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Autore: Ellie_x3    28/07/2019    3 recensioni
A volte a Chuuya mancava qualcuno che gli tenesse compagnia senza essere...beh, Dazai.

La stessa persona che aveva “sbadatamente” dato fuoco al suo armadio e che gli hackerava la carta di credito ogni due giorni e che a volte camminava per casa nel cuore della notte, i piedi scalzi e l’espressione vuota, in preda ai fantasmi dell’inquietudine.
Convivere con quell'idiota era un lavoro a tempo pieno.
Tuttavia, più spesso di quanto volesse ammettere, si era chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quattro anni di separazione.
[Dazai Happiness Week 2019]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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I slept with a bandage wasting machine and all I got was this roaring fucking headache

 

 

Non è che Chuuya volesse ignorare il problema, nè cercasse in alcun modo di tenere nascosta la relazione con Dazai.
Il detective era una mummia dagli improbabili istinti suicidi, uno spreco di spazio ed un imbarazzo per la società, ma era il suo imbarazzo per la societá e Nakahara Chuuya era abbastanza maturo ed adulto per essere padrone delle proprie scelte, grazie tante, anche quelle fottutamente stupide come pretendere un comportamento normale da Dazai Osamu.
Ad ogni modo, non era quello il punto.
Il problema era, piuttosto, che nessuno sembrava intenzionato a credergli.
L’ultima volta che aveva provato ad accennarlo ad O’nee-san, nella tacita speranza che lo facesse rinsavire e gli ricordasse perché era una pessima idea, Kouyou era scivolata fuori dalla stanza senza che Chuuya se ne accorgesse (forse si era lasciato un po’ prendere la mano dal racconto, ma non era colpa sua se lo spreco di bende aveva dato fuoco alla cucina la sera prima).
Higuchi l’aveva fissato con occhi vuoti, in silenzio, prima di scoppiare in una risata; c’era quasi cascata, aveva detto, ‘Chuuya-san sarebbe davvero convincente se non lo conoscessi!’
Nonostante non avesse alcun interesse nel giustificare alla Port Mafia e all’Agenzia degli stupidi, inutili Detective Armati le proprie scelte era a conoscenza dei limiti di Dazai e delle difficoltà portate nel convivere con un nemico, seppur occasionale alleato.
Kunikida, ad esempio, non sembrava il tipo di persona che ne sarebbe stato felice; Mori-san l’aveva visto come un aggancio politico, se non come un bizzarro segno del destino. Fukuzawa era un maledetto enigma, Jinko probabilmente non si sarebbe accorto di qualcosa che accadeva sotto il suo naso e Edogawa— beh, Chuuya era scosso da un brivido al solo ricordo di come l'aveva abbandonato in un caso irrisolvibile, gran bel detective del cazzo.
Poi c’era Akutagawa che avrebbe vissuto quel cambiamento con eccessiva drammaticità, infatuato com’era dell’ex mentore, e Chuuya non aveva il tempo per recuperare un executive con la sindrome dell’abbandono, non quando era già difficile avere a che fare con lui e Jinko nella stessa stanza.
D'arta parte, nulla importava davvero se non quello che pensavano lui e — ugh — Dazai.
Certo, non poteva negare che fosse un’altalena.
Le notti in cui Dazai rincasava con un sorriso sulle labbra ed un sacchetto di carta del take away fra le mani erano lavate via insieme al sangue sui vestiti di Chuuya. I momenti di quotidianità, le colazioni insieme e le sere sul divano, erano cancellati come scritte sulla sabbia, sovrastati dall'esplosione delle litigate, dagli insulti, dal silenzio ossessivo di Dazai.
La sua espressione monocolore ("hai davvero gli stessi occhi morti di un pesce, mackerel") un tempo non aveva avuto significato per Chuuya, ma ora urlava la superiorità delle azioni dell’Agenzia. 
Noi non uccidiamo. 
Balle, avrebbe voluto dire l'executive, e comunque le morti accumulate da Dazai erano sufficienti per due vite. Comunque fosse, la sopravvivenza pacifica di Yokohama rimaneva un campo di battaglia e la Port Mafia avrebbe vinto; che Dazai tornasse a casa impettito e felice di aver salvato gattini dagli alberi, poco importava. E quanto era felice, Dazai, di sentirsi importante, di fregiarsi di quella ritrovata capacità di aiutare il prossimo che sfoggiava come un vestito nuovo. 
Più scivolava nella trappola dei momenti di pace più Chuuya sentiva di mal tollerare le crisi, le differenze. Era tornato emotivamente un diciottenne e di quello sì, di quello si vergognava.
Ma era troppo tardi per tornare indietro.


Capitava spesso che Chuuya rimanesse sul divano fino a tardi, Dazai impegnato in chissà che piano per infastidire il prossimo piuttosto che smaltire l'enorme montagna di report e documenti che aveva lasciato indietro dalla giornata. ‘Lasciali fare ad Atsushi-kun,’ cinguettava, ‘e solo i cattivi tramano nell’ombra della notte, Chuu-chuu. Noi buoni finiamo di lavorare quando il sole è alto, perché la luce è il nostro palco!’
In quelle occasioni, l’executive accoglieva le stronzate dell’ex partner con un grugnito disinteressato e si preparava ad una serata particolarmente produttiva accompagnata da un calice di rosso, sfogliando documenti con una matita a fissargli lo chignon disordinato sulla nuca e un’altra fra le labbra a mò di sigaretta per inibire il bisogno di fumare.
Quella sera, però, Chuuya sollevò lo sguardo, kanji e numeri che gli danzarono di fronte agli occhi anche un istante dopo aver smesso di guardare il foglio.
Dazai era in ritardo. Di solito, tornava a casa ben prima di lui.

A casa.

Chuuya di era soffermato sull’implicazione di quelle parole, a ca-sa, sillabe che suonavano familiari anche quando le pronunciava per la prima volta, tremanti anche se venivano dal fondo del cuore. A casa. Quando Dazai non era ancora tornato Chuuya non lo aspettava — no, si godeva la pace — ma si domandava ugualmente dove fosse, con chi. Cosa stesse facendo.
Immaginava il tracciato di dita fantasma che gli accarezzavano il corpo, e a volte se ne vergognava perché essere in astinenza da idiozia era l’ultima cosa che avrebbe mai sospettato, oppure vagava con la mente alle cose che avrebbero potuto fare, alle discussioni, ai mille difetti dell’ex partner.
Chuuya aveva un enorme repertorio di distrazioni Dazai-centriche e si facevano più insistenti ogni ora che passava. L’orologio sulla parete opposta segnava l’una meno un quarto quando Il suono della chiave che girava nella toppa lo fece sobbalzare.
Dazai era una figura barcollante nella penombra, il volto illuminato dalla lampada accanto al divano che rifletteva un’ombra sotto gli occhi castani. Chuuya si mise a sedere, aprendo la bocca per chiedergli cosa fosse successo, ma Dazai si lasciò crollare su di lui senza nemmeno sfilarsi di dosso l’impermeabile.
Non aveva idea se la sua presenza fosse un semplice ostacolo tra l'ex partner e il divano o se quella fosse stata una mossa calcolata, ma meccanicamente Chuuya gli posò la mano libera sul capo. Dazai aveva i capelli arruffati, e le sue dita inciamparono in ciocche annodate.
“Daza—”
“Taci,” mormorò l’altro, la voce roca di stanchezza e qualcos’altro, un pozzo scuro che Chuuya conosceva bene.
Non era la mancanza di tatto a sorprenderlo, quanto il fatto che Dazai avesse perso l’abitudine di allontanarsi da chiunque quando qualcosa andava storto: il partner che aveva conosciuto si isolava, rinchiudendosi in quattro mura di ossessione e calcoli per prevenire la situazione in futuro. Quella sera invece Dazai rimase immobile su di lui, la testa appoggiata sul suo petto, il mento appuntito che gli premeva in mezzo allo sterno nonostante la camicia ancora indosso dal lavoro, le braccia mollemente lasciate andare lungo i fianchi.
Chuuya chiuse gli occhi, lasciando perdere gli aggiornamenti sulle armi — un altro “lemon bomb” in orribile katakana, i tratti sgraziati e spigolosi, e i suoi neuroni avrebbero iniziato a supplicarlo di ammazzarsi con Dazai — e rilassando la testa contro il bracciolo. Come se non avesse aspettato altro, sentì il proprio corpo distendersi.
Dazai rimaneva teso, le sue spalle un intreccio di nodi e muscoli contratti, i suoi occhi sbarrati sul vuoto.
Lentamente, Chuuya occhieggiò il proprio smartphone sulla cassettiera: sarebbe stato ridicolmente facile scrollarsi di dosso lo spreco di bende e raggiungerlo, ma Dazai lo fermò prima.
“Non farlo.”
Chuuya sollevò un sopracciglio.
“Hah? Sei finalmente ammattito?”
“Non chiedere ad Atsushi,” mormorò Dazai, la voce cupa e sottile come vento invernale.
L’altro avrebbe voluto scrollare il capo, farlo parlare, abbracciarlo. Invece sbuffò.
“Non saprei come contattare Jinko, idiota. Pensavo al tuo partner quattr’occhi, Kunikida.”
Dazai non rispose, ma il ‘non ti azzardare’ esplose fra loro ugualmente. 
Non disse più nulla per quelle che parvero ore, e Chuuya rispettò quella decisione e lasciò che il silenzio li avvolgesse, accettando che qualcosa fosse andato storto e qualcuno fosse morto— forse un cliente, forse un passante. Accettò che Dazai ora desiderava che l'ex partner fosse testimone silente del suo lutto, qualunque esso fosse, e gli fece scorrere le dita sulle spalle e la schiena in lunghe carezze silenziose, tiepide, che volevano essere abbracci quando un abbraccio era troppo opprimente. 
Ripensò ai sacchi neri in cui tornavano i suoi uomini, persone che aveva conosciuto, il sangue, i corpi rigidi, le facce sfocate. Q nell’ultimo anno aveva sulla propria coscienza il maggior numero di quelle morti. 
La morte cosa valeva? Finché non era un amico — finché non era Akutagawa, che considerava come un fratello minore, finché non era Dazai — la morte era una corrente priva di freni che gli passava accanto senza che se ne accorgesse. 
Sentendo il respiro regolare dell'ex partner e il peso del suo sguardo fisso su un punto oltre la sua spalla, Chuuya si ripromise di evitare accuratamente di immergersi nel fango dei pensieri di Dazai sapendo che non vi avrebbe trovato nulla se non tenebra. Non dormirono quella notte, uno sull’altro su un divano troppo corto per il metro e ottanta di Dazai, il peso umano che gravava su Chuuya che non era nulla in confronto a quello mentale — procurata, agognata, assistita, inevitabile — che li accomunava.
Le prime luci dell’alba illuminavano la baia di Yokohama in lontananza, oltre i tetti e i grattaceli più bassi, quando Chuuya, accumulando una dose non indifferente di coraggio, socchiuse le labbra.
“É stato uno dei nostri?”
“No.” aveva la voce arrochita dal silenzio, e l’exectuive ricordò i giorni in cui Dazai, nonostante non alzasse mai la voce nel dare ordini, tornava a casa con un tono roco e rovinato.
“Dostoevsky?”
“Sei ficcanaso, petit mafia.”
Chuuya sbuffò.
“Rispondi,” ordinò
“No. Un caso per la polizia, niente abilità.”
“Ah; mi dispiace.”
Dazai gli scoccò un’occhiata — lunga, e silenziosa ed intellegibile. Alla fine, annuì, tornando a posare la testa sul suo petto.
“Sì,” mormorò, “dispiace anche a me.”

 

- - -

 

From: Mackerel
Chuuuuya~
Chibikko~
Mi annoio! (=ↀωↀ=)

To: Mackerel
Dovresti lavorare, non avere il tempo di annoiarti.

From: Mackerel

Ah! Mi hai risposto subito! ~(꒪꒳꒪)~
Chibikko stava aspettando il mio messaggio? 


Chuuya non era arrossito. Era sicuro di non avere la minima traccia di imbarazzo sul volto mentre girava il telefono con lo schermo rivolto verso il tavolo senza degnarsi di rispondere, tornando a concentrarsi sulle informazioni da distribuire ai propri sottoposti per una missione.
“Va’ al diavolo.” brontolò, fra sé e sè.
Avrebbe voluto dire di esserci abituato, ma una parte di lui era sicura che non si sarebbe mai abituato alla fastidiosa sensazione di avere Dazai accanto, più abrasivo che mai nonostante fosse decisamente più amichevole e — un bel respiro, Chuuya, puoi dirlo, ce la puoi fare — affettuoso rispetto agli anni precedenti.
Poteva abituarsi.
Poteva smettere di sobbalzare, di nascondere un mezzo sorriso ogni volta che rispondeva ad un ID sconosciuto e la voce di Dazai lo avvolgeva, gentile e morbida e bassa dall’altra parte della connessione. 
Ma c’erano cose a cui non avrebbe mai fatto l’abitudine.

“Chuu~ya?”
Ad esempio, non c’era nessuno che pronunciasse il suo nome come Dazai. Nessuno che stiracchiasse le u come se ci si potesse rotolare, arrotondando persino le consonanti più secche. Sulle sue labbra, il nome di Chuuya diventava una presa in giro e la cosa più bella del mondo allo stesso tempo.
Da persona che amava i contrasti, di quello non si poteva lamentare.
Di tutto il resto, invece...
“Chuuya!” Sí lamentò Dazai, di nuovo, il naso all’insù.
Chuuya soppresse l’istinto di lanciargli addosso il cacciavite che fluttuava accanto a lui. 
“Sei appena arrivato e già fai casino, mackerel?”
"Mi piaceva il lampadario vecchio!" brontolò, incrociando le braccia. Chuuya alzò gli occhi al cielo, pregando Arahabaki di dargli, per una volta, pazienza invece di un incontrollato istinto omicidia.
"Allora ci potevi pensare prima di distruggere metà del salotto."
“Chibikko ha fatto tutto da solo," lo corresse, con un sorriso affilato; l'executive strinse la presa sulla ceramica, evitando di puntualizzare che Dazai l'aveva infastidito così tanto che l'intero salotto necessitava di mobili nuovi, "Comunque! Se Chuuya non scende dal soffitto come posso dargli il mio regalo per il suo compleanno~?”
Il cuore di Chuuya non aveva appena mancato un battito. No, no, assolutamente no.
E non era per nascondere imbarazzo che la voce si era alzata. No.
“Il mio compleanno è tra due mesi, imbecille!”
“Ma chibi merita di essere viziato, e fortunatamente ho trovato il giusto regalo per lui...”
“E quale sarebbe?”
“Se la smetti di ignorarmi te lo dico~”
Oh, no.
Per un secondo, Chuuya sentì la presa su Per il Dolore Corrotto esitare, rischiando di far cadere tutti gli oggetti— se stesso compreso — che levitavano sul soffitto.
“Non vedi che sono impegnato?”
Il volto di Dazai si contorse in una smorfia.
“Non puoi prendere una sedia come tutte le persone normali?” giurò che la lampadina che aveva appena finito di cambiare fosse caduta ai piedi dell'altro per caso, ma forse non era vero. “Oh! Forse non ci arrivi neanche con la sedia, neh, hatrack?”
Chuuya ingoiò un sospiro sibilante, incapace di mettere freno alla vena che aveva iniziato a pulsare sulla tempia.
Cinque minuti; Dazai era nel suo raggio d’azione da cinque minuti e già l’executive sentiva montare un gran mal di testa. 
“Ahhh, almeno Chuuya potrebbe installare delle travi, se si sente in vena di lavori in casa!” Si lamentò Dazai, lasciandosi cadere drammaticamente sul divano. Scoccandogli un'occhiata dall'alto, Chuuya sollevò un sopracciglio. 
“Per cosa, per trovarti impiccato il giorno dopo?”
Gli occhi scuri dell'uomo si illuminarono, accompagnati da un verso deliziato che non poteva, non sarebbe dovuto, provenire da un uomo adulto.
“Ah~ Chuuya mi conosce così bene!” 
“Va’ al diavolo, mackerel! Ti proibisco di ucciderti in questa casa, non voglio dover convivere con il tuo fantasma per il resto della vita.”
“Chissà se farei amicizia con i fantasmi che già ci sono~” Mormorò Dazai, con fare allusivo.
Ma non fu quello, nè il sorriso sornione che gli si era dipinto sulle labbra, a far tremare le mani di Chuuya abbastanza da fargli quasi perdere la presa sulla lampadina, facendo ondeggiare pericolosamente il lampadario.
Maledizione a quello spreco di bende. 
“Dacci un taglio o ti uccido,” sibilò, lanciandogli addosso il cacciavite. Dazai lo schivò semplicemente rotolando su un lato e schiacciandosi contro lo schienale del divano come l’idiota che era, con un gridolino di gioia e scherno.
Ovviamente era colpa di Dazai se Chuuya aveva paura dei fantasmi.
Ovviamente, la prima ed ultima volta che Chuuya si era lasciato trascinare nel covo degli amichetti della mummia pur di non restare solo nell’oscurità della propria camera, l'idiota era anche stato molto contento di spiegare al suo adorato OdaSaku e al quattrocchi come e perché Chuuya fosse stato sul punto di abbandonare una missione che comprendeva un criminale la cui abilità era creare fantasmi, al prezzo di diventarne uno lui stesso.
'È l’unica volta che Chuuya, solitamente lento come una lumaca, ha proposto di usare Corruzione prima ancora di provare il piano!’ Aveva trillato Dazai, trasformatosi da falco in maledetto fringuello in presenza di Oda e ingurgitando una generosa sorsata di sakè. 
Chuuya era affondato nel proprio bicchiere di vino senza dire nulla e rifiutandosi di specificare che avrebbe felicemente raso al suolo l’intera città pur di neutralizzare quella abilità prima che potesse anche solo entrare nel suo raggio visivo e traumatizzarlo per sempre. Aveva percepito la vaga pietà di Oda, quella sera: la sua pacatezza accompagnata da una nota indulgente di divertimento, ma il ragazzo non riusciva a scrollarsi di dosso un senso di nausea che gli aveva afferrato lo stomaco non appena si era seduto al bancone di Lupin.
In quel momento, avrebbe voluto scappare.
Oda lo faceva sentire vulnerabile, la sua presenza insinuava dubbi su cosa avrebbe potuto essere se qualcuno l’avesse trovato quando navigava nel vuoto di Arahabaki e lo avesse trattato come un bambino, come un essere umano.

"Ha sedici anni, Dazai. Hai sedici anni; possibile che ti sembri così strano avere paura dei fantasmi?"
Dazai aveva riso.
Chuuya sospettava che non si fosse mai reso conto delle infinite volte in cui Oda aveva cercato di salvarlo, prima della sua morte.

 

 

- - -

 

Innamorarsi è sempre una scelta sbagliata.
Uno dovrebbe non farlo mai, e se proprio deve, innamorarsi dopo i trent’anni, quando sei consapevole
.  Non trovi, Atsusku-kun?”[1]

Dazai aveva parlato fra sè e sè, appoggiato alla balaustra che lo separava dal mare; Atsushi lo fissò con occhi sgranati. Nel profilo del mentore v’era una bellezza che prometteva distruzione ed un presagio di sventura rimaneva annidato nel modo in cui lo sguardo dell’uomo era perso all’orizzonte. La luce violetta del tramonto gli illuminava il viso, mentre il vento gli scompigliava ciocche di capelli scuri, ma aveva l'impressione che Dazai non notasse nulla di tutto ciò che accadeva fuori dalla sua mente. 
Era un’immagine di decadimento, di preparazione, eppure Atsushi non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva sentito.
Non era certo di poter replicare.
“Non ho idea di cosa rispondere,” decise, infine, “non ho mai avuto occasione di pensarci.”
Dazai gli scoccò un sorriso che gli ammorbidiva il viso, i tratti solitamente affilati resi gentili.
“No, ovviamente no.” 
“Non credo che però provare dei sentimenti sia una scelta consapevole.”
“Non credi? Beh, forse dovremmo sforzarci di renderla tale.”
“Se fosse così facile, potremmo smettere di soffrire desiderandolo e provare sensazioni a comando; ci potremmo liberare dei fantasmi in maniera semplice. Troppo semplice.”
“Forse,” ammise l'uomo, inclinando il capo, “forse è una maledizione che ci viene imposta. Te l’ho già chiesto una volta, ma ti trovi bene a lavorare con Akutagawa?”
Atsushi aggrottò la fronte.
‘Neanche un po’, è un incubo, semmai il contrario,’ era la prima cosa che aveva voluto dire.Assolutamente no. Akutagawa era una forza dirompente e disobbediente, lo trascinava nei propri piani senza degnarsi di assicurarsi che Atsushi fosse d’accordo e respingeva qualsiasi segno d’amicizia dietro un muro di minacce e odio. 
No, non si trovava bene a lavorare con lui. 
Per niente.
“Sta migliorando,” rispose, però, con un istante d’esitazione. Dazai doveva aver colto i suoi pensieri perché il suo sorriso si illuminò, una scintilla di divertimento a schiarire gli occhi castani.
“Non molto, vero?”
“No, è sempre orribile,” replicò Atsushi, con un sospiro.
Tuttavia, non aveva intenzione di lasciar perdere e smettere di tentare di far funzionare le cose: Akutagawa non era un pessimo partner di per sè, ma c’erano momenti che rendevano orribile la collaborazione. Solitamente, quei momenti bui seguivano gli istanti in cui Atsushi si era illuso che avessero fatto dei passi avanti, che potessero lavorare insieme.
“Vedo, vedo. Beh, Atsushi-kun, ti chiedo di portare pazienza ancora per un po’,” Dazai gli lanciò un’occhiata allegra. Atsushi si chiese cosa nascondesse. “Sono certo che arriverà il momento in cui andrete d'accordo."
A dispetto del fastidio che provava nei confronti di Akutagawa, Atsushi sentì una scarica di calore attraversargli il corpo e le guance farsi bollenti.
Perché gli tornava in mente Rashomon ora, e il momento in cui l’aveva indossato?
Akutagawa teneva a quell'abilità come se non avesse altra ragione per vivere, come se non possedesse altro al mondo. Indossare il cappotto di Akutagawa e prendere possesso di Rashomon sembrato un gesto dettato dalla necessità, ma Atsushi si stupì di non averlo mai considerato prima come qualcosa di più intimo, un’ammissione di fiducia incredibile e totale, un passo dal quale non si tornava indietro.
“Credo che ci si possa lavorare,” replicò, appoggiando la schiena al ferro della balaustra, “Per la città e per il suo equilibrio. E credo che Akutagawa lo debba a sè stesso.”
“Hm?”
“Dovrebbe perdonarsi.”

Ipocrita, Atsushi.
Proprio tu parli?

Ma Dazai aveva volto lo sguardo al mare, senza rispondere per quelli che parvero anni.
“Perdonarsi, eh? É interessante; quasi impossibile, ma interessante.” 
Atsushi scosse la testa. Akutagawa era competitivo e disperato, ma non era ancora troppo tardi. Non importava quante persone avesse ucciso, come Kyouka-chan, nè quanto il suo animo fosse torbido, come Dazai-san. No, Atsushi sperava di essere ancora in tempo per fargli capire quando fosse forte, quanto non dovesse nulla a nessuno, per quanto fosse frustrante dover lavorare con il suo orribile carattere e la sua tendenza alla sociopatia.
Mentre si sforzava di voler vivere senza scusarsi, Atsushi aveva promesso a sè stesso di condividere i propri progressi con lui.
“Non credo sia impossibile, non ancora. C’è qualcosa di buono in Akutagawa e vorrei che lo vedesse anche lui.”
“Una persona mi ha detto una cosa simile, una volta.”
“È...

“Un amico,” il sorriso che gli increspava le labbra era leggero, velato di malinconia. Ad Atsushi ricordò un altro tramonto, su una nave.
Anche quel giorno parlavano della sua rivalità con Akutagawa e Dazai aveva quella stessa espressione e teneva fra le dita un bicchiere di champagne che brillava sotto i raggi del sole ed una vecchia scatola di fiammiferi. 
Quando aveva chiesto a Dazai se stesse bene, non aveva ricevuto risposta: era come se l’uomo fosse scarico, troppo immerso nei propri pensieri per rispondere con il solito tono scanzonato.
Atsushi rimase accanto a lui, in silenzio, finché il sole non sparí definitivamente oltre il mare ed il cielo si tinse di un blu inchiostro e Dazai dichiarò che aveva fame — e la carta di credito di Kunikida.

 

- - -

 

“Oi, Dazai. La tua abilità— 
La voce di Chuuya si spense prima di poter finire la frase, soffocata dai pensieri.
Pigramente, prese la mano dell’altro fra le proprie, bende ben strette che contrastavano con la pelle pallida. Il petto premuto contro la sua schiena smise di alzarsi ed abbassarsi per un istante prima di riprendere ritmicamente, il cuore che sfarfallava impazzito sotto le costole.
Sentiva lo sguardo perplesso di Dazai su di sè, che attendeva e calcolava; quando non insisteva stava avvenendo una conversazione parallela nella sua testa. A volte, preso da un brivido gelido, Chuuya realizzava che vivere con Dazai era simile a vivere con Dostoevsky. 
L'executive sospirò, affondando il volto nel cuscino. 
“Stavo pensando, che semmai dovessi volermi uccidere davvero, tu e la tua amata Agenzia, ti basterebbe spingere Mori-san al punto critico e incrociare le braccia, guardare la mia stessa abilità divorarmi."
“Chuuya non ha niente di meglio a cui pensare nel suo tempo libero?”
“É colpa di Arahabaki.”
Dazai non rispose.
Chuuya lo interpretò come un invito a spiegarsi meglio e si aggiustò nella presa dell’altro, il braccio di Dazai che gli stringeva pigramente i fianchi; nei giorni della mafia le sue membra non avevano mai posseduto quella morbidezza, quella disponibilità a rilassarsi e a lasciarsi sfiorare senza ritrarsi istintivamente.
“É una voce nella testa, costantemente, e le cose orribili che dice... Fanculo, sono troppo persino per me. Sarebbero troppo persino per qualcuno come Mori.”
Dazai gli sfiorò i capelli con le labbra.
“Pensavo che l’addestramento di Kouyou—

“Non lo zittisce del tutto, è pur sempre una parte di me. Sono io a pensare quelle cose, Dazai, e quando siamo così non lo sento più e magari mi rende un po' più umano per quanto, dieci minuti? Ore?" esitò; stava divagando, ma abituarsi alle dita di Dazai sulla sua pelle significava anche iniziare a distinguere l'incendio che Lo Squalificato spegneva, lasciando solo il fantasma di Arahabaki, "Poi torna, torna sempre, come il fottuto mostro che è.
“Arahabaki non definisce la tua umanità. Chuuya è Chuuya.” 
Mordendosi le labbra, il ragazzo si trattenne dal ricordargli che Nakahara Chuuya, data di nascita assegnata d’ufficio, non esisteva nemmeno per la stragrande maggioranza della sua infanzia. Era un topo da laboratorio. Una cavia non dissimile da Dostoevsky, con un vecchio cappello come unico ricordo della mano che l’aveva liberato.
“Hm.”
“Te l’ho già detto. Se ti fidi di me, arriverò sempre a salvarti.”
Chuuya rabbrividì.

E dov’eri, Dazai, dov’eri in questi anni? Dov’eri quando non mi hai portato al punto di raccolta per divertimento, dov’eri quando mi sono buttato contro un fottuto drago pur di rivederti?

“Cazzate,” replicò, la voce secca. Non gli sfuggì il modo in cui Dazai lasciò andare la presa, per un secondo.
“Non mento in questo genere di contrattazioni, Chuuya, lo sai. Anche se dovessimo arrivare a quel punto, ti finirò personalmente.”
Nonostante i mille motivi razionali per ridergli in faccia, Chuuya si voltò ugualmente. Lanciando un’occhiata oltre la propria spalla, soppesò fra sè e sè i danni futuri che avrebbe potuto procurargli credere a Dazai in quel momento.
Fece appena in tempo a notare un’espressione seria sul volto dell’altro prima di sentirne le labbra sulle proprie.
“Sará un piacere mettere fine alla tua esistenza, chibikko.”
“Provaci, kuso Dazai, e vediamo chi muore per primo.”

 

Cosí era iniziato ufficialmente l’inferno di Nakahara Chuuya, vessillo di un Dio del caos, coinquilino di una mummia, partner e qualcos’altro non ufficiale di un idiota.
Cosí era iniziato, e non avrebbe potuto percorrere nessun’altra strada.

 

To: Slug

Chuuya!
ChuuChuu! Slug!
Ehy.
Ehi.
Hat rack.
Petit Mafia.
Chuuya!!!!!!


From: Slug
COSA.

To: Slug
Guarda, ho trovato kaomoji Q ┌(☆o★)┘


From: Slug

Quanto cazzo ti odio.

 

 

Ripensandoci, a volte si pentiva immensamente delle proprie scelte.



 

[1] Ispirato da Il Sole si Spegne; Dazai Osamu, 1947.
   
 
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