Iustitia
“Non sono mai stata brava in niente.”
La stanza era semplice ed accogliente, non un oggetto fuori
posto né un singolo granello di polvere. Le tende erano marroni, perfettamente
tirate. Enormi scaffali pieni di libri circondavano il comodo divanetto su cui
era stesa Mallory, la testa poggiata sul morbido bracciolo. Era stesa a pancia
in su, gli occhi fissi sul soffitto bianco, una semplice lampada emetteva un
lieve bagliore luminoso.
“Quando lo dissi alla mia mamma, lei rispose che era una
sciocchezza, che tutti avevano un talento. Ma era una bugia. Mamma ne
raccontava tante, di bugie…”
Sua mamma era una donna stupenda, dai lunghi capelli scuri e
gli occhi neri come la pece. Sempre dolce, sempre gentile, mai un dettaglio
trascurato o fuori posto. Si chiamava Diane, ma questo Mallory l’aveva scoperto
solo in seguito. Per lei, era sempre e solo stata semplicemente Mamma.
“Mi dica di più di sua madre,” fece una voce nasale,
maschile. Mal udì il graffiante suono della penna sul taccuino. Chissà cosa
stava scrivendo.
“Sosteneva fossi portata per la letteratura, ma questa era
solo un’altra menzogna. Non sono brava a trovare le parole giuste. Non mi va di
parlarne.”
“Capisco,” fece la voce, “e in quanto a suo padre?”
Mallory continuò a tenere lo sguardo fisso sul pallido
soffitto. Sentiva il bisogno di girarsi e osservare il suo interlocutore, ma
qualcosa la faceva desistere.
“Il mio papà era grande e forte; un guerriero. Aveva gli
occhi azzurri e i capelli biondi. O forse rossi? Non ricordo.”
“E ora dov’è?”
“È morto.” Rispose piano la ragazza. Si aspettava di
piangere, ma non lo fece.
“E la tua mamma?”, le venne nuovamente chiesto.
“Morta anche lei.”
Questa volta Mallory batté velocemente le palpebre, punta sul
vivo. Cercò di scacciare il pensiero dei suoi ormai defunti genitori, ma non ci
riuscì. I loro volti, seppur sbiaditi, non facevano che balenarle nella mente,
restii a lasciarla andare.
“Di chi è la colpa, Mallory? Chi li ha uccisi?”
Ispirò pesantemente dal naso, le palpebre ebbero un fremito.
Sentì la gola chiudersi, le guance arrossarsi dalla rabbia. “Gli dei.” Rispose
senza alcuna esitazione.
L’altro dovette ritenersi soddisfatto, poiché smise di
tediarla con quelle domande così difficili e le chiese di parlargli un po’ di
se stessa.
Ci furono alcuni istanti di silenzio. Silenzio che Mal non
riuscì a tollerare. Cominciò a parlare a vanvera di qualsiasi cosa: la sua vita
a Nuova Roma, il suo piatto preferito, la sua paura del buio. Stava parlando
della sua passione per le ciambelle quando un suono, simile ad un basso
nitrito, la interruppe. Voltò la testa di scatto, gli occhi spalancati. Al suo
fianco, seduto su di una comoda poltrona, c’era il corpo di un normalissimo
uomo in completo elegante e cravatta. Alzando lo sguardo però, Mal non vide
alcun tipo di faccia; bensì un muso lungo e scuro, due occhi completamente neri
e distanti tra loro, orecchie alte ed appuntite, pelo grigio ed una lunga
criniera scura.
Il suo psicologo era un asino.
Letteralmente.
Mal si mise lentamente a sedere, le ginocchia unite e le mani
abbandonate sul grembo. “Sei un asino,” costatò, tutta la voglia di parlare
svanita.
“E tu sei una noia,” ribatté l’equino, appuntando anche
questo sulla sua agenda.
Mallory stava per ribattere, ma decise di rimanere in
silenzio per qualche momento, misurando per bene le parole. Ne aveva fatti di
sogni strani, ma quello… quello li superava di gran lunga tutti. “Cosa
significa tutto questo, Fobetore?”
Con suo grande orrore, il viso del cavallo mutò,
trasformandosi questa volta in quello di un gorilla, il corpo sempre umano. Mal
rabbrividì, indietreggiando con un colpo di anche e trascinandosi dietro tutto
il divanetto.
Anche la sua voce era cambiata, questa volta profonda e
vagamente gutturale. Le faceva ribrezzo, ma era sempre meglio della faccia
d’asino. “Devo tenere viva la fiamma, dolcezza. Sia mai che decida di
abbandonare la causa della Signora.”
“Credevo di essere stata chiara,” sbuffò Mal, “cerco
giustizia per i miei genitori e per tutti i semidei innocenti.”
Il volto di Fobetore mutò nuovamente, tramutandosi in quello
di un’anziana megera, la voce ora gracchiante e fastidiosa. “E con questo?
Credi che dopo tutto ciò che ha passato si fiderà della tua sola parola? La
nostra Signora ha bisogno di fatti.”
“Sono la sua più devota servitrice.” Almeno fino a quando terrà fede alla sua promessa, aggiunse
mentalmente.
La vecchia emise un rantolo disgustoso, come se volesse
tossire muco, poi il viso cambiò nuovamente. Questa volta, il viso di un
giovane uomo dai capelli biondo-fragola prese il suo posto. Anche gli abiti
mutarono, facendo posto ad una maglia arancione a mezze maniche con la scritta CAMPO MEZZOSANGUE e un paio di jeans scuri. Mal serrò le labbra,
cercando di trattenere le lacrime.
Quello
non è Papà. Papà è stato ucciso, ucciso dagli dei!
“Non c’è bisogno che tu mi ricordi costantemente il motivo
per cui combatto.” Mormorò, pizzicandosi forte il braccio, “fammi
svegliare.”
“La mia piccola Mal,” disse piano l’uomo, avvicinandosi di
qualche passo a lei, “sono così orgoglioso di te.”
“Fammi svegliare! Fobetore, ti prego…” urlò disperata,
conscia di quello che stava per accadere. Cercò di alzarsi, di girarsi, di
coprirsi gli occhi con le mani, ma una forza invisibile la teneva ancorata al
divano, impossibilitata.
“Io e tua madre ti vogliamo così tanto bene.” Le sorrise suo padre, arrivandole a pochi
centimetri di distanza.
Lacrime e muco le bagnavano la faccia, gli occhi gonfi che
proprio non ne volevano sapere di chiudersi. Le bruciavano, così come le
bruciavano il petto, il naso, la testa, la gola.
“Mia Signora!”,
implorò, “ti prego! Papà!”
Proprio quando suo padre, il suo adorato papà, stava per
sfiorarle il viso con la punta delle dita pallide, un ombra scura lo spinse sul
duro pavimento. Mal urlò mentre il mastino infernale gli apriva le viscere e
gli sbranava le interiora. L’uomo urlava, si dimenava, implorava la sua divina
genitrice affinché lo salvasse, ma niente. L’impeccabile stanza era ormai
ricoperta di sangue. Il sangue di suo
padre.
“Ricorda per cosa combatti,” mormorò l’uomo, il volto
straziato dal dolore, mentre esalava il suo ultimo respiro.
Finalmente, Mal poté chiudere gli occhi.
Stava ancora piangendo quando si risvegliò, avvolta nel suo
soffice e caldo piumone.
Quella notte, Fobetore aveva davvero esagerato. Molte volte
il dio degli incubi le aveva mostrato scene simili, ma quella notte non le
aveva permesso di distogliere lo sguardo, di poter accovacciarsi in un angolo
ed aspettare che quell’orrore finisse. Alle volte il dio era gentile,
concedendole di passare del tempo con la sua famiglia durante un picnic, al parco
giochi. La notte prima aveva passato dei piacevoli momenti insieme alla madre,
che le aveva raccontato alcune favole dal libro verde che le leggeva sempre da
bambina; a volte doveva fermarsi, perché la dislessia non le permetteva di
leggere in maniera fluida, ma la sua mamma si era sforzata, stringendo gli
occhi neri e talvolta, Mal lo sapeva, inventando il continuo del racconto pur
di non far perdere il filo alla sua bambina.
Se c’era una cosa che accumunava ogni sogno, quella era il
finale; bello o brutto che fosse, i suoi genitori si congedavano sempre con la
frase “Ricorda per cosa combatti.”
Una volta Mal ne aveva parlato con Lizzie, l’unica che
potesse considerare una vera amica in quel posto, e la figlia di Venere le
aveva risposto che anche lei sognava cose simili. Sosteneva si trattasse di un
modo della Signora per sincerarsi dell’effettiva lealtà dei suoi guerrieri. Un
sistema crudele ma efficace. Ogni mattina, Mallory si alzava dal letto con
rinnovata voglia di far fuori ogni divinità, greca o romana che fosse.
Tutti
egoisti, si ripeteva, tutti
falsi.
Si mise a sedere, guardandosi intorno. Era ancora buio.
La sua Signora non era così. Lei aveva sofferto, ma aveva
avuto la forza e la possibilità di reagire. Mal la ammirava per questo. Se solo
avesse potuto far aprire gli occhi a tutti… insieme avrebbero creato un mondo
migliore, un posto sicuro. Era questo quello che i suoi genitori avrebbero
voluto, ne era sicura.
Dopo qualche minuto, le lacrime si erano completamente
dissipate, lasciandole solo una profonda sensazione di vuoto. Si alzò in piedi
e si posizionò davanti al grande specchio; la sua era una camera piccola ma
accogliente, sulle tonalità del blu e dell’indaco. A Mal piaceva, la sentiva
come una cosa sua. In quel breve
periodo in cui aveva vissuto al Campo Mezzosangue, non aveva mai provato quel
senso di appartenenza che da alcuni mesi a quella parte provava per il covo di Anìa. Erano tutti così ingiusti!
Perché la sua Signora doveva nascondersi? Cosa aveva fatto di male?
Si riavviò i corti ricci scuri, tagliati a caschetto. Faceva
troppo freddo quella mattina, non aveva alcuna voglia di lavarseli, perciò se
li sistemo in una corta coda alta. Avvicinò il viso allo specchio, notando con
rammarico un brufolo spuntarle proprio al centro della larga fronte. Pensò a
Lizzie, alla sua pelle perfetta, e a tutti gli altri numerosi figli di Venere –
o Afrodite – che avevano scelto di abbracciare la causa di Anìa: loro erano
sempre bellissimi, perfetti, impeccabili.
Quanto li invidiava.
Si lavò velocemente, si vestì e rifece il letto.
Quando si sentì pronta, uscì dalla camera.
Si trovavano in North Dakota, un posto freddo d’Inverno e
solitamente caldo ed accogliente durante la stagione estiva. Da quel che aveva
capito, si trovavano nei pressi della città di Fargo, ma Mallory non ne era
completamente sicura. Non aveva un gran senso dell’orientamento e di geografia
capiva ben poco. Sapeva per certo che faceva un gran freddo. Anìa e i primi
mezzosangue entrati al suo servizio avevano provveduto alla ricerca di una base
perfetta: si trattava di un hotel aperto da poco, circa sei anni, situato non
troppo al centro ma nemmeno troppo in periferia. Si trattava del Best Western Inn&Suits: un posticino
accogliente, moderno e alla mano. A Mal piaceva. Mesi prima uno dei figli di
Venere aveva convinto i proprietari a lasciar loro il posto, poi Mal, grazie
alla sua discendenza da Ecate, aveva tirato su uno spesso e fitto strato di
Foschia. A meno che lei non fosse morta, quel posto era introvabile.
Percorse i lunghi corridoi, passando per la Hall.
“Ehi, Cespuglio!”, disse una voce che, suo malgrado,
riconobbe appartenere a Simon Gregory, il grasso e fastidioso figlio di Eos.
Mal non si girò, continuando la sua ricerca di qualche viso
noto e amichevole. Non sapeva quante persone fossero entrate al servizio della
sua Signora: durante l’ultimo giro di ispezione, ne aveva contati meno di un
centinaio. Erano per lo più adolescenti, di cui la maggior parte sembrava non
avere alcuna motivazione valida per trovarsi lì.
“Già sveglia a quest’ora? Sei sicura che interrompere il tuo
sonnellino di bellezza sia una buona idea? Guarda che ne hai davvero bisogno. È
un brufolo quello?”
“Gira al largo, Panzone,” sputò Mallory, acida.
Simon non le diede retta, e continuò a seguirla. “Come mi hai
chiamato?!”
“Panzone. È quello che sei, in fondo. Oggi non ho voglia di
star dietro alle tue stronzate, Gregory, perciò faresti meglio a lasciarmi in
pace.”
Il ragazzo le afferrò la mano. All’iniziò Mal lo guardò
sorpresa, ma poi Simon cominciò a stringere. E a stringere. E a stringere. Sentì le ossa delle dita
scricchiolare ed emettere preoccupanti rumori, ma lei non emise un suono. Si
limitò a fissarlo, cercando di controllare il dolore. Con l’altra mano, Simon
le afferrò il bavero del maglione, spingendola contro il muro. Le stava
schiacciando le clavicole, ma ancora, Mal non emise nemmeno un verso. Patetico, pensò, ora gliela faccio vedere io chi è il più forte.
“Simon! Cosa stai facendo?” esclamò una melodiosa voce che
Mal riconobbe all’istante. Non sorrise quando Simon la lasciò andare; si limitò
a sistemarsi il maglione e guardandolo con fermezza, si affianco alla
proprietaria di quella voce: Lizzie.
La figlia di Venere aveva le piccole e delicate mani sui
fianchi stretti, i grandi occhi castani socchiusi. Non era molto alta, ma in
quel momento incuteva quasi un certo timore.
“Quando imparerai a lasciar in pace Mallory?” domandò. Non stava usando
la lingua ammaliatrice, ma Simon abbassò ugualmente lo sguardo e mormorò
qualcosa, pieno d’ira. Tutto fumo e
niente arrosto, pensò Mallory, disgustata.
“Non la sopporto, okay?,” sbottò alla fine lui, “con quella
sua mono-espressione e l’aria da padrona. Ma chi ti credi di essere?”
“La ragione per cui tu sei qui e non alla mercé degli dei,”
rispose pacatamente Mallory, “se non fosse per me, a quest’ora la barriera
sarebbe già caduta.”
“Ovviamente,” disse Simon, tornando dietro al bancone della
reception, sorridendo amabilmente, “d’altronde… i tuoi poteri sono più forti di
una normale discendente di Ecate… sbaglio?”
Mallory strinse i denti. Prima che potesse fare nulla, però,
Lizzie la afferrò gentilmente per il polso e la trascinò via. Simon fece per
urlare qualcosa, ma Lizzie fu previdente: “Silenzio!,”
ordinò. Simon si zittì all’istante, o almeno così Mal credeva. La Lingua
Ammaliatrice della ragazza era potente, perciò anche Mal fu costretta a
rimanere in silenzio per un po’. Non che la cosa le desse particolarmente
fastidio.
Quando finalmente arrivarono all’ascensore, Lizzie si
concesse di rivolgerle uno sguardo preoccupato.
“Grazie,” sussurrò piano Mallory una volta ripreso l’uso
della parola, “sei stata molto gentile, ma posso gestirlo.”
Lizzie alzò un sopracciglio curato. Si passò velocemente una
mano sui capelli color cioccolato, poi sospirò. “Hai ragione. Il fatto è che
proprio non sopporto tutti questi bulli! Si sono uniti alla causa della Signora
con la mentalità sbagliata.” Premette il dito contro il pulsante
dell’ascensore, che si illuminò. “Sono venuta a cercarti, comunque. Dobbiamo
controllare le reclute.”
Mal alzò un sopracciglio. “I prigionieri, vorrai dire.”
“Cerco sempre di non pensare a loro in questo modo,” ammise
quasi timidamente.
“Sei troppo buona. Non capisco perché sei qui, francamente.
Non l’ho mai capito. Adrian deve mancarti terribilmente.”
Lizzie non rispose, chiaramente dispiaciuta al solo pensiero.
Mal si sentì leggermente in colpa, ma, come al solito, non lo diede a vedere.
Adrian era il ragazzo di Anne Elizabeth. Lei ne parlava
sempre con occhi scintillanti ed immensa devozione. Un po’ la invidiava: doveva
essere bello avere qualcuno innamorato a tal punto da accettare ogni tua decisione,
aspettandosi e pregando per la tua sicurezza.
Le porte dell’ascensore si aprirono. Le due ragazze entrarono
in silenzio, Lizzie a testa bassa.
Scusa,
scusa, scusa! Non volevo portarti alla mente ricordi dolorosi! Liz…
Ma le parole non uscirono. Non potevano uscire. Non poteva mostrare debolezza, nemmeno con lei.
L’ascensore cominciò a scendere di uno, due, tre piani. Fu
solo allora che Liz parlò, cambiando completamente argomento: “Spero che Lorina si sia comportata bene con
le reclute. O almeno, meglio di Henry…”
“Se vuoi sapere come la penso, quel Henry ha qualche rotella
fuori posto. Questa missione è solo una scusa per lui per fare quello che gli
pare.”
L’immagine di un ragazzo stupendo, gli occhi azzurri che
risaltavano sul viso rosso sporco di sangue le balenò velocemente davanti agli
occhi. Non erano molte le persone che Mallory davvero temeva, ma quel ragazzo…
la ragazza cercava sempre di essere particolarmente scostante con lui nei
paraggi. Era convinta che nemmeno la Lingua Ammaliatrice di Lizzie sarebbe
stata in grado di placare la su furia.
Quando finalmente l’ascensore di servizio arrivò ai
sotterranei, le due ragazze vennero accolte da un forte odore acre e
particolarmente spiacevole, come di plastica bruciata. Lizzie si portò
immediatamente indice e pollice alle narici, chiudendole. Quando parlò, lo fece
con voce nasale. “Che sta succedendo qui?”
Mal la imitò e di guardò attorno. C’erano voluti poco più di
dieci giorni per creare quella sorta di sotterranei. Grazie ad una figlia di
Plutone e un paio di ragazzi di Efesto, non era stato difficile scavare quella
specie di mega tunnel sotterraneo e piazzarci dento gli alloggi delle reclute.
Non erano proprio celle, quanto più
stanze con una piccola finestrella sulla porta, per poter far passare viveri e
altre necessità. Le porte erano di spesso metallo rinforzato, rosse con le
rifiniture viola. Fortunatamente, Mal non aveva avuto occasione di dare
un’occhiata all’interno delle stanze. Solo i Guardiani potevano. Lizzie era una di loro.
Lizzie non le aveva mai parlato apertamente del suo compito,
non ne aveva il permesso, ma Mallory non era stupida: la maggior parte dei Guardiani erano figli di Afrodite – o Venere – o persone
che sapevano essere molto… convincenti,
come Lorina o Henry. Ogni settimana, un nuovo soldato veniva fuori dalle porte
di quell’ascensore argentato, pronto e determinato a servire la causa della
Signora. Quando il suo turno finiva, Lizzie non sembrava essere particolarmente
orgogliosa di se stessa.
“Lorina!” chiamò Lizzie, sempre tenendo le narici ben
serrate. L’odore di plastica bruciata era insopportabile.
Dopo qualche istante, una ragazza dal caschetto scuro e
asimmetrico uscì da una cella, sbattendosi la pesante porta di metallo alle
spalle. Un leggero ghigno le increspava le labbra sottili. “Oh, alla
buon’ora!”, fece, avvicinandosi a Lizzie e ignorando Mal.
“Cos’è questa puzza?” domandò la figlia di Venere.
“Uh, non preoccuparti, mia cara, Henry si è preso la briga di
risolvere la situazione,” fece un gesto estremamente plateale, alzando le
braccia come a voler dire che vuoi che
sia?, “vedi, una fastidiosa biondina ha provato a fondere la maniglia della
cella. Non chiedermi come, non ci sono più le bionde di una volta.”
Si diresse verso l’ascensore.
“Henry è con lei?,” chiese Lizzie con una punta di
preoccupazione.
“Credimi, mia cara, non oserà più fare una cosa del genere,”
Lorina ghignò di nuovo, finalmente posando gli occhi grigi come il ferro su di
lei, “e tu, piccolo incesto, che ci
fai qui? Non dovresti star leccando i piedi alla Signora?”
“Lorina…” mormorò
Liz, facendo dardeggiare gli occhi scuri da lei a Mal. Quest’ultima però si
limitò a guardare il viso compiaciuto della figlia di Eris. Non le avrebbe dato
soddisfazione.
Lorina fece un verso di scherno, poi allargò nuovamente un
braccio, facendo a Mal cennò di entrare in ascensore. “Il tuo posto non è qui.
Con quella tua mono-espressione non riusciresti nemmeno a convincere un vecchio
a saltare la fila per la pensione. È interessante però,” disse entrando in
ascensore, Mallory subito dietro e lo sguardo preoccupato di Lizzie che spariva
dietro le porte argentate, “un giorno dovrai insegnarmi; tante persone provano
a metter su un’espressione apatica come la tua, ma alla fine sembrano solo
pesci lessi! Deve essere uno dei tanti poteri conferiti dall’incesto…”
“Potresti smettere di parlarne?” fece Mallory infastidita,
mentre l’ascensore saliva e abbandonava il sottosuolo.
“Ma è la verità, no? Vuoi negarlo?”
Mallory non rispose, limitandosi a fissare nel vuoto. No, non
voleva negarlo. Non poteva. Per
quanto orribile, per quanto inaccettabile… quel che si diceva in giro era la verità,
nient’altro che la verità. Per quanto si sforzasse, per quanto continuasse a
ripetere a se stessa che con il DNA
divino non funziona così!, a livello sociale la situazione non sarebbe mai
mutata.
Perché sua madre era figlia di Ecate.
Suo padre pure.
Lizzie entrò nella stanza numero 8, un largo sorriso forzato stampato
sulle labbra. Le pareti erano grigie e rovinate, graffiate e sporche in più
punti, il letto sfatto e il gabinetto, sistemato nell’angolo un po’ più
appartato era forse l’unica cosa rimasta intatta nella stanza.
Nella stanza, oltre al letto, c’era un piccolo mobile con
quattro cassetti per sistemare la biancheria e quei pochi vestiti appartenenti
alla recluta, due sedie in legno scuro, una lampada e un contenitore di
riviste. Con i fogli delle riviste, il ragazzo ci aveva fatto delle barchette
di carta. Una delle quattro luci al neon sul soffitto era spaccata in due e
lampeggiava in maniera sinistra.
Sospirò. “Ramiel… perché?” Si rese conto di suonare come una
giovane madre esasperata, e cercò di ignorare la sensazione. Si mise a sedere
su una delle sedie, osservando il ragazzo seduto a gambe incrociate sul letto.
Ramiel Harington era un tipo grande e grosso, muscoloso ma
allo stesso tempo atletico e dalla postura perfettamente eretta. Aveva la pelle
leggermente mulatta, gli occhi scuri ed il viso ormai da giovane uomo, con un
lieve accenno di barba sulla mascella squadrata. Tutto sommato era un ragazzo
attraente, ma al suo bell’aspetto compensava il suo pessimo carattere. Era
forse per questo che la Signora aveva deciso di mandare lei a parlarci: con la
violenza non avrebbero cavato un ragno dal buco, e nemmeno con la seduzione. Ci
volevano razionalità e gentilezza, e a questo Lizzie sperava di poter provvedere.
Ramiel stiracchiò le lunghe gambe, rivolgendole un sorriso
malizioso. “Oh, ma guarda. È tornata la terapista. Lasciatemi andare.”
Lizzie gli sorrise di nuovo. “Come stai oggi, Ramiel?”
“Bene, grazie. Starei ancora meglio se mi lasciaste andare.”
Lei si costrinse a mantenere il sorriso cortese. “E a me non
chiedo come sto?”
“Non me ne frega un cazzo. Lasciatemi andare.”
Lizzie fece un paio di respiro profondi, riuscendo in tal
modo a non vacillare. “Per favore, basta così; non accadrà.”
Era la sesta volta che andava a trovare quel semidio, e ogni
volta lui diventava sempre più fastidioso e irriverente. Veniva dal Campo
Mezzosangue, questo era certo: Anne Elizabeth non l’aveva mai visto prima
d’allora tra le strade di Nuova Roma – e un tipo così lo avrebbe notato di
certo –.
“Andiamo, dolcezza. Sono qui da quanto? Una? Due settimane?
Tutto ciò che ho per svagarmi qui dentro sono queste merdose riviste. Se
potessi uscire di qui, muovermi, fare a botte…”
“Questo non è possibile, Ramiel.” Lizzie accavallò le gambe,
agitando il piede di quella superiore, leggermente irritata dalla situazione.
Sei volte che entrava in quella stanza, sei volte che si ripeteva sempre la stessa, identica conversazione. Non sapere come andare avanti, come
riuscire nel proprio intento… era frustrante.
“Questo tizio è un
guerriero più che valido, Richardson,” le aveva detto Lorina la prima
volta, “portarlo dalla nostra parte è
indispensabile.”
“Perché?” aveva
domandato Lizzie.
“Lo capirai.”
“Non vedo perché no. Come non capisco perché mi abbiate
portato qui contro la mia volontà. Perché io non ho potuto scegliere come tutti
gli altri?”
Ramiel la fissò con i suoi grandi occhi color nocciola, le
sopracciglia di una tonalità di castano più scuro rispetto a quello dei suoi
capelli. Aveva ragione… le altre reclute venivano trattenute più per scrupolo
che per altro. Ma per i semidei come lui era diverso. Anche queste era una
domanda che già le aveva posto più e più volte. Oramai aveva la risposta
pronta:
“Perché la Signora ha esplicitamente chiesto il tuo
contributo. Lei non è irragionevole, perciò una volta svolto il tuo compito,
sarai ampiamente ricompensato.”
“E quale sarebbe, di grazia, il mio compito?,” il suo tono
era quasi canzonatorio, come se si fosse annoiato anche lui di quella
conversazione così ripetitiva e la stesse invitando a darle un po’ di pepe.
“Sai perfettamente cosa vogliamo da te, Ramiel. Possiamo
passare oltre? Come posso convincerti?”
Lui sembrò pensarci su un momento, poi scrollò le spalle e si
mise in piedi. “A questo punto mi faccio una pisciata.”
Lizzie si alzò in piedi di scatto, le guance in fiamme. “Non
abbiamo ancora finito!”
Il ragazzo si stava già sbottonando i jeans. “Non ti ho mica
chiesto di uscire. Che ne so, girati e tappati le orecchie, se proprio sei così
facilmente impressionabile.”
La semidea si voltò di spalle, il volto arrossato, ma non si
tappò le orecchie. Quando sentì il liquido colpire la ceramica del gabinetto,
strinse i pugni. “Volgare,” decretò.
Al di sopra del fastidioso rumore, Lizzie udì la voce
profonda del ragazzo: “Sono già tenuto qui come un animale in gabbia, ora devo
anche chiedere il permesso per fare una pisciata?”
“Sapevi che sarei venuto a quest’ora! Potevi farla prima.”
Sentì Ramiel riabbottonarsi i jeans, tirare lo scarico e
aprire il rubinetto del lavandino di fianco al gabinetto. Chi l’avrebbe mai detto! Un rozzo come lui che si lava le mani!
“Può girarti,” le disse, “e no, non potevo saperlo.”
Quando si rigirò, Lizzie vide che si era riseduto sul letto
sfatto e stava indicando l’orologio appeso al muro: non aveva più le lancette
ed il vetro era spaccato in due.
“Perché distruggi tutto ciò che tocchi?” disse lei ad alta
voce. Si mise una mano davanti alla bocca. Non era sua intenzione pronunciare
realmente quelle parole… guardò con preoccupazione il semidio e stava per
porgergli le proprie scuse, quando un sorriso quasi malinconico si formò sul
viso di lui.
“Me lo chiedo spesso anch’io.”
Ci fu un lungo silenzio. Lizzie si sentì terribilmente in
colpa. Come in un lampo, l’immagine della scheda informativa compilata a mano
del semidio le comparve davanti agli occhi: Ramiel
Harington, 20 anni, figlio di Ares e della mortale Paulina Harington, deceduta…
Ripensò istintivamente a suo padre, di cui non conosceva né
il viso né il nome, ai suoi genitori adottivi… ricordò inoltre quello che le
aveva detto Dancy, una delle ragazze greche che aveva avuto a che fare con
Ramiel in precedenza: “Formidabile,
questo è vero, ma una vera e propria bestia. Avresti dovuto vederlo combattere:
non c’è avversario che tenga. Persino il nostro Henry ha una ridicolmente bassa
possibilità di batterlo nel corpo a corpo.”
Come fa
ad essere così forte?
Glielo chiese, e Ramiel la guardò con fare serio ed
emigmatico. “Con la forza dell’amicizia.”
Lizzie lo guardò, stralunata. La forza dell’amicizia? Beh,
forse aveva senso…? “Davvero?”
Stava per domandargli altro, ma il semidio le scoppiò a
ridere in faccia. “Ma ti pare?!” la derise.
“E allora come?”
Ramiel scosse la testa, sogghignando. “Non vi rivelerò i miei
segreti. Ma ora voglio porla io a te una domanda, figlia di Venere.”
La conversazione stava prendendo una piega interessante. Finalmente. Un piccolo campanello di
allarme risuonò nella mente di Anne Elizabeth. “Come fai a sapere che sono
figlia di Venere?”
Ramiel si alzò dal letto, che emise un rumoroso cigolio, e si
mise a sedere sull’altra sedia a pochi palmi di distanza da lei. “Un bel
faccino come il tuo non può che appartenere alla progenie di Afrodite. E, dal
momento che sembri non conoscermi, deduco che tu faccia parte del gruppo maglie viola.”
“Non sono solo un bel faccino,” sbottò Lizzie, “e sono
fidanzata.” Si pentì un secondo dopo averlo detto. Quanto doveva essergli
sembrata stupida ed ingenua? Non era quello il suo compito; lei doveva apparire
forte, affabile, convincente. Come si
era ritrovata in quella situazione? Perché non era rimasta in silenzio? Oh, Adrian... tu sapresti cosa fare e cosa
dire, pensò di getto.
Quel fiume in piena di pensieri venne bloccato dalla risata
di Ramiel, che tuttavia sembrò non aver fatto caso alla sua ultima
affermazione. Tanti problemi per nulla.
“Questo è chiaro, perciò ti chiedo: perché non hai utilizzato
la Lingua Ammaliatrice per convincermi sin dal primo giorno?,” sembrava
genuinamente curioso.
“Potrei non avercela,” tentò la ragazza.
“Ne dubito,” replicò lui senza scomporsi.
A quel punto, Lizzie gli concesse quella piccola vittoria e gli
rispose, stando ben attenta a non lasciarsi scappare qualche informazione di
troppo. Esitò giusto per un breve istante. “Beh, vedi… sarebbe stato inutile.
Gli effetti della Lingua Ammaliatrice non sono infiniti, e lasciarti a piede
libero così instabile sarebbe stato controproducente.”
Ramiel annuì, facendole segno di aver capito con un lieve
“Mmh.”
Qualcosa scattò all’interno della ragazza. Quello… quello era il momento giusto! Aveva
tutta la sua attenzione, doveva solamente scegliere le parole giuste.
Si guardò intorno casualmente, facendo soffermare lo sguardo
sull’orologio rotto. “Io non capisco, sai?”
“Benvenuta nel club.”
Anne Elizabeth si concesse una risatina. “No, davvero. Non
capisco perché vi ostiniate a proteggere gli dei. Aspetta!” esclamò con urgenza
quando lo vide alzare gli occhi al cielo ed incrociare le braccia, “Non sto
cercando di convincerti, voglio solo capire. Insomma… perché rimanere fedeli
agli dei, quando tutto ciò che fanno è usarci e lasciarci morire mentre loro se
ne stanno da qualche parte sul quel Paradiso che è l’Olimpo a grattarsi la
pancia e a ridere di noi? Perché dovrei morire per loro, quando tutto ciò che
fanno è puramente a scopo egoistico? Non sono mai riuscita a capirlo.”
Ramiel rimase in silenzio, e Lizzie lo prese come un ottimo
segno. “Solo perché la Signora Anìa ha avuto la forza di ribellarsi adesso è
considerata il nemico. Non è giusto! Sai cosa le è successo? È stata scartata e
additata come diversa solo per il suo modo di essere, per il suo scarso potenziale. Essere messa da parte
così… è terribile, non trovi? E allora spiegami perché, Ramiel, spiegami; ci
sono tante cose che forse non comprendo, ma questa… questa proprio non la
capisco.”
Si rese conto di aver parlato a cuore aperto, riversando
nelle sue parole ogni suo più puro sentimento. Decidendo di seguire Anìa,
Lizzie era sicura di aver fatto la scelta migliore. Anche se gli dei non le
avevano mai fatto personalmente un torto, sentiva che quella era anche la sua
battaglia. Non poteva ignorare il disperato grido di aiuto della sua Signora,
non ci riusciva. Se in quel mondo popolato da dei ed esseri sovrannaturali non
esistevano giustizia ed equità, allora le avrebbero create loro. Un mondo migliore, diceva Anìa, un mondo che potremo governare in pace.
Tutti insieme.
Il ragazzo la guardò con un’espressione indecifrabile, la
schiena inarcata, gli avambracci posati sulle ginocchia aperte e le grandi mani
dalle dita callose intrecciate lasciate penzolare nel vuoto tra le due
giunzioni. “Quindi,” disse piano dopo qualche istante, “è così che speravi di
convincermi ad aiutarvi? Era questo il tuo ultimo grande discorso?”
Lizzie lasciò ricadere la schiena sullo schienale della
sedia, visibilmente sconfortata. Ma come
fa? Ho convinto così tanti ragazzi prima di lui… perché non cede? Come fa ad
essere così forte?
Dopo qualche istante, decise che rimanere non aveva più
senso. Si alzò, maledicendo la sua bassa statura per il poco contegno che lo
conferiva, e lo guardò con le mani sui fianchi. Gli occhi di lui sembravano
perforarla mentre raddrizzava quasi minacciosamente la schiena, ma lei rimase
stoicamente lì dov’era.
“Tu ci aiuterai, Ramiel Harington, volente o nolente. Ci sono
mezzosangue come te che dobbiamo necessariamente
portare dalla nostra parte: tu sei solo il primo,” fece un gesto ampio con la
mano, indicando la stanza distrutta, “vuoi davvero rimanere qui? Ancora? Ne
dubito. Unisciti alla nostra causa, Ramiel, accetta adesso… perché se non lo
farai, Anìa manderà qualcun altro a convincerti.
E fidati, non saranno pazienti come me.”
Detto ciò, Lizzie si diresse impettita verso la porta. Il
viso le andava a fuoco, non capiva se per la rabbia, l’imbarazzo generale o se
per la vergogna di aver pronunciato quelle parole così audaci. Proprio mentre
stava per posare la mano sulla maniglia, la voce di Ramiel la raggiunse.
“Per proteggere una persona…” era poco più di un sussurro, ma
Lizzie lo udì chiaramente.
“Stai cercando di distrarmi?,” gli domandò, esitante, “puoi
anche provare a fuggire, se vuoi, ma la barriera non ti permetterà di
allontanarti da qui.”
Ramiel si spostò dalla sedia al letto con studiata
tranquillità, incrociando le braccia dietro alla nuca e fissando il soffitto,
apparentemente con noncuranza. Ma Lizzie stava iniziando a capire. Allontanò la
mano dalla maniglia, rimanendo comunque vicino alla porta di metallo,
aspettando una risposta.
Il ragazzo mosse solo gli occhi, serio come non era mai stato
prima. “Mi hai chiesto come ho fatto a diventare forte,” puntualizzò,
continuando a guardare il soffitto.
Senza emettere un suono, Anne Elizabeth tornò a sedersi sulla
sedia.
Theresa disprezzava il freddo.
Dover indossare abiti così pesanti ed opprimenti quali
giacconi e sciarpe la rendeva nervosa ed irritabile. Quel giovedì di marzo,
poi, non faceva nemmeno così freddo.
Erano le quattro del mattino, il Sole non era ancora sorto e
le strade di Nuova Roma erano piacevolmente prive di gente. Theresa tenne
ugualmente testa bassa, cercando di mantenere la calma. Anche con le strade
deserte, si sentiva ugualmente oppressa, osservata. E lei odiava sentirsi così.
Tuttavia doveva concentrarsi, non poteva permettersi distrazioni, ne valeva
della sua vita. Le era stato detto che in quel posto ci vivevano dei fantasmi –
o meglio, i Lari – perciò doveva
comunque tenere un profilo basso, cercare di fare alla svelta.
Quella mattina, grazie all’aiuto di un complice dall’interno,
era riuscita a far breccia, indisturbata, nel sistema di sicurezza magico di
Nuova Roma. Non era stato difficile: grazie alle lezioni di Circe, era stato
piuttosto semplice celare la proprio identità con un semplice ma efficace
incantesimo. Si leccò le labbra, pregustando la dolcezza di ciò che sarebbe
accaduto di lì a poco. La vendetta è dolce, le avevano detto, e finalmente, finalmente, sarebbe stata in grado di
provarla. Quel che stava per fare andava contro gli ordini diretti di Anìa,
colei che aveva momentaneamente deciso di seguire, ma come poteva lasciarsi
scappare un’occasione simile? Controllò nuovamente la mappa della città, per
poi ricacciarsela nella tasca del giaccone. Un fremito le percorse la spina
dorsale. Era così impaziente… ma
prima aveva un piccolo compito da svolgere.
Incontrò James Wilmington al punto prestabilito, in un vicolo
particolarmente isolato nei pressi di una comune panetteria. Alla sola idea di
dover unire le forze con quel maschio
le si accapponava la pelle. James era un tipo dall’aria austera e posata, gli
occhi scuri e i capelli corti da bravo soldatino qual era. O almeno, quale
sarebbe dovuto essere.
Un’espressione tagliente si modellò sul viso di Theresa.
“Traditore,” lo apostrofò, “hai qualcosa per me, oltre ad una pugnalata alle
spalle?”
James sembrava nervoso. Theresa poté percepire la sua ansia,
mentre si guardava attorno e frugava nel suo zaino. Tirò fuori un paio di
normalissimi quaderni, di quelli tutti colorati per i bambini delle elementari.
I
registri, capì Theresa, afferrando bruscamente i quaderni e
controllandone velocemente il contenuto, strizzando gli occhi per abituarsi al
buio. In quei quaderni, vi erano tutti i nomi e le discendenze divine dei soldati
romani. Anìa le aveva raccomandato di prenderli e tenerseli stretti; c’erano
ancora tanti ragazzi da reclutare. Theresa li infilò velocemente nel proprio
zaino, guardando con la coda dell’occhio il ragazzo romano.
Si risistemò lo zaino in spalla. “C’è un’altra cos-“
“Sono stato bravo?,” la interruppe lui, la voce ricolma di
urgenza e… speranza? Theresa lo guardò con disgusto.
“Come dici tu, sì. Ora stammi a-“
“Posso andare dalla Signora, adesso? Non posso più sta-“
Con un movimento repentino, Theresa estrasse uno dei coltelli
che aveva nella cintura. Preferiva di gran lunga la balestra, come arma, ma
quel ragazzo la stava irritando. “Stammi a sentire ora,” sibilò, “non me ne
importa un cazzo di dove vai o cosa fai, è chiaro? Ora dimmi dove posso trovare
Will Collins*, figlio di Nike. Ho saputo che si è trasferito qui dopo la
guerra, anni fa.”
James si irrigidì e le afferrò il polso all’istante, senza
tuttavia torcerglielo. Che idiota,
pensò, potrei ucciderti qui, all’istante.
Chi mai piangerebbe la morte di un traditore?
“Will Collins…” rifletté il ragazzo ad alta voce, spostando
lentamente la mano armata di Theresa, mentre intanto la semidea aveva già
afferrato un altro coltello con l’altra mano e glielo stava lentamente portando
alla gola.
James sospirò. “La mappa.”
Theresa gli fece segno con lo sguardo di prendersela da solo,
troppo impegnata a puntargli due coltelli contro. No, non si fidava proprio dei
traditori.
“Abita qui,” le disse, indicando una via non lontana dal
College. Solo in quel momento sembrò realizzare. I suoi occhi neri come
ossidiana si indurirono. “Perché hai bisogno di saperlo?”
“Questi sono solo affari miei,” replicò seccamente lei.
“Non-“
“E la casa dei Jackson? Dimmi, dov’è la casa dei Jackson?”
James impallidì. Sembrò realizzare solo in quel momento ciò
che aveva fatto. Scattò verso di lei, le mani alzate come per placcarla, ma
Theresa fu più rapida: con un unico, fluido movimento gli conficcò uno dei
pugnali dritto nello stomaco.
Le spalle di James si contrassero, poi si afflosciarono e si
contrassero di nuovo. Ebbe qualche spasmo di dolore, ma riuscì ugualmente a
trovare la forza di afferrarle i polsi, insozzando con il suo lurido sangue il
cappotto di Theresa. “Avevamo un accordo… io e Anìa…” le affondò le unghie
nella carne della mano, piegandosi in due sempre di più: il veleno sul pugnale
stava facendo effetto.
“Hai ragione,” disse bruscamente Theresa, estraendo il
coltello e separandosi dal ragazzo con uno strattone, facendolo ruzzolare per
terra, “l’accordo era fra te e Anìa, non fra te e me. Ora guardati, a morire in
un sudicio vicolo… sudicio quasi quanto te.”
James cercava di fermare il sangue con le proprie mani, ma le
forze gli stavano venendo man mano meno, sia per l’emorragia che per il veleno
di cui era intrisa la lama. Il veleno di
Medea.
“Vuoi sapere una cosa?,” fece Theresa, accucciandosi di
fronte a lui, pochi centimetri che li separavano; James riuscì a stento ad
alzare una mano e portargliela al collo in un patetico tentativo di
strangolarla, “non provo pietà per te. Sei la peggior specie di traditore, di
quelli che prima si fingono amici e poi ti pugnalano alle spalle. E se anche tu
fossi una spia del Pretore, cosa di cui dubito… avresti infranto l’accordo che
hai fatto con Anìa.”
A questo punto, Theresa aveva già mandato a farsi benedire il
voler essere cauta. Questo… questo la stava facendo star bene. Vedere una vita
afflosciarsi lentamente e spegnersi a causa sua… la vita di una persona così
miserabile e disgustosa, per giunta… sì, le piaceva. Le piaceva giocare a fare
la dea, un’entità abbastanza potente da poter decidere per le vite altrui.
Quando James smise di respirare, Theresa riprese a vivere.
Anìa le aveva promesso giustizia, e giustizia avrebbe avuto; le aveva promesso
equità, ed eccola lì, di fronte a lei. Una scarafaggio che moriva come uno
scarafaggio, in uno sporco vicolo a contorcersi per il dolore, impotente e
indifeso a causa delle sue scelte sbagliate. Ma era stato tutto rapido, troppo
rapido...
Erano ormai le quattro e mezza del mattino quando finalmente
raggiunse casa Collins. James l’aveva lasciato lì dov’era. Le persone si
preoccupavano forse di seppellire gli insetti? No. O almeno, non le persone
normali: d’altronde Theresa si reputava una ragazza semplice che seguiva la massa,
a modo suo. Se anche l’avessero trovato, che importava? Chi mai avrebbe pianto
per lui, il più infimo dei vermi traditori?
Si nascose nell’ombra. Presto,
pensò caricando la sua balestra, un gran sorriso sulle labbra, presto giustizia sarà fatta.
Con il cappotto sporco di sangue, le mani intorpidite dal
freddo ed incrostate di sporcizia e un’arma letale fra le mani, Theresa non era
mai stata così entusiasta. Prese lo specchietto che portava sempre con sé,
controllando la sua immagine riflessa. A restituirle lo sguardo fu, come al
solito, un orrido mostro. Maledetta
puttana, pensò, me la pagherai.
Rimise lo specchietto in tasca, imbracciando nuovamente la
balestra.
“Ricorda
per cosa combatti.”
“Notizie su una fonte magica in Georgia sono giunte a noi un
paio di settimane fa; c’è la possibilità che si tratti di un semidio.”
Mal si guardò intorno, studiando le reazioni del gruppo
appena stato convocato. A parlare era stato Edward, un lentigginoso figlio di
Vulcano dagli occhi verdi e i ricci rossicci. Mal ci aveva parlato solo un paio
di volte: lo trovava un tipo un po’ strano, ma tutto sommato timido e
facilmente influenzabile. Un bravo ragazzo, insomma. In quel momento, era
seduto a capotavola, le mani intrecciate sul piano davanti a lui e gli occhi
dardeggianti. Sembrava stesse cercando aiuto, in particolare dal ragazzo seduto
di fianco a lui: Jaime Rivera, figlio di Venere.
Jaime aveva un’espressione indecifrabile. Mal aveva avuto
modo di conoscerlo superficialmente, tre settimane prima: era un bel ragazzo,
alto e slanciato, capelli folti e scuri legati in un codino alto e viso
cosparso di lentiggini. Un tipo tranquillo, ma che Mal non riusciva a
comprendere. Percepire le aure era una delle sue abilità, e quella di Jaime…
era particolare… affollata, le veniva
da dire, ma non capiva bene perché. Era da un po’ di tempo che aveva intenzione
di avvicinarsi al ragazzo per poter capire.
Affollata, confusa, sbilanciata…
Cinque semidei erano seduti a quel tavolo rettangolare,
situato in una piccola sala adibita ad aula del consiglio. La Signora preferiva
starsene chiusa nelle sue stanze, mostrandosi raramente ai suoi sottoposti.
Edward, a quanto pareva, era stato uno dei pochi fortunati a poterla vedere in
volto. Non gli andava di parlarne, questo era palese.
“La… uhm… Signora dice di aver bisogno di noi. Dovremo andare
a controllare, presto o tardi,” fece una breve pausa, ponderando per bene le
parole, “ha scelto personalmente il gruppo, la partenza è prevista entro un
paio di giorni, salvo imprevisti.”
“Perché proprio noi?,” domandò Mary Price, figlia di Pomona.
Tutti gli occhi si puntarono su di lei. Mary era una bella ragazza, dai lunghi
capelli castani e le ciglia lunghe; era chiaramente sovrappeso, ma, non
considerando alcuni dei soliti imbecilli, nessuno aveva mai osato prenderla in
giro.
Edward aveva la risposta a quella domanda, e fu ben felice di
esporla. “La Signora sostiene si tratti di una fonte naturale, forse legata a
qualche spirito della natura: ecco perché sei qui, Mary. Pomona è legata alla
natura, quindi sarai probabilmente in grado di aiutarci. Mallory, ecco…” esitò
qualche secondo prima di parlare. Mal non ci fece particolarmente caso,
abituata com’era agli sguardo di disagio degli altri. Quando finalmente trovò
le parole giuste, Edward riprese a parlare: “con ogni probabilità sarà presente
una barriera, perciò tu avrai il compito di eliminarla. Sei molto brava in
questo genere di cose.”
Mal apprezzò il tentativo, ma la sua espressione non cambiò.
Si limitò a ricambiare lo sguardo del figlio di Vulcano, osservandolo bene in
viso mentre lui distoglieva lo sguardo, chiaramente a disagio. Edward aveva
delle labbra molto carnose, quasi innaturalmente grosse. Il viso era magro, ed
era ricoperto di lentiggini, probabilmente dalla testa ai piedi. Mallory lo
osservava spesso, lo capiva: quel suo sforzarsi di essere empatico, di
comprendere gli esseri viventi come comprendeva le macchine… in un certo senso,
Mallory si rivedeva in lui.
“Jaime è molto abile con la spada, ed è bravo a maneggiare la
balestra,” continuò il semidio, questa volta il suo tono pratico e monocorde
alleggerito da una punta di calore. Mal fece saettare lo sguardo sul figlio di
Venere, che aveva accennato un lieve e modesto sorriso e si stava toccando la
nuca con una mano. Mal socchiuse gli occhi. Affollato.
Confuso. Sbilanciato.
“Per quanto riguarda Henry…”
Edward guardò con esitazione il figlio della dea della
persuasione Peito, all’altro capo del tavolo, isolato, con la i gomiti poggiati
sul piano e il viso fra le mani, l’aria assonnata e terribilmente annoiata, i
corti riccioli scuri che gli ricadevano sulla fronte placidamente. I suoi
magnifici occhi azzurro chiaro erano puntati nel vuoto. Mallory percepiva noia,
indignazione, sconforto… e rabbia, tanta rabbia. Sembrava un dio greco
vendicatore, un tremendo Apollo pronto a scoccare le sue letali frecce portando
caos e punizioni, seguendo il suo distorto senso di giustizia. Tutti i presenti
avevano cercato di ignorare la sua presenza fino a quel momento, il fastidio
generale palpabile.
Nessuno proferì parola per lunghissimi istanti.
“Henry non ci vuole
venire,” disse lui, continuando a guardare nel vuoto, “portatevi dietro quella
megalomane di Lorina o, che so, quella palla di merda di Simon Gregory.”
Mary si irrigidì, ma non osò dire nulla.
Mallory rimase immobile sulla sua sedia, facendo da
spettatrice. Anche Edward tornò a sedersi, sbuffando sonoramente, esasperato. “Henry…”
Henry si tirò si alzò in piedi, ringhiando minacciosamente.
“Mi state facendo perdere tempo. Questa è una missione per idioti. Non ho
alcuna intenzione di farmi una penosa gitarella con questo gruppo di sfigati.
La Signora ha grandi piani per me.”
Inaspettatamente, Jaime Rivera si alzò di scatto, battendo i
pugni sul tavolo, un ghigno provocatorio sul volto. Sembrava quasi essere
un’altra persona. E la sua aura, poi…
“Ma chi ti credi di essere?! Stammi bene a sentire, casse
coullies, non abbiamo intenzione di
perdere tempo dietro al tuo culo viziato! Quindi vedi non farci perdere tempo e
fa’ quello che ti è stato ordinato, bouffon.”
Mal sentiva la testa girarle. Non conosceva bene Jaime, ma
era abbastanza sicura che il ragazzo non avesse mai avuto quel marcato accento
francese. Jaime batté le palpebre velocemente, ora sembrava essere arrabbiato
con se stesso. No, non con sé stesso…
Affollato.
Edward scattò al fianco di Jaime, ma Henry fu più veloce.
Come un cane rabbioso, si lanciò sul tavolo lo afferrò per il maglione e gli
tirò una poderosa testata. Jaime cadde ed Henry gli piombò addosso, iniziando a
colpirlo.
Confuso.
Mary urlò e inciampò nella sedia nel tentativo di alzarsi
alla svelta, Edward… beh, Edward, preso dalla foga e preoccupato per il suo
amico, afferrò una sedia e la spaccò dietro la schiena di Henry, che urlò dal
dolore e si accasciò solo per pochi istanti.
Sbilanciato.
La porta della Sala si aprì lentamente, e il viso paffuto
della quattordicenne Valerie Kingstone spuntò da dietro il legno massiccio. “Ho
sentito urlar-“
“VA’ FUORI,” le urlarono all’unisono i tre ragazzi, Mary che
correva fuori dalla porta e trascinava via con sé la ragazzina, Mallory ancora
seduta sulla sua sedia. Continuava a osservare la scena con un certo interesse,
talvolta chiudendo gli occhi. Tre presenze, ora quattro, ora di nuovo tre… ora
una in più, diversa da quella precedente.
Decise di averne abbastanza. Una lieve luce purpurea scaturì
dalle sue piccole mani, creando una sorta di corde di energia luminosa. Con un
veloce movimento, Mallory scagliò le catene in direzione di Henry,
incatenandolo e gettandolo a pancia all’aria sul pavimento, la nuca che batteva
rumorosamente. Con un altro veloce movimento delle dita, sollevò il tavolo e lo
scagliò contro il muro, creando una debole barriera fra Henry e gli altri due
ragazzi. Tutti e tre avevano il fiatone. Il bel viso di Jaime era sporco, il
labbro gonfio e il naso grondante di sangue. Edward sembrava essersela cavata
meglio, avendo riportato solo qualche livido.
Le spalle di Jaime erano basse, come se fosse stanco… o come
se si vergognasse di qualcosa.
Mallory lo guardò per un lungo istante. Tre. Poteva percepire
tre presenze, oltre alla sua, in quella stanza. Quella che aveva percepito prima…
non c’era più. Svanito nel nulla. Poof.
Come era possibile? Cosa stava succedendo. Si rese conto di aver sempre sentito
quella strana sensazione, quando Jaime era nei paraggi, ma ora… ora era
genuinamente curiosa.
“Andate a cercare qualcuno che possa rimettervi in sesto,”
disse, atona.
“Non possiamo lasciarti da sola con lui,” tentò Edward. Il suo tono era più pratico che realmente
preoccupato. Sembrava stesse sottintendendo qualcosa come tu rimani, lui ti ammazza o cose del genere.
“Me la caverò,” assicurò Mallory. Non fare finta di essere preoccupato per me, avrebbe voluto
aggiungere, ma si trattenne.
Dopo qualche secondo di esitazione, sia Jaime che Edward si
congedarono, parlando a bassa voce tra di loro, le teste vicine. Mallory li
guardò andare via, poi rivolse la sua attenzione ad Henry.
Il semidio sembrava aver perso i sensi, perciò Mallory decise
di sciogliere l’incantesimo. Le braccia di Henry, non più costrette dalle corde
magiche, ricaddero mollemente sul pavimento con un lieve tonfo. Mal gli si accucciò vicino,
scostandogli i riccioli dalla fronte, gli toccò la guancia ispida di barba, la
mascella, gli zigomi.
Lo schiaffeggiò. Forte. Avrebbe potuto usare un incantesimo
revitalizzante… ma voleva davvero sprecare le sue energie per un individuo del
genere? Per colui che, avendo vissuto al Campo con lei, aveva sparso in giro
voci sulla sua discendenza anche lì, condannandola ad una permanenza triste e
solitaria?
Lo schiaffeggiò di nuovo, stavolta sull’altra guancia.
Henry non si svegliò.
Ah beh, pensò
scrollando le spalle e rimettendosi in piedi, guardandolo dall’alto, anche se dovessi morire, poco
male, non mancherà a nessuno.
*la creatrice del personaggio non ha specificato il cognome,
perciò mi sono arrangiata.
Casse coullies: rompi coglioni
Bouffon: buffone
Ciao a tutti!
Scusate
per l’assenza, di nuovo, ma sono
stata davvero molto impegnata. Spero che il capitolo sia di vostro gradimento.
È un
capitolo un po’ più corto, non ho nemmeno presentato tutti i personaggi! Ho pensato di prendermela con comoda. I cattivi sono personaggi molto complessi e
molto più complicati da scrivere (ma è questo il bello no?)
Cosa ne
pensate di questi nuovi personaggi? E della sorte del povero James? Sentiremo
ancora parlare di lui, tranquilliii
Spero di
riuscire ad aggiornare presto!
Baci,
-sun