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Autore: _Sunspear_    29/07/2019    3 recensioni
||Storia interattiva|| ||Nuove iscrizioni aperte capitolo 5||
Dopotutto, lei era diventata fredda e malinconica come l’inverno, ma non sapeva che da qualche altra parte, qualcun altro, la pensava alla stessa maniera. Solo che quel qualcuno aveva molto più potere e sangue freddo della ragazza spezzata.
Genere: Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Iustitia

 

 

 

“Non sono mai stata brava in niente.”

La stanza era semplice ed accogliente, non un oggetto fuori posto né un singolo granello di polvere. Le tende erano marroni, perfettamente tirate. Enormi scaffali pieni di libri circondavano il comodo divanetto su cui era stesa Mallory, la testa poggiata sul morbido bracciolo. Era stesa a pancia in su, gli occhi fissi sul soffitto bianco, una semplice lampada emetteva un lieve bagliore luminoso.

“Quando lo dissi alla mia mamma, lei rispose che era una sciocchezza, che tutti avevano un talento. Ma era una bugia. Mamma ne raccontava tante, di bugie…”

Sua mamma era una donna stupenda, dai lunghi capelli scuri e gli occhi neri come la pece. Sempre dolce, sempre gentile, mai un dettaglio trascurato o fuori posto. Si chiamava Diane, ma questo Mallory l’aveva scoperto solo in seguito. Per lei, era sempre e solo stata semplicemente Mamma.

“Mi dica di più di sua madre,” fece una voce nasale, maschile. Mal udì il graffiante suono della penna sul taccuino. Chissà cosa stava scrivendo.

“Sosteneva fossi portata per la letteratura, ma questa era solo un’altra menzogna. Non sono brava a trovare le parole giuste. Non mi va di parlarne.”

“Capisco,” fece la voce, “e in quanto a suo padre?”

Mallory continuò a tenere lo sguardo fisso sul pallido soffitto. Sentiva il bisogno di girarsi e osservare il suo interlocutore, ma qualcosa la faceva desistere.

“Il mio papà era grande e forte; un guerriero. Aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi. O forse rossi? Non ricordo.”

“E ora dov’è?”

“È morto.” Rispose piano la ragazza. Si aspettava di piangere, ma non lo fece.

“E la tua mamma?”, le venne nuovamente chiesto.

“Morta anche lei.”

Questa volta Mallory batté velocemente le palpebre, punta sul vivo. Cercò di scacciare il pensiero dei suoi ormai defunti genitori, ma non ci riuscì. I loro volti, seppur sbiaditi, non facevano che balenarle nella mente, restii a lasciarla andare.

“Di chi è la colpa, Mallory? Chi li ha uccisi?”

Ispirò pesantemente dal naso, le palpebre ebbero un fremito. Sentì la gola chiudersi, le guance arrossarsi dalla rabbia. “Gli dei.” Rispose senza alcuna esitazione.

L’altro dovette ritenersi soddisfatto, poiché smise di tediarla con quelle domande così difficili e le chiese di parlargli un po’ di se stessa.

Ci furono alcuni istanti di silenzio. Silenzio che Mal non riuscì a tollerare. Cominciò a parlare a vanvera di qualsiasi cosa: la sua vita a Nuova Roma, il suo piatto preferito, la sua paura del buio. Stava parlando della sua passione per le ciambelle quando un suono, simile ad un basso nitrito, la interruppe. Voltò la testa di scatto, gli occhi spalancati. Al suo fianco, seduto su di una comoda poltrona, c’era il corpo di un normalissimo uomo in completo elegante e cravatta. Alzando lo sguardo però, Mal non vide alcun tipo di faccia; bensì un muso lungo e scuro, due occhi completamente neri e distanti tra loro, orecchie alte ed appuntite, pelo grigio ed una lunga criniera scura.

Il suo psicologo era un asino.

Letteralmente.

Mal si mise lentamente a sedere, le ginocchia unite e le mani abbandonate sul grembo. “Sei un asino,” costatò, tutta la voglia di parlare svanita.

“E tu sei una noia,” ribatté l’equino, appuntando anche questo sulla sua agenda.

Mallory stava per ribattere, ma decise di rimanere in silenzio per qualche momento, misurando per bene le parole. Ne aveva fatti di sogni strani, ma quello… quello li superava di gran lunga tutti. “Cosa significa tutto questo, Fobetore?”

Con suo grande orrore, il viso del cavallo mutò, trasformandosi questa volta in quello di un gorilla, il corpo sempre umano. Mal rabbrividì, indietreggiando con un colpo di anche e trascinandosi dietro tutto il divanetto.

Anche la sua voce era cambiata, questa volta profonda e vagamente gutturale. Le faceva ribrezzo, ma era sempre meglio della faccia d’asino. “Devo tenere viva la fiamma, dolcezza. Sia mai che decida di abbandonare la causa della Signora.”

“Credevo di essere stata chiara,” sbuffò Mal, “cerco giustizia per i miei genitori e per tutti i semidei innocenti.”

Il volto di Fobetore mutò nuovamente, tramutandosi in quello di un’anziana megera, la voce ora gracchiante e fastidiosa. “E con questo? Credi che dopo tutto ciò che ha passato si fiderà della tua sola parola? La nostra Signora ha bisogno di fatti.”

“Sono la sua più devota servitrice.” Almeno fino a quando terrà fede alla sua promessa, aggiunse mentalmente.

La vecchia emise un rantolo disgustoso, come se volesse tossire muco, poi il viso cambiò nuovamente. Questa volta, il viso di un giovane uomo dai capelli biondo-fragola prese il suo posto. Anche gli abiti mutarono, facendo posto ad una maglia arancione a mezze maniche con la scritta CAMPO MEZZOSANGUE  e un paio di jeans scuri. Mal serrò le labbra, cercando di trattenere le lacrime.

Quello non è Papà. Papà è stato ucciso, ucciso dagli dei!

“Non c’è bisogno che tu mi ricordi costantemente  il motivo per cui combatto.” Mormorò, pizzicandosi forte il braccio, “fammi svegliare.”

“La mia piccola Mal,” disse piano l’uomo, avvicinandosi di qualche passo a lei, “sono così orgoglioso di te.”

“Fammi svegliare! Fobetore, ti prego…” urlò disperata, conscia di quello che stava per accadere. Cercò di alzarsi, di girarsi, di coprirsi gli occhi con le mani, ma una forza invisibile la teneva ancorata al divano, impossibilitata.

“Io e tua madre ti vogliamo così tanto bene.” Le sorrise suo padre, arrivandole a pochi centimetri di distanza.

Lacrime e muco le bagnavano la faccia, gli occhi gonfi che proprio non ne volevano sapere di chiudersi. Le bruciavano, così come le bruciavano il petto, il naso, la testa, la gola.

Mia Signora!”, implorò, “ti prego! Papà!”

Proprio quando suo padre, il suo adorato papà, stava per sfiorarle il viso con la punta delle dita pallide, un ombra scura lo spinse sul duro pavimento. Mal urlò mentre il mastino infernale gli apriva le viscere e gli sbranava le interiora. L’uomo urlava, si dimenava, implorava la sua divina genitrice affinché lo salvasse, ma niente. L’impeccabile stanza era ormai ricoperta di sangue. Il sangue di suo padre.

“Ricorda per cosa combatti,” mormorò l’uomo, il volto straziato dal dolore, mentre esalava il suo ultimo respiro.

Finalmente, Mal poté chiudere gli occhi.

 

 

Stava ancora piangendo quando si risvegliò, avvolta nel suo soffice e caldo piumone.

Quella notte, Fobetore aveva davvero esagerato. Molte volte il dio degli incubi le aveva mostrato scene simili, ma quella notte non le aveva permesso di distogliere lo sguardo, di poter accovacciarsi in un angolo ed aspettare che quell’orrore finisse. Alle volte il dio era gentile, concedendole di passare del tempo con la sua famiglia durante un picnic, al parco giochi. La notte prima aveva passato dei piacevoli momenti insieme alla madre, che le aveva raccontato alcune favole dal libro verde che le leggeva sempre da bambina; a volte doveva fermarsi, perché la dislessia non le permetteva di leggere in maniera fluida, ma la sua mamma si era sforzata, stringendo gli occhi neri e talvolta, Mal lo sapeva, inventando il continuo del racconto pur di non far perdere il filo alla sua bambina.

Se c’era una cosa che accumunava ogni sogno, quella era il finale; bello o brutto che fosse, i suoi genitori si congedavano sempre con la frase “Ricorda per cosa combatti.”

Una volta Mal ne aveva parlato con Lizzie, l’unica che potesse considerare una vera amica in quel posto, e la figlia di Venere le aveva risposto che anche lei sognava cose simili. Sosteneva si trattasse di un modo della Signora per sincerarsi dell’effettiva lealtà dei suoi guerrieri. Un sistema crudele ma efficace. Ogni mattina, Mallory si alzava dal letto con rinnovata voglia di far fuori ogni divinità, greca o romana che fosse.

Tutti egoisti, si ripeteva, tutti falsi.

Si mise a sedere, guardandosi intorno. Era ancora buio.

La sua Signora non era così. Lei aveva sofferto, ma aveva avuto la forza e la possibilità di reagire. Mal la ammirava per questo. Se solo avesse potuto far aprire gli occhi a tutti… insieme avrebbero creato un mondo migliore, un posto sicuro. Era questo quello che i suoi genitori avrebbero voluto, ne era sicura.

Dopo qualche minuto, le lacrime si erano completamente dissipate, lasciandole solo una profonda sensazione di vuoto. Si alzò in piedi e si posizionò davanti al grande specchio; la sua era una camera piccola ma accogliente, sulle tonalità del blu e dell’indaco. A Mal piaceva, la sentiva come una cosa sua. In quel breve periodo in cui aveva vissuto al Campo Mezzosangue, non aveva mai provato quel senso di appartenenza che da alcuni mesi a quella parte provava per il covo di Anìa. Erano tutti così ingiusti! Perché la sua Signora doveva nascondersi? Cosa aveva fatto di male?

Si riavviò i corti ricci scuri, tagliati a caschetto. Faceva troppo freddo quella mattina, non aveva alcuna voglia di lavarseli, perciò se li sistemo in una corta coda alta. Avvicinò il viso allo specchio, notando con rammarico un brufolo spuntarle proprio al centro della larga fronte. Pensò a Lizzie, alla sua pelle perfetta, e a tutti gli altri numerosi figli di Venere – o Afrodite – che avevano scelto di abbracciare la causa di Anìa: loro erano sempre bellissimi, perfetti, impeccabili. Quanto li invidiava.

Si lavò velocemente, si vestì e rifece il letto.

Quando si sentì pronta, uscì dalla camera.

Si trovavano in North Dakota, un posto freddo d’Inverno e solitamente caldo ed accogliente durante la stagione estiva. Da quel che aveva capito, si trovavano nei pressi della città di Fargo, ma Mallory non ne era completamente sicura. Non aveva un gran senso dell’orientamento e di geografia capiva ben poco. Sapeva per certo che faceva un gran freddo. Anìa e i primi mezzosangue entrati al suo servizio avevano provveduto alla ricerca di una base perfetta: si trattava di un hotel aperto da poco, circa sei anni, situato non troppo al centro ma nemmeno troppo in periferia. Si trattava del Best Western Inn&Suits: un posticino accogliente, moderno e alla mano. A Mal piaceva. Mesi prima uno dei figli di Venere aveva convinto i proprietari a lasciar loro il posto, poi Mal, grazie alla sua discendenza da Ecate, aveva tirato su uno spesso e fitto strato di Foschia. A meno che lei non fosse morta, quel posto era introvabile.

Percorse i lunghi corridoi, passando per la Hall.

“Ehi, Cespuglio!”, disse una voce che, suo malgrado, riconobbe appartenere a Simon Gregory, il grasso e fastidioso figlio di Eos.

Mal non si girò, continuando la sua ricerca di qualche viso noto e amichevole. Non sapeva quante persone fossero entrate al servizio della sua Signora: durante l’ultimo giro di ispezione, ne aveva contati meno di un centinaio. Erano per lo più adolescenti, di cui la maggior parte sembrava non avere alcuna motivazione valida per trovarsi lì.

“Già sveglia a quest’ora? Sei sicura che interrompere il tuo sonnellino di bellezza sia una buona idea? Guarda che ne hai davvero bisogno. È un brufolo quello?”

“Gira al largo, Panzone,” sputò Mallory, acida.

Simon non le diede retta, e continuò a seguirla. “Come mi hai chiamato?!”

“Panzone. È quello che sei, in fondo. Oggi non ho voglia di star dietro alle tue stronzate, Gregory, perciò faresti meglio a lasciarmi in pace.”

Il ragazzo le afferrò la mano. All’iniziò Mal lo guardò sorpresa, ma poi Simon cominciò a stringere. E a stringere. E a stringere. Sentì le ossa delle dita scricchiolare ed emettere preoccupanti rumori, ma lei non emise un suono. Si limitò a fissarlo, cercando di controllare il dolore. Con l’altra mano, Simon le afferrò il bavero del maglione, spingendola contro il muro. Le stava schiacciando le clavicole, ma ancora, Mal non emise nemmeno un verso. Patetico, pensò, ora gliela faccio vedere io chi è il più forte.

“Simon! Cosa stai facendo?” esclamò una melodiosa voce che Mal riconobbe all’istante. Non sorrise quando Simon la lasciò andare; si limitò a sistemarsi il maglione e guardandolo con fermezza, si affianco alla proprietaria di quella voce: Lizzie.

La figlia di Venere aveva le piccole e delicate mani sui fianchi stretti, i grandi occhi castani socchiusi. Non era molto alta, ma in quel momento incuteva quasi un certo timore.  “Quando imparerai a lasciar in pace Mallory?” domandò. Non stava usando la lingua ammaliatrice, ma Simon abbassò ugualmente lo sguardo e mormorò qualcosa, pieno d’ira. Tutto fumo e niente arrosto, pensò Mallory, disgustata.

“Non la sopporto, okay?,” sbottò alla fine lui, “con quella sua mono-espressione e l’aria da padrona. Ma chi ti credi di essere?”

“La ragione per cui tu sei qui e non alla mercé degli dei,” rispose pacatamente Mallory, “se non fosse per me, a quest’ora la barriera sarebbe già caduta.”

“Ovviamente,” disse Simon, tornando dietro al bancone della reception, sorridendo amabilmente, “d’altronde… i tuoi poteri sono più forti di una normale discendente di Ecate… sbaglio?”

Mallory strinse i denti. Prima che potesse fare nulla, però, Lizzie la afferrò gentilmente per il polso e la trascinò via. Simon fece per urlare qualcosa, ma Lizzie fu previdente: “Silenzio!,” ordinò. Simon si zittì all’istante, o almeno così Mal credeva. La Lingua Ammaliatrice della ragazza era potente, perciò anche Mal fu costretta a rimanere in silenzio per un po’. Non che la cosa le desse particolarmente fastidio.

Quando finalmente arrivarono all’ascensore, Lizzie si concesse di rivolgerle uno sguardo preoccupato.

“Grazie,” sussurrò piano Mallory una volta ripreso l’uso della parola, “sei stata molto gentile, ma posso gestirlo.”

Lizzie alzò un sopracciglio curato. Si passò velocemente una mano sui capelli color cioccolato, poi sospirò. “Hai ragione. Il fatto è che proprio non sopporto tutti questi bulli! Si sono uniti alla causa della Signora con la mentalità sbagliata.” Premette il dito contro il pulsante dell’ascensore, che si illuminò. “Sono venuta a cercarti, comunque. Dobbiamo controllare le reclute.”

Mal alzò un sopracciglio. “I prigionieri, vorrai dire.”

“Cerco sempre di non pensare a loro in questo modo,” ammise quasi timidamente.

“Sei troppo buona. Non capisco perché sei qui, francamente. Non l’ho mai capito. Adrian deve mancarti terribilmente.”

Lizzie non rispose, chiaramente dispiaciuta al solo pensiero. Mal si sentì leggermente in colpa, ma, come al solito, non lo diede a vedere.

Adrian era il ragazzo di Anne Elizabeth. Lei ne parlava sempre con occhi scintillanti ed immensa devozione. Un po’ la invidiava: doveva essere bello avere qualcuno innamorato a tal punto da accettare ogni tua decisione, aspettandosi e pregando per la tua sicurezza.

Le porte dell’ascensore si aprirono. Le due ragazze entrarono in silenzio, Lizzie a testa bassa.

Scusa, scusa, scusa! Non volevo portarti alla mente ricordi dolorosi! Liz…

Ma le parole non uscirono. Non potevano uscire. Non poteva mostrare debolezza, nemmeno con lei.

L’ascensore cominciò a scendere di uno, due, tre piani. Fu solo allora che Liz parlò, cambiando completamente argomento:  “Spero che Lorina si sia comportata bene con le reclute. O almeno, meglio di Henry…”

“Se vuoi sapere come la penso, quel Henry ha qualche rotella fuori posto. Questa missione è solo una scusa per lui per fare quello che gli pare.”

L’immagine di un ragazzo stupendo, gli occhi azzurri che risaltavano sul viso rosso sporco di sangue le balenò velocemente davanti agli occhi. Non erano molte le persone che Mallory davvero temeva, ma quel ragazzo… la ragazza cercava sempre di essere particolarmente scostante con lui nei paraggi. Era convinta che nemmeno la Lingua Ammaliatrice di Lizzie sarebbe stata in grado di placare la su furia.

Quando finalmente l’ascensore di servizio arrivò ai sotterranei, le due ragazze vennero accolte da un forte odore acre e particolarmente spiacevole, come di plastica bruciata. Lizzie si portò immediatamente indice e pollice alle narici, chiudendole. Quando parlò, lo fece con voce nasale. “Che sta succedendo qui?”

Mal la imitò e di guardò attorno. C’erano voluti poco più di dieci giorni per creare quella sorta di sotterranei. Grazie ad una figlia di Plutone e un paio di ragazzi di Efesto, non era stato difficile scavare quella specie di mega tunnel sotterraneo e piazzarci dento gli alloggi delle reclute. Non erano proprio celle, quanto più stanze con una piccola finestrella sulla porta, per poter far passare viveri e altre necessità. Le porte erano di spesso metallo rinforzato, rosse con le rifiniture viola. Fortunatamente, Mal non aveva avuto occasione di dare un’occhiata all’interno delle stanze. Solo i Guardiani potevano. Lizzie era una di loro.

Lizzie non le aveva mai parlato apertamente del suo compito, non ne aveva il permesso, ma Mallory non era stupida: la maggior parte dei Guardiani  erano figli di Afrodite – o Venere – o persone che sapevano essere molto… convincenti, come Lorina o Henry. Ogni settimana, un nuovo soldato veniva fuori dalle porte di quell’ascensore argentato, pronto e determinato a servire la causa della Signora. Quando il suo turno finiva, Lizzie non sembrava essere particolarmente orgogliosa di se stessa.

“Lorina!” chiamò Lizzie, sempre tenendo le narici ben serrate. L’odore di plastica bruciata era insopportabile.

Dopo qualche istante, una ragazza dal caschetto scuro e asimmetrico uscì da una cella, sbattendosi la pesante porta di metallo alle spalle. Un leggero ghigno le increspava le labbra sottili. “Oh, alla buon’ora!”, fece, avvicinandosi a Lizzie e ignorando Mal.

“Cos’è questa puzza?” domandò la figlia di Venere.

“Uh, non preoccuparti, mia cara, Henry si è preso la briga di risolvere la situazione,” fece un gesto estremamente plateale, alzando le braccia come a voler dire che vuoi che sia?, “vedi, una fastidiosa biondina ha provato a fondere la maniglia della cella. Non chiedermi come, non ci sono più le bionde di una volta.”

Si diresse verso l’ascensore.

“Henry è con lei?,” chiese Lizzie con una punta di preoccupazione.

“Credimi, mia cara, non oserà più fare una cosa del genere,” Lorina ghignò di nuovo, finalmente posando gli occhi grigi come il ferro su di lei, “e tu, piccolo incesto, che ci fai qui? Non dovresti star leccando i piedi alla Signora?”

Lorina…” mormorò Liz, facendo dardeggiare gli occhi scuri da lei a Mal. Quest’ultima però si limitò a guardare il viso compiaciuto della figlia di Eris. Non le avrebbe dato soddisfazione.

Lorina fece un verso di scherno, poi allargò nuovamente un braccio, facendo a Mal cennò di entrare in ascensore. “Il tuo posto non è qui. Con quella tua mono-espressione non riusciresti nemmeno a convincere un vecchio a saltare la fila per la pensione. È interessante però,” disse entrando in ascensore, Mallory subito dietro e lo sguardo preoccupato di Lizzie che spariva dietro le porte argentate, “un giorno dovrai insegnarmi; tante persone provano a metter su un’espressione apatica come la tua, ma alla fine sembrano solo pesci lessi! Deve essere uno dei tanti poteri conferiti dall’incesto…”

“Potresti smettere di parlarne?” fece Mallory infastidita, mentre l’ascensore saliva e abbandonava il sottosuolo.

“Ma è la verità, no? Vuoi negarlo?”

Mallory non rispose, limitandosi a fissare nel vuoto. No, non voleva negarlo. Non poteva. Per quanto orribile, per quanto inaccettabile… quel che si diceva in giro era la verità, nient’altro che la verità. Per quanto si sforzasse, per quanto continuasse a ripetere a se stessa che con il DNA divino non funziona così!, a livello sociale la situazione non sarebbe mai mutata.

Perché sua madre era figlia di Ecate.

Suo padre pure.

 

 

Lizzie entrò nella stanza numero 8, un largo sorriso forzato stampato sulle labbra. Le pareti erano grigie e rovinate, graffiate e sporche in più punti, il letto sfatto e il gabinetto, sistemato nell’angolo un po’ più appartato era forse l’unica cosa rimasta intatta nella stanza.

Nella stanza, oltre al letto, c’era un piccolo mobile con quattro cassetti per sistemare la biancheria e quei pochi vestiti appartenenti alla recluta, due sedie in legno scuro, una lampada e un contenitore di riviste. Con i fogli delle riviste, il ragazzo ci aveva fatto delle barchette di carta. Una delle quattro luci al neon sul soffitto era spaccata in due e lampeggiava in maniera sinistra.

Sospirò. “Ramiel… perché?” Si rese conto di suonare come una giovane madre esasperata, e cercò di ignorare la sensazione. Si mise a sedere su una delle sedie, osservando il ragazzo seduto a gambe incrociate sul letto.

Ramiel Harington era un tipo grande e grosso, muscoloso ma allo stesso tempo atletico e dalla postura perfettamente eretta. Aveva la pelle leggermente mulatta, gli occhi scuri ed il viso ormai da giovane uomo, con un lieve accenno di barba sulla mascella squadrata. Tutto sommato era un ragazzo attraente, ma al suo bell’aspetto compensava il suo pessimo carattere. Era forse per questo che la Signora aveva deciso di mandare lei a parlarci: con la violenza non avrebbero cavato un ragno dal buco, e nemmeno con la seduzione. Ci volevano razionalità e gentilezza, e a questo Lizzie sperava di poter provvedere.

Ramiel stiracchiò le lunghe gambe, rivolgendole un sorriso malizioso. “Oh, ma guarda. È tornata la terapista. Lasciatemi andare.”

Lizzie gli sorrise di nuovo. “Come stai oggi, Ramiel?”

“Bene, grazie. Starei ancora meglio se mi lasciaste andare.”

Lei si costrinse a mantenere il sorriso cortese. “E a me non chiedo come sto?”

“Non me ne frega un cazzo. Lasciatemi andare.”

Lizzie fece un paio di respiro profondi, riuscendo in tal modo a non vacillare. “Per favore, basta così; non accadrà.”

Era la sesta volta che andava a trovare quel semidio, e ogni volta lui diventava sempre più fastidioso e irriverente. Veniva dal Campo Mezzosangue, questo era certo: Anne Elizabeth non l’aveva mai visto prima d’allora tra le strade di Nuova Roma – e un tipo così lo avrebbe notato di certo –.

“Andiamo, dolcezza. Sono qui da quanto? Una? Due settimane? Tutto ciò che ho per svagarmi qui dentro sono queste merdose riviste. Se potessi uscire di qui, muovermi, fare a botte…”

“Questo non è possibile, Ramiel.” Lizzie accavallò le gambe, agitando il piede di quella superiore, leggermente irritata dalla situazione. Sei volte che entrava in quella stanza, sei volte che si ripeteva sempre la stessa, identica conversazione. Non sapere come andare avanti, come riuscire nel proprio intento… era frustrante.

Questo tizio è un guerriero più che valido, Richardson,” le aveva detto Lorina la prima volta, “portarlo dalla nostra parte è indispensabile.

“Perché?” aveva domandato Lizzie.

Lo capirai.”

“Non vedo perché no. Come non capisco perché mi abbiate portato qui contro la mia volontà. Perché io non ho potuto scegliere come tutti gli altri?”

Ramiel la fissò con i suoi grandi occhi color nocciola, le sopracciglia di una tonalità di castano più scuro rispetto a quello dei suoi capelli. Aveva ragione… le altre reclute venivano trattenute più per scrupolo che per altro. Ma per i semidei come lui era diverso. Anche queste era una domanda che già le aveva posto più e più volte. Oramai aveva la risposta pronta:

“Perché la Signora ha esplicitamente chiesto il tuo contributo. Lei non è irragionevole, perciò una volta svolto il tuo compito, sarai ampiamente ricompensato.”

“E quale sarebbe, di grazia, il mio compito?,” il suo tono era quasi canzonatorio, come se si fosse annoiato anche lui di quella conversazione così ripetitiva e la stesse invitando a darle un po’ di pepe.

“Sai perfettamente cosa vogliamo da te, Ramiel. Possiamo passare oltre? Come posso convincerti?”

Lui sembrò pensarci su un momento, poi scrollò le spalle e si mise in piedi. “A questo punto mi faccio una pisciata.”

Lizzie si alzò in piedi di scatto, le guance in fiamme. “Non abbiamo ancora finito!”

Il ragazzo si stava già sbottonando i jeans. “Non ti ho mica chiesto di uscire. Che ne so, girati e tappati le orecchie, se proprio sei così facilmente impressionabile.”

La semidea si voltò di spalle, il volto arrossato, ma non si tappò le orecchie. Quando sentì il liquido colpire la ceramica del gabinetto, strinse i pugni. “Volgare,” decretò.

Al di sopra del fastidioso rumore, Lizzie udì la voce profonda del ragazzo: “Sono già tenuto qui come un animale in gabbia, ora devo anche chiedere il permesso per fare una pisciata?”

“Sapevi che sarei venuto a quest’ora! Potevi farla prima.”

Sentì Ramiel riabbottonarsi i jeans, tirare lo scarico e aprire il rubinetto del lavandino di fianco al gabinetto. Chi l’avrebbe mai detto! Un rozzo come lui che si lava le mani!

“Può girarti,” le disse, “e no, non potevo saperlo.”

Quando si rigirò, Lizzie vide che si era riseduto sul letto sfatto e stava indicando l’orologio appeso al muro: non aveva più le lancette ed il vetro era spaccato in due.

“Perché distruggi tutto ciò che tocchi?” disse lei ad alta voce. Si mise una mano davanti alla bocca. Non era sua intenzione pronunciare realmente quelle parole… guardò con preoccupazione il semidio e stava per porgergli le proprie scuse, quando un sorriso quasi malinconico si formò sul viso di lui.

“Me lo chiedo spesso anch’io.”

Ci fu un lungo silenzio. Lizzie si sentì terribilmente in colpa. Come in un lampo, l’immagine della scheda informativa compilata a mano del semidio le comparve davanti agli occhi: Ramiel Harington, 20 anni, figlio di Ares e della mortale Paulina Harington, deceduta

Ripensò istintivamente a suo padre, di cui non conosceva né il viso né il nome, ai suoi genitori adottivi… ricordò inoltre quello che le aveva detto Dancy, una delle ragazze greche che aveva avuto a che fare con Ramiel in precedenza: “Formidabile, questo è vero, ma una vera e propria bestia. Avresti dovuto vederlo combattere: non c’è avversario che tenga. Persino il nostro Henry ha una ridicolmente bassa possibilità di batterlo nel corpo a corpo.”

Come fa ad essere così forte?

Glielo chiese, e Ramiel la guardò con fare serio ed emigmatico. “Con la forza dell’amicizia.”

Lizzie lo guardò, stralunata. La forza dell’amicizia? Beh, forse aveva senso…? “Davvero?”

Stava per domandargli altro, ma il semidio le scoppiò a ridere in faccia. “Ma ti pare?!” la derise.

“E allora come?”

Ramiel scosse la testa, sogghignando. “Non vi rivelerò i miei segreti. Ma ora voglio porla io a te una domanda, figlia di Venere.”

La conversazione stava prendendo una piega interessante. Finalmente. Un piccolo campanello di allarme risuonò nella mente di Anne Elizabeth. “Come fai a sapere che sono figlia di Venere?”

Ramiel si alzò dal letto, che emise un rumoroso cigolio, e si mise a sedere sull’altra sedia a pochi palmi di distanza da lei. “Un bel faccino come il tuo non può che appartenere alla progenie di Afrodite. E, dal momento che sembri non conoscermi, deduco che tu faccia parte del gruppo maglie viola.”

“Non sono solo un bel faccino,” sbottò Lizzie, “e sono fidanzata.” Si pentì un secondo dopo averlo detto. Quanto doveva essergli sembrata stupida ed ingenua? Non era quello il suo compito; lei doveva apparire forte, affabile, convincente. Come si era ritrovata in quella situazione? Perché non era rimasta in silenzio? Oh, Adrian... tu sapresti cosa fare e cosa dire, pensò di getto.

Quel fiume in piena di pensieri venne bloccato dalla risata di Ramiel, che tuttavia sembrò non aver fatto caso alla sua ultima affermazione. Tanti problemi per nulla.

“Questo è chiaro, perciò ti chiedo: perché non hai utilizzato la Lingua Ammaliatrice per convincermi sin dal primo giorno?,” sembrava genuinamente curioso.

“Potrei non avercela,” tentò la ragazza.

“Ne dubito,” replicò lui senza scomporsi.

A quel punto, Lizzie gli concesse quella piccola vittoria e gli rispose, stando ben attenta a non lasciarsi scappare qualche informazione di troppo. Esitò giusto per un breve istante. “Beh, vedi… sarebbe stato inutile. Gli effetti della Lingua Ammaliatrice non sono infiniti, e lasciarti a piede libero così instabile sarebbe stato controproducente.”

Ramiel annuì, facendole segno di aver capito con un lieve “Mmh.”

Qualcosa scattò all’interno della ragazza. Quello… quello era il momento giusto! Aveva tutta la sua attenzione, doveva solamente scegliere le parole giuste.

Si guardò intorno casualmente, facendo soffermare lo sguardo sull’orologio rotto. “Io non capisco, sai?”

“Benvenuta nel club.”

Anne Elizabeth si concesse una risatina. “No, davvero. Non capisco perché vi ostiniate a proteggere gli dei. Aspetta!” esclamò con urgenza quando lo vide alzare gli occhi al cielo ed incrociare le braccia, “Non sto cercando di convincerti, voglio solo capire. Insomma… perché rimanere fedeli agli dei, quando tutto ciò che fanno è usarci e lasciarci morire mentre loro se ne stanno da qualche parte sul quel Paradiso che è l’Olimpo a grattarsi la pancia e a ridere di noi? Perché dovrei morire per loro, quando tutto ciò che fanno è puramente a scopo egoistico? Non sono mai riuscita a capirlo.”

Ramiel rimase in silenzio, e Lizzie lo prese come un ottimo segno. “Solo perché la Signora Anìa ha avuto la forza di ribellarsi adesso è considerata il nemico. Non è giusto! Sai cosa le è successo? È stata scartata e additata come diversa solo per il suo modo di essere, per il suo scarso potenziale. Essere messa da parte così… è terribile, non trovi? E allora spiegami perché, Ramiel, spiegami; ci sono tante cose che forse non comprendo, ma questa… questa proprio non la capisco.”

Si rese conto di aver parlato a cuore aperto, riversando nelle sue parole ogni suo più puro sentimento. Decidendo di seguire Anìa, Lizzie era sicura di aver fatto la scelta migliore. Anche se gli dei non le avevano mai fatto personalmente un torto, sentiva che quella era anche la sua battaglia. Non poteva ignorare il disperato grido di aiuto della sua Signora, non ci riusciva. Se in quel mondo popolato da dei ed esseri sovrannaturali non esistevano giustizia ed equità, allora le avrebbero create loro. Un mondo migliore, diceva Anìa, un mondo che potremo governare in pace. Tutti insieme.

Il ragazzo la guardò con un’espressione indecifrabile, la schiena inarcata, gli avambracci posati sulle ginocchia aperte e le grandi mani dalle dita callose intrecciate lasciate penzolare nel vuoto tra le due giunzioni. “Quindi,” disse piano dopo qualche istante, “è così che speravi di convincermi ad aiutarvi? Era questo il tuo ultimo grande discorso?”

Lizzie lasciò ricadere la schiena sullo schienale della sedia, visibilmente sconfortata. Ma come fa? Ho convinto così tanti ragazzi prima di lui… perché non cede? Come fa ad essere così forte?

Dopo qualche istante, decise che rimanere non aveva più senso. Si alzò, maledicendo la sua bassa statura per il poco contegno che lo conferiva, e lo guardò con le mani sui fianchi. Gli occhi di lui sembravano perforarla mentre raddrizzava quasi minacciosamente la schiena, ma lei rimase stoicamente lì dov’era.

“Tu ci aiuterai, Ramiel Harington, volente o nolente. Ci sono mezzosangue come te che dobbiamo necessariamente portare dalla nostra parte: tu sei solo il primo,” fece un gesto ampio con la mano, indicando la stanza distrutta, “vuoi davvero rimanere qui? Ancora? Ne dubito. Unisciti alla nostra causa, Ramiel, accetta adesso… perché se non lo farai, Anìa manderà qualcun altro a convincerti. E fidati, non saranno pazienti come me.”

Detto ciò, Lizzie si diresse impettita verso la porta. Il viso le andava a fuoco, non capiva se per la rabbia, l’imbarazzo generale o se per la vergogna di aver pronunciato quelle parole così audaci. Proprio mentre stava per posare la mano sulla maniglia, la voce di Ramiel la raggiunse.

“Per proteggere una persona…” era poco più di un sussurro, ma Lizzie lo udì chiaramente.

“Stai cercando di distrarmi?,” gli domandò, esitante, “puoi anche provare a fuggire, se vuoi, ma la barriera non ti permetterà di allontanarti da qui.”

Ramiel si spostò dalla sedia al letto con studiata tranquillità, incrociando le braccia dietro alla nuca e fissando il soffitto, apparentemente con noncuranza. Ma Lizzie stava iniziando a capire. Allontanò la mano dalla maniglia, rimanendo comunque vicino alla porta di metallo, aspettando una risposta.

Il ragazzo mosse solo gli occhi, serio come non era mai stato prima. “Mi hai chiesto come ho fatto a diventare forte,” puntualizzò, continuando a guardare il soffitto.

Senza emettere un suono, Anne Elizabeth tornò a sedersi sulla sedia.

 

 

Theresa disprezzava il freddo.

Dover indossare abiti così pesanti ed opprimenti quali giacconi e sciarpe la rendeva nervosa ed irritabile. Quel giovedì di marzo, poi, non faceva nemmeno così freddo.

Erano le quattro del mattino, il Sole non era ancora sorto e le strade di Nuova Roma erano piacevolmente prive di gente. Theresa tenne ugualmente testa bassa, cercando di mantenere la calma. Anche con le strade deserte, si sentiva ugualmente oppressa, osservata. E lei odiava sentirsi così. Tuttavia doveva concentrarsi, non poteva permettersi distrazioni, ne valeva della sua vita. Le era stato detto che in quel posto ci vivevano dei fantasmi – o meglio, i Lari – perciò doveva comunque tenere un profilo basso, cercare di fare alla svelta.

Quella mattina, grazie all’aiuto di un complice dall’interno, era riuscita a far breccia, indisturbata, nel sistema di sicurezza magico di Nuova Roma. Non era stato difficile: grazie alle lezioni di Circe, era stato piuttosto semplice celare la proprio identità con un semplice ma efficace incantesimo. Si leccò le labbra, pregustando la dolcezza di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. La vendetta è dolce, le avevano detto, e finalmente, finalmente, sarebbe stata in grado di provarla. Quel che stava per fare andava contro gli ordini diretti di Anìa, colei che aveva momentaneamente deciso di seguire, ma come poteva lasciarsi scappare un’occasione simile? Controllò nuovamente la mappa della città, per poi ricacciarsela nella tasca del giaccone. Un fremito le percorse la spina dorsale. Era così impaziente… ma prima aveva un piccolo compito da svolgere.

Incontrò James Wilmington al punto prestabilito, in un vicolo particolarmente isolato nei pressi di una comune panetteria. Alla sola idea di dover unire le forze con quel maschio le si accapponava la pelle. James era un tipo dall’aria austera e posata, gli occhi scuri e i capelli corti da bravo soldatino qual era. O almeno, quale sarebbe dovuto essere.

Un’espressione tagliente si modellò sul viso di Theresa. “Traditore,” lo apostrofò, “hai qualcosa per me, oltre ad una pugnalata alle spalle?”

James sembrava nervoso. Theresa poté percepire la sua ansia, mentre si guardava attorno e frugava nel suo zaino. Tirò fuori un paio di normalissimi quaderni, di quelli tutti colorati per i bambini delle elementari.

I registri, capì Theresa, afferrando bruscamente i quaderni e controllandone velocemente il contenuto, strizzando gli occhi per abituarsi al buio. In quei quaderni, vi erano tutti i nomi e le discendenze divine dei soldati romani. Anìa le aveva raccomandato di prenderli e tenerseli stretti; c’erano ancora tanti ragazzi da reclutare. Theresa li infilò velocemente nel proprio zaino, guardando con la coda dell’occhio il ragazzo romano.

Si risistemò lo zaino in spalla. “C’è un’altra cos-“

“Sono stato bravo?,” la interruppe lui, la voce ricolma di urgenza e… speranza? Theresa lo guardò con disgusto.

“Come dici tu, sì. Ora stammi a-“

“Posso andare dalla Signora, adesso? Non posso più sta-“

Con un movimento repentino, Theresa estrasse uno dei coltelli che aveva nella cintura. Preferiva di gran lunga la balestra, come arma, ma quel ragazzo la stava irritando. “Stammi a sentire ora,” sibilò, “non me ne importa un cazzo di dove vai o cosa fai, è chiaro? Ora dimmi dove posso trovare Will Collins*, figlio di Nike. Ho saputo che si è trasferito qui dopo la guerra, anni fa.”

James si irrigidì e le afferrò il polso all’istante, senza tuttavia torcerglielo. Che idiota, pensò, potrei ucciderti qui, all’istante. Chi mai piangerebbe la morte di un traditore?

“Will Collins…” rifletté il ragazzo ad alta voce, spostando lentamente la mano armata di Theresa, mentre intanto la semidea aveva già afferrato un altro coltello con l’altra mano e glielo stava lentamente portando alla gola.

James sospirò. “La mappa.”

Theresa gli fece segno con lo sguardo di prendersela da solo, troppo impegnata a puntargli due coltelli contro. No, non si fidava proprio dei traditori.

“Abita qui,” le disse, indicando una via non lontana dal College. Solo in quel momento sembrò realizzare. I suoi occhi neri come ossidiana si indurirono. “Perché hai bisogno di saperlo?”

“Questi sono solo affari miei,” replicò seccamente lei.

“Non-“

“E la casa dei Jackson? Dimmi, dov’è la casa dei Jackson?”

James impallidì. Sembrò realizzare solo in quel momento ciò che aveva fatto. Scattò verso di lei, le mani alzate come per placcarla, ma Theresa fu più rapida: con un unico, fluido movimento gli conficcò uno dei pugnali dritto nello stomaco.

Le spalle di James si contrassero, poi si afflosciarono e si contrassero di nuovo. Ebbe qualche spasmo di dolore, ma riuscì ugualmente a trovare la forza di afferrarle i polsi, insozzando con il suo lurido sangue il cappotto di Theresa. “Avevamo un accordo… io e Anìa…” le affondò le unghie nella carne della mano, piegandosi in due sempre di più: il veleno sul pugnale stava facendo effetto.

“Hai ragione,” disse bruscamente Theresa, estraendo il coltello e separandosi dal ragazzo con uno strattone, facendolo ruzzolare per terra, “l’accordo era fra te e Anìa, non fra te e me. Ora guardati, a morire in un sudicio vicolo… sudicio quasi quanto te.”

James cercava di fermare il sangue con le proprie mani, ma le forze gli stavano venendo man mano meno, sia per l’emorragia che per il veleno di cui era intrisa la lama. Il veleno di Medea.

“Vuoi sapere una cosa?,” fece Theresa, accucciandosi di fronte a lui, pochi centimetri che li separavano; James riuscì a stento ad alzare una mano e portargliela al collo in un patetico tentativo di strangolarla, “non provo pietà per te. Sei la peggior specie di traditore, di quelli che prima si fingono amici e poi ti pugnalano alle spalle. E se anche tu fossi una spia del Pretore, cosa di cui dubito… avresti infranto l’accordo che hai fatto con Anìa.”

A questo punto, Theresa aveva già mandato a farsi benedire il voler essere cauta. Questo… questo la stava facendo star bene. Vedere una vita afflosciarsi lentamente e spegnersi a causa sua… la vita di una persona così miserabile e disgustosa, per giunta… sì, le piaceva. Le piaceva giocare a fare la dea, un’entità abbastanza potente da poter decidere per le vite altrui.

Quando James smise di respirare, Theresa riprese a vivere. Anìa le aveva promesso giustizia, e giustizia avrebbe avuto; le aveva promesso equità, ed eccola lì, di fronte a lei. Una scarafaggio che moriva come uno scarafaggio, in uno sporco vicolo a contorcersi per il dolore, impotente e indifeso a causa delle sue scelte sbagliate. Ma era stato tutto rapido, troppo rapido...

Erano ormai le quattro e mezza del mattino quando finalmente raggiunse casa Collins. James l’aveva lasciato lì dov’era. Le persone si preoccupavano forse di seppellire gli insetti? No. O almeno, non le persone normali: d’altronde Theresa si reputava una ragazza semplice che seguiva la massa, a modo suo. Se anche l’avessero trovato, che importava? Chi mai avrebbe pianto per lui, il più infimo dei vermi traditori?

Si nascose nell’ombra. Presto, pensò caricando la sua balestra, un gran sorriso sulle labbra, presto giustizia sarà fatta.

Con il cappotto sporco di sangue, le mani intorpidite dal freddo ed incrostate di sporcizia e un’arma letale fra le mani, Theresa non era mai stata così entusiasta. Prese lo specchietto che portava sempre con sé, controllando la sua immagine riflessa. A restituirle lo sguardo fu, come al solito, un orrido mostro. Maledetta puttana, pensò, me la pagherai.

Rimise lo specchietto in tasca, imbracciando nuovamente la balestra.

“Ricorda per cosa combatti.”

 

 

 

 

“Notizie su una fonte magica in Georgia sono giunte a noi un paio di settimane fa; c’è la possibilità che si tratti di un semidio.”

Mal si guardò intorno, studiando le reazioni del gruppo appena stato convocato. A parlare era stato Edward, un lentigginoso figlio di Vulcano dagli occhi verdi e i ricci rossicci. Mal ci aveva parlato solo un paio di volte: lo trovava un tipo un po’ strano, ma tutto sommato timido e facilmente influenzabile. Un bravo ragazzo, insomma. In quel momento, era seduto a capotavola, le mani intrecciate sul piano davanti a lui e gli occhi dardeggianti. Sembrava stesse cercando aiuto, in particolare dal ragazzo seduto di fianco a lui: Jaime Rivera, figlio di Venere.

Jaime aveva un’espressione indecifrabile. Mal aveva avuto modo di conoscerlo superficialmente, tre settimane prima: era un bel ragazzo, alto e slanciato, capelli folti e scuri legati in un codino alto e viso cosparso di lentiggini. Un tipo tranquillo, ma che Mal non riusciva a comprendere. Percepire le aure era una delle sue abilità, e quella di Jaime… era particolare… affollata, le veniva da dire, ma non capiva bene perché. Era da un po’ di tempo che aveva intenzione di avvicinarsi al ragazzo per poter capire. Affollata, confusa, sbilanciata…

Cinque semidei erano seduti a quel tavolo rettangolare, situato in una piccola sala adibita ad aula del consiglio. La Signora preferiva starsene chiusa nelle sue stanze, mostrandosi raramente ai suoi sottoposti. Edward, a quanto pareva, era stato uno dei pochi fortunati a poterla vedere in volto. Non gli andava di parlarne, questo era palese.

“La… uhm… Signora dice di aver bisogno di noi. Dovremo andare a controllare, presto o tardi,” fece una breve pausa, ponderando per bene le parole, “ha scelto personalmente il gruppo, la partenza è prevista entro un paio di giorni, salvo imprevisti.”

“Perché proprio noi?,” domandò Mary Price, figlia di Pomona. Tutti gli occhi si puntarono su di lei. Mary era una bella ragazza, dai lunghi capelli castani e le ciglia lunghe; era chiaramente sovrappeso, ma, non considerando alcuni dei soliti imbecilli, nessuno aveva mai osato prenderla in giro.

Edward aveva la risposta a quella domanda, e fu ben felice di esporla. “La Signora sostiene si tratti di una fonte naturale, forse legata a qualche spirito della natura: ecco perché sei qui, Mary. Pomona è legata alla natura, quindi sarai probabilmente in grado di aiutarci. Mallory, ecco…” esitò qualche secondo prima di parlare. Mal non ci fece particolarmente caso, abituata com’era agli sguardo di disagio degli altri. Quando finalmente trovò le parole giuste, Edward riprese a parlare: “con ogni probabilità sarà presente una barriera, perciò tu avrai il compito di eliminarla. Sei molto brava in questo genere di cose.”

Mal apprezzò il tentativo, ma la sua espressione non cambiò. Si limitò a ricambiare lo sguardo del figlio di Vulcano, osservandolo bene in viso mentre lui distoglieva lo sguardo, chiaramente a disagio. Edward aveva delle labbra molto carnose, quasi innaturalmente grosse. Il viso era magro, ed era ricoperto di lentiggini, probabilmente dalla testa ai piedi. Mallory lo osservava spesso, lo capiva: quel suo sforzarsi di essere empatico, di comprendere gli esseri viventi come comprendeva le macchine… in un certo senso, Mallory si rivedeva in lui.

“Jaime è molto abile con la spada, ed è bravo a maneggiare la balestra,” continuò il semidio, questa volta il suo tono pratico e monocorde alleggerito da una punta di calore. Mal fece saettare lo sguardo sul figlio di Venere, che aveva accennato un lieve e modesto sorriso e si stava toccando la nuca con una mano. Mal socchiuse gli occhi. Affollato. Confuso. Sbilanciato.

“Per quanto riguarda Henry…”

Edward guardò con esitazione il figlio della dea della persuasione Peito, all’altro capo del tavolo, isolato, con la i gomiti poggiati sul piano e il viso fra le mani, l’aria assonnata e terribilmente annoiata, i corti riccioli scuri che gli ricadevano sulla fronte placidamente. I suoi magnifici occhi azzurro chiaro erano puntati nel vuoto. Mallory percepiva noia, indignazione, sconforto… e rabbia, tanta rabbia. Sembrava un dio greco vendicatore, un tremendo Apollo pronto a scoccare le sue letali frecce portando caos e punizioni, seguendo il suo distorto senso di giustizia. Tutti i presenti avevano cercato di ignorare la sua presenza fino a quel momento, il fastidio generale palpabile.

Nessuno proferì parola per lunghissimi istanti.

Henry non ci vuole venire,” disse lui, continuando a guardare nel vuoto, “portatevi dietro quella megalomane di Lorina o, che so, quella palla di merda di Simon Gregory.”

Mary si irrigidì, ma non osò dire nulla.

Mallory rimase immobile sulla sua sedia, facendo da spettatrice. Anche Edward tornò a sedersi, sbuffando sonoramente, esasperato. “Henry…”

Henry si tirò si alzò in piedi, ringhiando minacciosamente. “Mi state facendo perdere tempo. Questa è una missione per idioti. Non ho alcuna intenzione di farmi una penosa gitarella con questo gruppo di sfigati. La Signora ha grandi piani per me.”

Inaspettatamente, Jaime Rivera si alzò di scatto, battendo i pugni sul tavolo, un ghigno provocatorio sul volto. Sembrava quasi essere un’altra persona. E la sua aura, poi…

“Ma chi ti credi di essere?! Stammi bene a sentire, casse coullies, non abbiamo intenzione di perdere tempo dietro al tuo culo viziato! Quindi vedi non farci perdere tempo e fa’ quello che ti è stato ordinato, bouffon.”

Mal sentiva la testa girarle. Non conosceva bene Jaime, ma era abbastanza sicura che il ragazzo non avesse mai avuto quel marcato accento francese. Jaime batté le palpebre velocemente, ora sembrava essere arrabbiato con se stesso. No, non con sé stesso…

Affollato.

Edward scattò al fianco di Jaime, ma Henry fu più veloce. Come un cane rabbioso, si lanciò sul tavolo lo afferrò per il maglione e gli tirò una poderosa testata. Jaime cadde ed Henry gli piombò addosso, iniziando a colpirlo.

Confuso.

Mary urlò e inciampò nella sedia nel tentativo di alzarsi alla svelta, Edward… beh, Edward, preso dalla foga e preoccupato per il suo amico, afferrò una sedia e la spaccò dietro la schiena di Henry, che urlò dal dolore e si accasciò solo per pochi istanti.

Sbilanciato.

La porta della Sala si aprì lentamente, e il viso paffuto della quattordicenne Valerie Kingstone spuntò da dietro il legno massiccio. “Ho sentito urlar-“

“VA’ FUORI,” le urlarono all’unisono i tre ragazzi, Mary che correva fuori dalla porta e trascinava via con sé la ragazzina, Mallory ancora seduta sulla sua sedia. Continuava a osservare la scena con un certo interesse, talvolta chiudendo gli occhi. Tre presenze, ora quattro, ora di nuovo tre… ora una in più, diversa da quella precedente.

Decise di averne abbastanza. Una lieve luce purpurea scaturì dalle sue piccole mani, creando una sorta di corde di energia luminosa. Con un veloce movimento, Mallory scagliò le catene in direzione di Henry, incatenandolo e gettandolo a pancia all’aria sul pavimento, la nuca che batteva rumorosamente. Con un altro veloce movimento delle dita, sollevò il tavolo e lo scagliò contro il muro, creando una debole barriera fra Henry e gli altri due ragazzi. Tutti e tre avevano il fiatone. Il bel viso di Jaime era sporco, il labbro gonfio e il naso grondante di sangue. Edward sembrava essersela cavata meglio, avendo riportato solo qualche livido.

Le spalle di Jaime erano basse, come se fosse stanco… o come se si vergognasse di qualcosa.

Mallory lo guardò per un lungo istante. Tre. Poteva percepire tre presenze, oltre alla sua, in quella stanza. Quella che aveva percepito prima… non c’era più. Svanito nel nulla. Poof. Come era possibile? Cosa stava succedendo. Si rese conto di aver sempre sentito quella strana sensazione, quando Jaime era nei paraggi, ma ora… ora era genuinamente curiosa.

“Andate a cercare qualcuno che possa rimettervi in sesto,” disse, atona.

“Non possiamo lasciarti da sola con lui,” tentò Edward. Il suo tono era più pratico che realmente preoccupato. Sembrava stesse sottintendendo qualcosa come tu rimani, lui ti ammazza o cose del genere.

“Me la caverò,” assicurò Mallory. Non fare finta di essere preoccupato per me, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne.

Dopo qualche secondo di esitazione, sia Jaime che Edward si congedarono, parlando a bassa voce tra di loro, le teste vicine. Mallory li guardò andare via, poi rivolse la sua attenzione ad Henry.

Il semidio sembrava aver perso i sensi, perciò Mallory decise di sciogliere l’incantesimo. Le braccia di Henry, non più costrette dalle corde magiche, ricaddero mollemente sul pavimento con un lieve tonfo. Mal gli si accucciò vicino, scostandogli i riccioli dalla fronte, gli toccò la guancia ispida di barba, la mascella, gli zigomi.

Lo schiaffeggiò. Forte. Avrebbe potuto usare un incantesimo revitalizzante… ma voleva davvero sprecare le sue energie per un individuo del genere? Per colui che, avendo vissuto al Campo con lei, aveva sparso in giro voci sulla sua discendenza anche lì, condannandola ad una permanenza triste e solitaria?

Lo schiaffeggiò di nuovo, stavolta sull’altra guancia.

Henry non si svegliò.

Ah beh, pensò scrollando le spalle e rimettendosi in piedi, guardandolo dall’alto, anche se dovessi morire, poco male, non mancherà a nessuno.

 

 

 

 

*la creatrice del personaggio non ha specificato il cognome, perciò mi sono arrangiata.

 

Casse coullies: rompi coglioni

Bouffon: buffone

 

 

 

 

 

Ciao a tutti!

Scusate per l’assenza, di nuovo, ma sono stata davvero molto impegnata. Spero che il capitolo sia di vostro gradimento.

È un capitolo un po’ più corto, non ho nemmeno presentato tutti i personaggi! Ho pensato di prendermela con comoda. I cattivi sono personaggi molto complessi e molto più complicati da scrivere (ma è questo il bello no?)

Cosa ne pensate di questi nuovi personaggi? E della sorte del povero James? Sentiremo ancora parlare di lui, tranquilliii

Spero di riuscire ad aggiornare presto!

Baci,

 

 

 

 

-sun

 

 

   
 
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