Caro
lettore,
prima
di immergerti nella lettura di questo capitolo, ti consiglio di rivedere le
parti in corsivo del capitolo 6: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3821421&i=1.
Grazie
e buona lettura!
Capitolo
12
Ebrea
per un quarto
Seconda parte
- Nel mare verde dei tuoi occhi -
“Alla fine, ai
miei occhi tu eri destinata.”
Pablo Neruda
12
febbraio 1944
Sarah
aveva smesso di piangere. Tutti nel treno, stretti come sardine, erano stanchi
e non versavano più lacrime. I bambini, assieme ai quali era stata arrestata,
dormivano, mentre don Franco pregava sommessamente, in un frenetico movimento
di labbra, senza rosario, spezzato e perso durante la colluttazione in chiesa
da quelli che non avevano alcun dio da temere.
“Dove
ci portano?” gli aveva domandato Sarah, conoscendo già la risposta e, intanto,
guardò uno dei bambini più piccoli, chiedendosi cosa avrebbe mai fatto un
bimbetto come lui in un campo di lavoro forzato in Germania.
Li
avrebbero uccisi tutti, come aveva detto suo fratello prima di andar via, e a
confermarglielo era stata la risposta di don Franco, priva di una qualsiasi
illusoria speranza: “Prega, figliola, prega.”
Si
sentì attanagliare il petto da una morsa di paura e rassegnazione, mentre il
sovraffollamento e la puzza nel treno, destinato in realtà al trasporto di
animali, diventavano sempre più opprimenti. Poi, anche lei, un po’
per stanchezza, un po’ per evasione, chiuse gli occhi e si ritrovò bambina, a
correre sulla spiaggia di Santa Marinella, inseguita da suo fratello.
Era
il ricordo della loro unica vacanza al mare. Poteva ancora sentirne gli odori,
vedere i suoi piedi immersi nella sabbia, udire le risate di suo fratello e le
proprie.
Non
avrebbe mai più rivisto il mare, suo fratello, i suoi genitori. Sarebbe morta
lontana dai suoi cari, in una terra straniera e ostile, più dell’Italia,
nell’inferno di un campo che, probabilmente, non era soltanto di lavoro forzato,
senza mai conoscere l’amore, senza che il suo grembo conoscesse mai il battito
di una vita. I sogni che coltivava sin da bambina si erano infranti,
decomponendosi in fretta e rilasciando lo stesso puzzo che imperava nel treno,
spirando tra i gemiti di persone innocenti condannate a morte e gli strepiti di
un vagone fatiscente.
“Sarah!
Sarah! Svegliati!” fece l’anziano sacerdote, scuotendole un po’ il braccio.
Sarah
aprì gli occhi, confusa, scarmigliata e, come tutti gli altri, balzò in piedi.
Il treno si era fermato.
“Vieni
a vedere, Sarah!” proseguì don Franco, con voce di concitata euforia,
invitandola a guardare attraverso una fessura del vagone. “Il Signore ha
ascoltato le nostre preghiere: siamo ancora in Italia!”
Un
raggio di sole sembrò illuminare il cartello della stazione di Carpi, facendolo
brillare di mille colori, mentre una voce maschile dal tono pacato e dalla
dizione impeccabile, rivolgendosi proprio all’anziano sacerdote, disse: “Qui
vicino c’è un campo di concentramento italiano con personale italiano.
Sicuramente rimarremo lì fino alla fine della guerra. Ormai manca poco.”
Gli
occhi di Sarah, che continuavano a fissare il cartello attraverso la fessura,
si velarono di commozione.
“Hai
sentito, Sarah?” fece don Franco, anche lui palesemente commosso, ponendole una
mano sulla spalla. “Possiamo ancora sperare.”
Ma
le porte del treno furono aperte con violenza da quelli che non erano soldati
italiani.
E
i tedeschi urlavano, un po’ nella loro lingua e un po’ in un italiano stentato,
spingevano, strattonavano, picchiavano e aizzavano i loro cani ad abbaiare rabbiosamente
contro i malcapitati. Era forse come quella di Fossoli l’accoglienza
all’inferno?
Durante il breve tragitto in camion, il volto di don Franco si era corrugato in un’espressione preoccupata e impaurita che non aveva più cambiato, i bambini erano sempre più stremati e insofferenti, mentre Sarah continuava con fatica ad aggrapparsi al conforto di essere ancora in Italia.
Si
sentì piccola piccola tra le baracche di un campo che le sembrò grande quanto
un’intera città, ancor più fragile nella confusione di una moltitudine di
persone disorientate, spaventate, maltrattate da soldati crudeli che sembravano
più grossi di quello che in realtà erano.
E,
davanti a lei, un tedesco, con indosso una divisa diversa dagli altri, colpì
con il frustino un uomo, per poi strattonarlo con violenza. L’uomo rischiò di
inciampare, ma a cadere fu lei. Le mani di Sarah sprofondarono nel terreno
fangoso e, per un soffio, non sfiorarono gli stivaloni neri dell’ufficiale. In
quei pochi e interminabili secondi, poté sentire i battiti accelerati del
proprio cuore, che pulsava forte contro la terra sulla quale era distesa, e il
respiro farsi più corto e affannoso. Quasi volle piangere,
non per il dolore della caduta, ma per la paura di ciò che le sarebbe accaduto,
una volta rialzatasi.
Prima che don Franco potesse porgerle una mano per aiutarla, Sarah si fece forza sulle braccia e sulle ginocchia indolenzite e, tremante, si rialzò lentamente. La prima cosa che vide, alzando un po’ lo sguardo, furono due spalle larghe su di un corpo alto e imponente. Ma non le arrivò nessuno schiaffo, nessun colpo. Impaurita e confusa, osò alzare ancor di più lo sguardo e s’imbatté in due occhi verdi, le cui sfumature le ricordarono i colori del mare che aveva rivisto in sogno.
Un
breve scambio di sguardi e gli occhi di Sarah, come distese di grano tra le
mani del vento, s’incrociarono con le profondità oceaniche di quegli occhi
smeraldo. Il viso cereo e severo dell’ufficiale, per un attimo, sembrò
addolcirsi e anche la sua postura, fiera e sprezzante, andò rilassandosi.
L’inferno non doveva essere poi così terribile, se chi ne era a comando
possedeva quegli occhi e aveva avuto pietà di lei.
“Sulla terra io
e lei,
eravamo amanti e
stranieri io e lei.
Io e lei,
eravamo il mare
e la terra io e lei.
Dimenticando il
tempo,
né ieri né
domani.
Io e lei,
sulla terra io e
lei.”
Riccardo
Cocciante, Sulla terra io e lei