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Autore: MackenziePhoenix94    17/07/2019    0 recensioni
SECONDO LIBRO.
“Un sogno non può durare per sempre. Arriva per tutti il momento di svegliarsi e di fare i conti con la realtà.
E quel momento, purtroppo, è arrivato anche per me”.
Dopo due sole settimane, Nicole ritorna a Chicago portando con sé i segni, sia mentali che fisici, della sua relazione con Theodore Bagwell.
Ciò che ha in mente è chiaro e ben delineato: lasciarsi alle spalle l’uomo che l’ha presa in giro e ricominciare una nuova vita, questa volta sul serio; ma i suoi piani vengono nuovamente sconvolti quando riceve una chiamata proprio dal suo ex compagno.
L’uomo, in lacrime, la supplica di raggiungerlo e, così facendo, costringe Nickie ad affrontare l’ennesimo bivio: rifiutare o accettare?
Ancora una volta, Nicole decide di seguire il proprio cuore: senza esitare, parte per Panama, per raggiungere Bagwell, del tutto ignara delle conseguenze che la sua decisione avrà.
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, T-Bag
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un sogno non può durare per sempre.

Arriva per tutti il momento di svegliarsi e di fare i conti con la realtà.

E quel momento, purtroppo, è arrivato anche per me.


 
Mi guardo attorno con accuratezza, stringo tra le mani la stoffa del cappuccio che mi copre la testa, e percorro rapidamente il vialetto che conduce ad una graziosa villetta a due piani, pitturata di bianco; salgo i scalini posizionati sotto al portico e mi avvicino alla porta d’ingresso.

Leggo un’ultima volta il nome scritto sulla targhetta di ottone e suono il campanello due volte, retrocedendo poi di un passo; mi tormento il labbro inferiore coi denti, in attesa di una risposta, sperando che lei venga ad aprirmi la porta, e mi guardo ancora una volta alle spalle, spaventata dalla sola prospettiva che qualcuno possa riconoscermi e chiamare immediatamente la polizia.

Perché in quel caso, per me, non ci sarebbe alcuna via di scampo.

Fortunatamente questa volta le mie preghiere vengono ascoltate, e la porta viene aperta da una mia coetanea, dalla vaporosa chioma rossa e dagli occhi chiari; sono proprio i suoi occhi chiari che, spalancandosi, mi fanno capire di essere stata riconosciuta nonostante gli occhiali da sole, il cappello a visiera, ed il cappuccio che sono costretta ad indossare.

“Nicole?” mi domanda Karla in un sussurro, inarcando le sopracciglia in un’espressione sorpresa ed incredula “ma sei proprio tu?”

“Sì” rispondo a mia volta in un soffio appena udibile “sì, sono io”.

La mia ex collega mi afferra per un braccio, facendomi entrare in casa, e poi si affretta a chiudere a chiave la porta d’ingresso, ed a tirare le tende di tutte le finestre del salotto, in modo da ripararmi da possibili sguardi indiscreti; indossa ancora la maglietta ed i pantaloni rosa di un pigiama coordinato, ma sembra non esserne affatto preoccupata perché tutta la sua attenzione è catalizzata su di me.

“Mio dio!” esclama ancora incredula, guardandomi “credevo che non ti avrei mai più rivista! Qualcuno ti ha riconosciuta mentre venivi qui?”

“Credo di no. Ho cercato di non dare nell’occhio e di camminare il più velocemente possibile”

“Ma dove sei stata nelle ultime due settimane? Che cosa ti è successo?”.

Alla sua ultima domanda mi stringo nelle spalle; esito, ma poi abbasso il cappuccio della felpa eccessivamente larga per me, tolgo il cappello a visiera e faccio lo stesso con gli occhiali da sole, rivelando il brutto livido violaceo che deturpa il lato sinistro del mio viso.

Sento Karla trattenere rumorosamente il respiro e la vedo portarsi entrambe le mani alla bocca; resta paralizzata per qualche secondo, prima di trovare il coraggio di avvicinarsi a me e di sfiorarmi il livido con i polpastrelli della mano destra, come per accertarsi che quello che i suoi occhi stanno vedendo non sia solo un brutto incubo.

E, purtroppo, non lo è.

“Io…” dico, cercando di dare una spiegazione alle condizioni orribili in cui mi trovo, ma mi blocco subito perché non so come continuare, ed abbasso la testa in un atteggiamento vergognoso e colpevole.

Perché è proprio così che mi sento.

Colpevole.

“Ohh, mio dio… Mio dio…” ripete ancora la mia ex collega, scuotendo la testa “che cosa ti hanno fatto? Che cosa ti ha fatto?”.

È sufficiente il piccolo ed indiretto riferimento a lui per farmi crollare definitivamente: mi lascio cadere sul divano alle mie spalle, mi copro il viso con le mani e scoppio in un pianto disperato.

Un paio di braccia mi cingono le spalle in un abbraccio di cui ho profondamente bisogno, ed in cui mi rifugio; Karla mi lascia sfogare in silenzio, limitandosi a stringermi più forte, mi parla solo quando riesco a calmarmi almeno in parte: con un sorriso dolce e comprensivo sulle labbra, facendomi capire che è totalmente dalla mia parte e che non è intenzionata a tradirmi ed a fare una soffiata alle autorità, mi dice che non devo preoccuparmi di darle delle spiegazioni, che quel momento arriverà, e che adesso ho bisogno solo di riposarmi e di calmarmi, o potrei avere un esaurimento nervoso.

Mi accompagna al primo piano della villetta, mostrandomi una camera da letto per gli ospiti, mi porta dei vestiti puliti e, prima di andarsene, mi dà il permesso di usare il bagno che c’è infondo al corridoio per una bella doccia rigenerante; in questo momento, però, farmi una doccia è il mio ultimo pensiero, e non appena la porta della camera si chiude, mi lascio cadere sul materasso, rivolgendo lo sguardo al soffitto immacolato, dove troneggiano le pale di un ventilatore, senza vederlo veramente.

Infilo la mano destra in una tasca della felpa e tiro fuori la collanina dorata; osservo il monile prezioso, la fede maschile, e con prepotenza si fa strada nella mia mente il ricordo del mio matrimonio a Las Vegas.

Sembrano trascorsi secoli, invece sono passati appena quattordici giorni.

Quattordici, fottutissimi, giorni sono bastati a stravolgere di nuovo la mia vita.

Rigiro l’anello tra le mani, lo stringo nel pugno sinistro, serro le palpebre e non riesco più a trattenere un altro pianto disperato.



 
Alla fine la stanchezza ha la meglio sul mio cuore spezzato.

Apro gli occhi la mattina seguente, quando il sole è già alto in cielo, e rivolgo un’occhiata allo schermo del mio cellulare: le undici e mezza.

Ho dormito quasi per ventiquattro ore consecutive, eppure mi sento tutt’altro che riposata.

Come un automa, scosto le coperte e mi alzo dal letto; prendo in mano i vestiti che Karla ha lasciato sopra ad uno sgabello e, strascinando i piedi, raggiungo il bagno infondo al corridoio perché adesso sento l’urgenza di farmi una doccia.

Apro il getto d’acqua, mi spoglio, ed entro nel piccolo abitacolo; chiudo gli occhi e lascio che l’acqua calda mi colpisca il viso ed i capelli, appiccicandomeli alla testa ed alla nuca, scivolando poi lungo il mio corpo tempestato da lividi scuri, simili a quello che ho in viso, che non ho il coraggio di guardare ed esaminare: sembro una mappa dell’orrore, i cui rilievi geografici altro non sono che ecchimosi semipermanenti, che spariranno lentamente, nell’arco di diverse settimane.

Ed anche se spariranno dalla mia pelle, resteranno comunque impressi nella mia mente.

Mi sento una bestia da macello, marchiata a fuoco dal suo padrone.

La doccia calda si rivela essere tutt’altro che ristoratrice, e quando poso i piedi sul morbido tappetino verde posizionato appena fuori dall’abitacolo, mi sento esattamente come prima: vuota, stanca e sporca.

Neppure tutti i bagni del mondo riuscirebbero a scrollarmi dalla pelle questa maledetta sensazione di sporcizia, marciume e colpevolezza.

Dopo essermi asciugata e vestita, raccolgo i capelli in un nodo sulla nuca e scendo al pianoterra, chiamando per nome la mia ex collega e cercandola con lo sguardo: non c’è, ma si è preoccupata di lasciarmi un biglietto, attaccato al frigo in cucina, in cui ha scritto che è a lavoro e che non tornerà prima di sera; si è anche preoccupata di lasciarmi una generosa colazione a base di caffè, pane tostato, marmellate e biscotti.

Sorrido, commossa da questa sua premura, perché Karla non ha nessun debito nei miei confronti, eppure sta facendo tutto questo ugualmente.

Anche se sento lo stomaco ancora stretto in una morsa, mi sforzo di mangiare qualcosa: prendo una fetta di pane tostato, ci spalmo sopra della marmellata di fragole, e le do qualche morso prima di riempire una tazza di caffè ancora caldo, sorseggiandolo appena; quando sento di non riuscire ad ingurgitare altro, abbandono la tazza di ceramica sul tavolo e mi sposto in salotto.

Il divano ha un aspetto così comodo ed invitante che mi sdraio subito, rifugiandomi sotto una pesante coperta imbottita; appoggio la testa su un cuscino e resto così, a fissare il vuoto, con la mente completamente sgombra da tutto.

Non voglio pensare.

Non voglio ricordare.

Non voglio farlo, altrimenti mi ritroverei a versare nuove lacrime nell’arco di pochi secondi.

Lo stato di apatia in cui mi trovo mi fa lentamente scivolare nel sonno, e trascorro l’intera giornata in uno stato di dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno; mi sveglio solo quando sento qualcuno trafficare con la serratura della porta d’ingresso.

Il cuore mi balza subito in gola, perché il mio primo pensiero va subito ad una possibile soffiata alla polizia; rilasso le spalle non appena vedo Karla entrare con in mano due buste della spesa, e mi lascio andare in un sospiro di sollievo.

Purtroppo, quando sei una ricercata, devi costantemente avere a che fare con i nervi a fior di pelle.

“Ehi, scusa il ritardo!” esclama la mia amica, appoggiando le buste a terra e chiudendo con cura la porta a chiave “mi sono fermata a prendere un po’ di provviste visto che adesso siamo in due qua dentro”

“Non avresti dovuto disturbarti” commento, alzandomi dal divano, stringendomi nelle spalle.

“Non dirlo neppure per scherzo. Dai, forza, aiutami a portare queste buste in cucina e poi prepariamo qualcosa da mangiare. Mia nonna mi ha sempre detto che a stomaco pieno ogni cosa assume una piega più piacevole”.

La nonna di Karla ha perfettamente ragione, peccato che il suo personalissimo detto può essere applicato se una persona riesce a mangiare di gusto tutto ciò che ha sul proprio piatto; io, invece, dopo aver aiutato la mia ex collega a preparare degli hamburger con patatine fritte e ketchup, riesco a malapena a sbocconcellare un po’ di pane e carne, proprio come è accaduto con la colazione.

La TV è spenta, in cucina non vola neppure una mosca, così mi schiarisco la gola e senza alzare gli occhi dalla mia cena, interrompo il silenzio con una domanda.

“Come va a lavoro? Insomma… Qual è la situazione attuale a Fox River?”.

Non sono veramente ansiosa di sapere come vanno le cose a Fox River, ma il silenzio mi spinge a pensare, ed io voglio solo trovare un modo per distrarmi.

Karla beve un sorso di latte e piega le labbra in una smorfia.

A quanto pare sto per sentire notizie tutt’altro che buone.

“Non molto bene” mi conferma lei, difatti “nell’ultimo periodo sono cambiate moltissime cose e ci sono state parecchie ripercussioni. Sono volate diverse teste, tra cui quelle del direttore Pope e del Capitano Bellick: entrambi sono stati sollevati dal loro incarico, lo sapevi?”.

Scuoto la testa, incredula.

No, non lo sapevo e ciò non fa altro che accrescere il mio senso di colpevolezza: non nei confronti di Bellick, perché lui è sempre stato un bastardo ed uno stronzo, ma nei confronti di Pope, che ho sempre considerato come un uomo buono, giusto, e sinceramente legato al suo lavoro.

No, non meritava affatto un simile trattamento.

“Non sapevo nulla di tutto questo”

“E non è tutto. C’è una parte che riguarda anche Sara: a quanto pare, ha avuto un ruolo attivo nel corso dell’evasione perché la porta dell’infermeria era aperta e l’ultima persona dello staff che è stata vista uscire da lì, è stata proprio lei. Quando la polizia si è recata nel suo appartamento per arrestarla, l’hanno trovata in fin di vita sul divano in salotto, a causa di un’overdose di morfina”.

Mi porto la mano destra alle labbra e mormoro qualche parola, sempre più sconvolta; ripenso al giorno in cui ho conosciuto Sara, rivedo il suo volto sorridente, affabile, incorniciato dai lunghi e mossi capelli ramati, e faccio fatica ad immaginarmela priva di sensi sul divano del suo appartamento, con una siringa ancora conficcata nella pelle di un braccio e con una pozza di vomito che si allarga sul pavimento.

Queste due immagini stridano così tanto nella mia mente che mi domando, per un istante, se tutto questo non sia altro che un orribile incubo.

“Ma… Perché lo ha fatto?”

“Scofield” si limita a dire Karla, ed io capisco subito ciò che si nasconde dietro la sua risposta lapidaria, perché si tratta dello stesso sentimento che mi ha spinta a diventare una ricercata, infischiandomene delle conseguenze: amore.

Un amore cieco e bruciante, impossibile da domare, controllare, o reprimere.

E proprio come un incendio, le sue fiamme hanno inghiottito qualunque cosa, prima di consumarsi con la stessa rapidità con cui si sono scatenate, lasciando alle loro spalle solo macerie e cenere grigia.

“Lei dov’è ora?”

“Da quello che dice la TV, a breve dovrebbe esserci il suo processo. Ovviamente anche lei è stata sollevata dal suo incarico di dottoressa. Anzi. Non può più esercitare questa professione. E c’è ancora un’ultima cosa che devi sapere” la mia ex collega abbassa lo sguardo, ed un velo di tristezza scende sui suoi occhi azzurri “Bellick è stato arrestato e rinchiuso a Fox River con l’accusa di avere ucciso Adam”

“Non è stato Bellick” dico a bassa voce, dopo un lungo silenzio, ripetendo subito dopo le mie stesse parole con più convinzione “non è stato Bellick ad uccidere Adam. Lo so per certo, perché il vero colpevole me lo ha fatto capire molto chiaramente”.

Karla solleva di nuovo il viso, mi guarda negli occhi e si tormenta il labbro inferiore; so che vuole farmi una domanda, ma c’è qualcosa che la blocca, e capisco di che cosa si tratta quando trova la forza di parlare.

“È stato lui ad ucciderlo, vero?”

“Sì, è stato lui” mormoro, giocherellando con una patatina ormai fredda “qualche giorno dopo l’evasione, ce ne siamo andati da Chicago e dall’Illinois. Abbiamo raggiunto Tooele, nello Utah, perché Westmoreland aveva nascosto cinque milioni di dollari sotto il silo di un vecchio ranch abbandonato. Abbiamo trovato quei soldi e ci siamo dati alla pazza gioia, ma poi Adam e Bellick sono riusciti a trovarci. Volevano i soldi e… Lui è stato costretto a rivelare il posto in cui li aveva nascosti perché credeva che Adam avesse abusato di me. Quando siamo riusciti a scappare, lui ha agito di conseguenza: lo ha trovato, lo ha ucciso e si è assicurato di far ricadere la colpa su Brad… Ed a quanto pare ci è riuscito benissimo”.

Sì, mi sento terribilmente colpevole anche per lui.

Perché se non fossi stata così stupida, così cieca e così ingenua, Adam sarebbe ancora vivo; invece, a neppure trent’anni, il suo corpo si trova dentro una bara di legno, sepolto da metri e metri di terra, in pasto ai vermi.

“Mio dio… Mio dio, avrei dovuto immaginarlo…” la mia unica amica scuote la testa e poi mi prende per mano, facendomi capire che il fatidico momento è già arrivato, solo che io non sono ancora pronta per affrontarlo “Nicole, so che è ancora presto, ma vorrei che mi raccontassi cosa ti è accaduto. Hai le braccia piene di lividi”

“E non solo quelle” confesso, perché a questo punto è inutile mentire: sollevo appena la maglietta e le mostro il ventre maculato che mi ritrovo, facendole capire che anche il resto del mio corpo si trova nelle medesime condizioni; abbasso la stoffa e contemporaneamente il viso, stringendomi nelle spalle e portandomi le ginocchia al petto, prendo un profondo respiro tremante e riprendo a parlare “è stata tutta colpa mia”

“No, Nicole! Non dirlo mai più!”

“Perché? Sto solo dicendo la verità. Nessuno mi ha costretta con la forza, nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia, è stata una mia libera scelta, e se adesso mi ritrovo in queste condizioni, non posso dare la colpa a nessun altro tranne che a me”

“Ma non sei stata tu a ricoprirti di lividi! È stato lui!”

“Ma è successo per una cazzata che ho commesso” ribatto, raggomitolandomi di più in me stessa, perché sento che i ricordi stanno per tornare da un momento all’altro.

Karla mi appoggia una mano sul braccio sinistro, accarezzandomi la pelle con il pollice, e con voce dolce m’incoraggia a proseguire.

“Vuoi raccontarmi che cosa è successo tra voi due?”.

No, non voglio farlo perché non me la sento, ma che senso avrebbe aspettare? Raccontarlo oggi o tra due giorni non farebbe alcuna differenza, perché sentirei sempre lo stesso dolore lancinante al petto; tanto vale farlo subito.

“Abbiamo litigato” inizio, allora, rifiutandomi però di scendere nei particolari “abbiamo litigato in modo violento a causa di una cosa che lui ha detto. Io ho perso letteralmente la testa e ho agito per vendetta, senza pensare alle conseguenze. Sapevo che si sarebbe arrabbiato, volevo che si arrabbiasse in modo da fargli capire come io mi ero sentita… Ma non immaginavo una reazione simile… Avresti dovuto vedere i suoi occhi, mio dio…”

“Ed è stato a quel punto che ti ha picchiata?”.

Ecco, sento i ricordi che iniziano a venire prepotentemente a galla.

“Mi ha portata fuori casa, spingendomi dentro un vecchio scantinato. Ha sprangato la porta perché non uscissi e poi è rimasto in giardino, seduto. Ho gridato, ho pianto, l’ho supplicato di farmi uscire e di parlare di quello che era accaduto, perché non era ancora troppo tardi per trovare una soluzione, ma lui ha continuato ad ignorarmi. Non so per quante ore sono rimasta confinata là dentro, ma quando la porta è stata aperta non c’era lui dall’altra parte, bensì due poliziotti che erano venuti a salvarmi: qualcuno aveva detto loro che ero tenuta in ostaggio lì dentro” sospiro, sto così male che non riesco neppure a pronunciare il suo nome “non l’ho più visto”

“Hai la più pallida idea di dove potrebbe essere in questo momento?” mi chiede Karla, con le labbra ridotte ad una linea pallida e sottile a causa della rabbia che sta cercando di reprimere in qualunque modo: rabbia che non prova per me, ma per lui e per ciò che mi ha fatto.

Non vuole proprio capire che la responsabilità di ciò che è successo è d’addossare completamente a me.

Scuoto la testa, perché davvero non ho la più pallida idea di dove si trovi in questo momento e che cosa stia facendo; in realtà, credo che io e lui non ci vedremo mai più.
Mi basta questo semplice e terribile pensiero per crollare per l’ennesima volta: affondo il viso sul palmo delle mani ed inizio a singhiozzare, disperata; non provo neppure a trattenermi perché ormai sono un vero e proprio torrente in piena.

“È tutta colpa mia, è solamente colpa mia” ripeto, scuotendo con più forza la testa “avrei dovuto capire ogni cosa fin dall’inizio, avrei dovuto ascoltare le tue parole, avrei dovuto andarmene da Fox River quando ero ancora in tempo, o prendere le distanza da lui ricordandogli che io ero una dottoressa e lui un semplice detenuto… Invece mi sono comportata come una ragazzina ingenua alle prese con la sua prima cotta, ho lasciato che lui mi rovinasse la vita e che mi trasformasse in una sua complice. E per colpa mia un ragazzo innocente è stato barbaramente ucciso”

“Non ti permetto di dire neppure questo!” esclama la mia ex collega, costringendomi a scostare le mani dal volto “mettitelo bene in testa: quello che è successo ad Adam non è colpa tua. Non lo hai ucciso tu. È stato quel mostro. È solo ed esclusivamente colpa sua. Tu sei una vittima, non una carnefice”

“E chi l’ha stabilito qual è il confine che separa l’essere vittima dall’essere carnefice?” mormoro, con un sorriso tirato “guardiamo in faccia la realtà, Karla: ho anch’io sulle spalle una buona parte di responsabilità e, forse, la cosa migliore da fare sarebbe andare alla prima stazione di polizia e costituirmi”

“No, non lo farai. Adesso parli così perché sei ancora sconvolta da quello che hai vissuto. Non è giusto che paghi al posto suo. Te l’ho detto, Nicole, sei solo l’ennesima vittima di quel mostro. Quel bastardo non ha fatto altro che divertirsi con te, e quando si è stancato, ti ha gettata via come una bambola di pezza. Ti ha fatto un vero e proprio lavaggio del cervello perché è bravo con le parole, qualunque altra ragazza sarebbe caduta nella sua trappola, la tua unica sfortuna è stata essere proprio quella ragazza”.

Ha ragione.

Karla ha perfettamente ragione su tutto, eppure le sue parole siano di ben poco conforto.

Tuttavia annuisco, ma poi mi ritrovo a sgranare gli occhi ed a rivolgerle un’espressione spaventata.

“Che cosa farò adesso?” le domando, in un sussurro, fissando il vuoto “non mi è rimasto nulla. Solo un vecchio zaino logoro, qualche vestito ed un rotolo di banconote”

“Riguardo a questo non ti devi assolutamente preoccupare” risponde lei con un sorriso, provando a contagiarmi “resterai qui il tempo necessario per riprenderti e per rimetterti in forze. Ti aiuterò a dimenticare quel figlio di puttana che ti ha distrutto la vita, e quando tornerai ad essere la ragazza che ho conosciuto due mesi fa, allora ti aiuterò a cercare un nuovo posto, il più lontano possibile da qui, dove ricominciare una nuova vita”.

Karla appoggia la mano destra sulla mia sinistra, ed io gliela stringo con forza, aggrappandomi con ogni fibra del mio essere a ciò che ha appena detto, alla prospettiva di un futuro luminoso che mi aiuti ad uscire dal baratro oscuro in cui sono caduta.

Voglio crederci.

Voglio tanto credere che le sue non siano parole vuote, che vengono pronunciate in occasioni come questa solo per consolare.
   
 
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