiatrica.

Riempio le mie giornate occupandomi delle pulizie domestiche: in questo modo, tengo la mente sempre occupata, ed è anche un gesto carino per ringraziare la mia ex collega dell’ospitalità, perché per tenere nascosta me sta rischiando davvero tanto.

A volte questa tecnica funziona, perché ci sono giorni in cui arrivo quasi a scordarmi il casino in cui sono immersa fino ai capelli; ma ci sono altri in cui il dolore torna a prendere il sopravvento, perché basta una piccolissima sciocchezza e lui ridiventa il padrone totale della mia mente.

Karla si è prefissata l’obiettivo di farmi dimenticare di lui, come se non fosse mai esistito; dubito seriamente che questo sia possibile, eppure lei ci crede veramente e lo dimostrano i gesti drastici che adotta: come prima cosa, infatti, mi costringe a tagliare in tante piccole strisce di stoffa la felpa nera che indossavo al mio arrivo, proprio perché è sua, e me le fa gettare in pasto alle fiamme del caminetto che c’è in salotto.

Al cappello a visiera non va molto meglio, perché finisce nel bidone della spazzatura dopo essere stato barbaramente calpestato dalle mie scarpe da ginnastica.

Forse non è la migliore delle tecniche da adottare in situazioni come questa, eppure riesco a trarvi qualche piccolo beneficio per il mio cuore spezzato; e dopo quindici giorni trascorsi a casa della mia unica amica, inizio già a sentirmi meglio.

“È strano” commento un pomeriggio, mentre entrambe siamo sedute sul divano, impegnate a gustarci una fetta di crostata ai mirtilli che abbiamo preparato qualche ora prima “forse perfino prematuro da dire, ma inizio davvero a sentirmi meglio, e ti confesso che ci sono giorni in cui faccio fatica a credere che non sia stato tutto uno spiacevole incubo”

“Sono davvero contenta di sentirti dire queste parole, Nicole, anche il tuo viso è diverso. Si vede che stai tornando a vivere” risponde Karla, mangiando un boccone di torta, rivolgendomi un sorriso che questa volta riesco a ricambiare senza alcun sforzo.

Ha proprio ragione: piano piano, passo dopo passo, il veleno che ha intossicato il mio corpo si sta dissolvendo, ed io sto tornando finalmente a vivere; sono solo sorpresa che stia accadendo così in fretta, così presto.

È proprio vero quando dicono che l’essere umano è la più bizzarra delle creature, soprattutto nell’ambito dei sentimenti.

Siamo così impegnate a parlare ed a gustarci la crostata ai mirtilli che non prestiamo attenzione alla TV accesa, tuttavia lo schermo focalizza subito la mia attenzione quando la soap-opera che stiamo distrattamente ascoltando, viene interrotta bruscamente da un’edizione straordinaria di un notiziario; davanti a me appare Alexander Mahone: l’agente dagli occhi di ghiaccio, identici a quelli di un predatore famelico, che mi ha personalmente interrogata alla centrale di polizia di Joliet, e che ha smosso delle insinuazioni sul mio passato.

L’uomo annuncia con fierezza di essere riuscito a catturare Michael Scofield e Lincoln Burrows, ed aggiunge che è solo questione di tempo prima che gli altri latitanti condividano il loro stesso destino.

Karla si affretta a prendere in mano il telecomando ed a cambiare canale, ma ormai il danno è fatto
.
Abbasso lo sguardo sulla fetta di torta e poi lo sposto nuovamente in direzione della TV: stanno trasmettendo un programma di gag esilaranti, nello specifico un video amatoriale che riprende una donna che tenta di salire su un traghetto ormeggiato, ma a causa della passerella traballante finisce miseramente in acqua.

È una scena stupida, vista mille e mille volte, eppure nella sua semplicità mi provoca un eccesso di risa che non riesco a contenere e che, dopo qualche secondo, contagia anche la mia ex collega.

Ci ritroviamo entrambe a ridere, con le lacrime a rigarci le guance, incapaci quasi di riprendere fiato per respirare; e proprio a causa delle nostre risate, in un primo momento ignoro il cellulare che ha iniziato a vibrare in una tasca dei miei pantaloni.

Mi asciugo le lacrime, lo tiro fuori e guardo lo schermo.

Decido di rispondere nonostante si tratti di un numero sconosciuto.

“Pronto?” dico, cercando di placare un altro attacco di risate che prova a farsi strada in me; dall’altra parte non arriva alcuna risposta, solo un brusìo di sottofondo che non riesco ad identificare “ascolta, se si tratta di uno scherzo di pessimo gusto…”

“Nicole…”.

Nello stesso momento in cui sento una voce maschile, strascicata, pronunciare il mio nome mi alzo di scatto dal divano, con gli occhi e la bocca spalancati; il piattino che ho in grembo scivola a terra, nella morbida moquette bianca si forma una macchia viola, ma me ne frego altamente.

“Teddy?” sussurro, ignorando la mia ex collega che mi fa cenno di chiudere immediatamente la chiamata “che cosa vuoi?”.

Silenzio.

Ancora un brusìo di sottofondo.

Un respiro ansante.

“Io…” dice con voce impastata, che m’impedisce quasi di capire quello che sta dicendo “io volevo… Solo… Parlare con… Te”.

La voce impastata, il modo in cui strascica le parole, il modo in cui ansima, mi fanno sorgere un dubbio che mi colpisce come un pugno allo stomaco.

“Teddy, hai bevuto? Sei ubriaco?”

“Non… Non lo so” mormora, confuso, ma per me è già una risposta sufficiente: sì, ha pesantemente bevuto, ed è completamente ubriaco, molto probabilmente non ha neppure coscienza delle parole che gli escono dalla bocca “so solo che in questo momento… Ho messo in vivavoce perché ho una… Ho una pistola carica in mano. E ho l’indice destro appoggiato al grilletto… Nickie… Credo di essere in procinto di fare qualcosa di molto… Come si dice… Stupido”.

Il pugno si trasforma in una coltellata che mi mozza il respiro in gola.

Merda.

Mi passo la mano destra tra i capelli ed inizio a camminare nervosamente per la stanza, cercando di mantenere un tono calmo e controllato, perché sarebbe inutile farsi prendere dal panico.

“Ascoltami, ti prego!” esclamo, scandendo in modo accurato ogni singola parola, per essere sicura che riesca a comprenderne il senso “dove ti trovi in questo momento?”
“Credo di essere sdraiato su un letto, ma non ne sono… Non ne sono sicuro”
“Sei nella stanza di un hotel?”
“Così sembrerebbe” mormora lui, sospirando e facendo schioccare la lingua; prendo a mia volta un profondo respiro e cerco di strappargli più informazioni possibili, sforzandomi di non pensare alla pistola carica che ha in mano ed al fatto che, come Teddy stesso mi ha detto molto chiaramente, sia in procinto di commettere qualcosa di molto stupido.

“Ascoltami attentamente” ripeto una seconda volta “come si chiama l’hotel in cui ti trovi in questo momento? Ho bisogno di sapere qual è il suo nome, altrimenti non posso aiutarti”

“Non lo so… Era qualcosa che aveva a che fare con… Con il cielo… O forse le stelle… Era spagnolo… Aspetta un momento” attendo in silenzio, ascoltando i rumori che provengono dall’altra parte del cellulare: qualche borbottio incomprensibile, il suono di un oggetto di vetro che cade sul pavimento, un fruscio di carta; molto probabilmente sta frugando alla ricerca di un qualunque foglio o documento su cui c’è scritto il nome dell’hotel “ho trovato qualcosa. È la carta del servizio in camera”

“E cosa c’è scritto sulla carta?”

“C’è scritto che… C’è scritto che fanno delle ottime quesadillas al chili piccante. Tu hai mai assaggiato le quesadillas? Forse potrei ordinarle…”

“Teddy!” strillo, perdendo quel poco di autocontrollo che ancora mi è rimasto in corpo “questo non è il momento di pensare alle quesadillas! Ti prego, devi dirmi se c’è scritto il nome dell’hotel!”

“Aspetta… Ahh, eccolo qui, avevo ragione io. C’è scritto ‘Cielo Lindo’”

“Cielo Lindo. Perfetto. E in quale città ti trovi?”

“Panama”.

Il pugno, trasformato in una coltellata allo stomaco, viene sostituito da uno schiaffo in pieno volto che mi toglie il respiro e che mi fa girare la testa: già sapevo che non poteva essere rimasto in Alabama per tutto questo tempo, soprattutto dopo il modo brusco con cui abbiamo chiuso il nostro matrimonio, ma mai avrei potuto immaginare che avesse fatto tutta questa strada in quindici giorni.

Raggiungerlo a Panama significa prendere un aereo.

E prendere un aereo significa andare incontro a rischi inutili; significa un’alta probabilità di essere fermata, identificata e sbattuta dentro la cella di un carcere femmine, ma non prima di essere interrogata, e travolta da una valanga di domande su Teddy e sugli altri evasi ancora in libertà.

Ripenso ad Alexander Mahone, alle accuse smosse sul mio passato, ai suoi occhi glaciali, ed un brivido di paura mi percorre la spina dorsale in tutta la sua lunghezza; ciononostante la mia voce non trema quando rispondo a Theodore.

“Qual è il numero della tua camera?”

“La… Aspetta… Due… Zero… Non capisco se l’ultimo numero è un sette od un uno… Aspetta, credo sia un sette. Si. Duecentosette”

“Non muoverti da quella camera e non fare nulla di stupido fino al mio arrivo. Cercherò di prendere il primo volto per Panama, d’accordo? Quando sarò arrivata a destinazione, ti chiamerò e dovrai rispondere subito, d’accordo? Pensi di avere capito tutto? Non fare nulla di stupido e non mettere piede fuori da quella stanza fino a quando io non sarò arrivata. Hai capito quello che ho detto, Theodore? Hai capito tutto?”

“Si, Nicole” sussurra il mio ex compagno con un filo di voce, e prima di riattaccare aggiunge poche parole che mi fanno balzare il cuore in gola “ma, ti prego, cerca di fare presto. Non so per quanto tempo riuscirò ancora a resistere”.

Infilo il cellulare in una tasca dei pantaloni e, senza dare una sola spiegazione a Karla, mi precipito al piano superiore correndo, per racimolare i miei pochi effetti personali nel vecchio e logoro zaino che ho portato con me dall’Alabama; la mia ex collega mi raggiunge velocemente, si appoggia con entrambe le mani allo stipite della porta e mi guarda con gli occhi spalancati, sconvolta.

“Che cosa stai facendo? Che cosa ti ha detto?”

“Sto partendo” rispondo; le mani mi tremano così tanto che quasi non riesco a contare le banconote che mi sono rimaste, per capire se mi bastano ad affrontare il lungo viaggio verso Panama “devo andare da lui perché si trova nella merda più totale”

“Che cosa ti ha detto?”

“Da quel poco che sono riuscita a capire, si trova in un hotel a Panama ed è completamente ubriaco. Ha una pistola carica in mano e si sente in procinto di fare qualcosa di molto stupido. Ed io non glielo posso permettere” spiego in modo concitato, mi mordo il labbro inferiore e mi sposto nel bagno infondo al corridoio; spalanco le ante di un piccolo armadietto e prendo del cotone, delle garze e del disinfettante “ho bisogno di portare con me queste cose per qualunque evenienza. Ti prometto che non appena mi sarà possibile, te le ripagherò”

“Tu non mi devi ripagare di niente, e soprattutto non devi andare da lui!” protesta Karla, scuotendo la chioma rossa e folta, che ondeggia da una spalla all’altra “tu non… Nicole! Non puoi correre da lui solo perché ti ha fatto una sceneggiata melodrammatica per telefono! Come puoi essere sicura che non si tratti di una messinscena e che stai andando incontro ad una trappola? Come puoi andare da lui, a Panama, dopo quello che ti ha fatto? Dopo le condizioni disumane in cui ti ha ridotta!”.

Sistemo entrambe le cinghie dello zaino sulla spalla destra, mi volto a fissarla e la raggiungo, appoggiandole entrambe le mani sulle spalle, guardandola dritta negli occhi.

“Mi dispiace deluderti” dico in un sussurro, e già sento un velo di lacrime pizzicarmi gli occhi “ma io devo andare, non posso lasciarlo là. Non si tratta di una messinscena, ho sentito la sua voce, e ti posso assicurare che non sta fingendo. È davvero disperato, ed ha bisogno di me. Non posso lasciarlo con una pistola carica in mano, in procinto di spararsi”

“Si che puoi, invece. È esattamente ciò che si merita per tutto il male che ha fatto a te ed alle famiglie di quelle povere vittime innocenti. Lascialo da solo in quell’albergo a Panama. Lascia che si spari un colpo in testa e che ponga fine alla sua vita: il mondo intero gliene sarà grato”

“Non posso farlo” ripeto ancora “mi dispiace, ma non posso farlo”

“Perché?” mi domanda Karla, con un’espressione disperata, perché continua a non capire; sciolgo la presa dalle sue spalle e le mostro l’anello dorato che tuttora indosso all’anulare sinistro.

“Perché io gli ho promesso di essere a suo fianco in qualunque occasione e di non abbandonarlo mai. Ed anche se adesso lui mi odia, io non sono intenzionata ad infrangere la promessa che gli ho fatto quando ci siamo sposati a Las Vegas, perché io e lui siamo ancora marito e moglie. E perché lo amo, ed ora ha bisogno di me più che mai. Non preoccuparti per il viaggio, in passato mi sono ritrovata più volte in situazioni difficili, riuscirò a badare a me stessa anche in questa occasione… E ti prometto che al mio ritorno ti ripagherò il cotone, le garze ed il disinfettante che ho preso dal bagno” sorriso, sperando di contagiare la mia unica amica con quella battuta, ma lei resta seria, impassibile, e le parole che pronuncia subito dopo suonano come una sinistra premonizione.

“Nicole… Sai che se adesso uscirai da questa casa, non tornerai più indietro, vero?”.

Non rispondo alla domanda di Karla, preferendo stringerla in un silenzioso abbraccio.

“Grazie per tutto quello che hai fatto per me nelle ultime due settimane. Sei stata l’amica migliore che potessi desiderare” mormoro, stringendola ancora un po’, prima di lasciarla andare; scendo al pianoterra velocemente ed esco dalla graziosa villetta bianca, a due piani, senza mai voltarmi indietro.
 
   
 
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