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Autore: CherylBBlaire    14/08/2019    0 recensioni
Chiara è una giovane ragazza timida al suo primo giorno di Liceo. Non ha mai provato alcun interesse per i ragazzi, ma tutto sta per cambiare: la nuova vita, i litigi con le vecchie amiche e la conoscenza dei nuovi compagni di classe la porteranno a scoprire una nuova Chiara dietro al fragile muro della timidezza. Il cambiamento culminerà con l'incontro con Lorenzo, un giovane apparentemente scontroso. I due saranno inghiottiti da un vortice di sentimenti, amore e sesso che li porterà a scoprirsi l'un l'altro e conoscere se stessi.
Attraversando cambiamenti, litigi, problemi familiari ed ex che ritornano, non resterà che una domanda da porsi: che ne sarà di loro?
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Threesome | Contesto: Contesto generale/vago
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Parte prima
Un nuovo inizio
 
1.
 
Il sole si affacciava già all’orizzonte, timidamente; facendosi largo tra i mille rami del bosco vicino a casa sua, colorava le poche nuvole nel cielo di un rosso acceso, rendeva qualcosa di così celestiale simile alle caduche foglie terrene, tremule nell’ultimo attimo di vita sul tramontare dell’estate. Nonostante questo, lei si sentiva piena di vita; un cuore palpitante in un corpo ancora troppo giovane, che non aveva mai conosciuto il vero dolore, sebbene a 14 anni ci si senta già vecchi ed esperti.
La notte le era parsa eterna. L’aveva trascorsa ripensando a tutto ciò che stava lasciando, preoccupata e ansiosa di vivere un nuovo inizio.
Non erano ancora le 7 ed i suoi occhi erano spalancati ormai da ore. Ripensava al periodo delle medie, di certo il più bello sino a quel momento. Poteva ancora sentire le loro voci, quelle delle sue inseparabili amiche, ormai ex. Solo tre anni prima aveva dormito a casa di una di loro; lo ricordava come se fosse accaduto ieri: Anna, Beatrice, Ginevra e lei, vicine nel letto matrimoniale per un pijama party, al caldo, mentre fuori nevicava; avevano giurato che non si sarebbero mai lasciate: “amiche per sempre” aveva esclamato Bea. Promesse al vento, perse nel buio di una notte lontana, morte, ma al tempo non poteva ancora saperlo; sembrava tutto così vero, tutto così possibile. Sorrise riportando alla memoria quel ricordo sepolto da tempo; un momento di gioia, di risate cui aveva fatto seguito un litigio senza esclusione di colpi e di pugni sotto la cintura, tra ragazze, ce ne sono sempre troppi. Era stata proprio lei, Bea, la stessa persona che aveva dato vita a quella promessa eterna, ad infrangerla, a dimostrare che tutto è infinito, finché non finisce. E per cosa? L’unica ragione per cui si è disposti a fare follie: l’amore. Era vero amore? Chi poteva dirlo? Forse era soltanto voglia di avere qualcuno tutto per sé, necessità di soddisfare un bisogno di protezione. Così aveva finito per diventare la tipa di Andrea, un ragazzo più grande di tutte loro di un anno. No, non poteva esserlo. L’amore aggiusta e non rompe, unisce e non divide. Evidentemente Andre, come l’avevano soprannominato Bea e Gine, non era un vero principe azzurro. Distesa nel letto, si chiese come erano potute arrivare quasi a mettersi le mani addosso quelle sue ex amiche. Sentì lo stomaco contrarsi ed il dolore salirle fino agli occhi, fino a trasformarsi in lacrime calde, che sfregiavano il suo tenero viso. Doveva accettare di averle perse, forse per sempre. Si concentrò di nuovo sui ricordi che affioravano, nell’impossibilità di scacciarli, quasi loro prigioniera. Durante quel pijama party, in una fredda notte d’inverno, avevano parlato di lui, di quanto fosse bello, così tanto, che poco più sarebbe stato intangibile. L'aveva visto per la prima volta Ginevra, nei corridoi della scuola, quando ancora frequentavano la prima media, ed era rimasta imbambolata, persa nei suoi sogni, dai quali era stata bruscamente risvegliata quando lui aveva alzato lo sguardo, forse sentendosi osservato, e si erano guardati per un fugace, interminabile istante. Era arrossita tutta, abbassando gli occhi e correndo via. Sentiva la pelle del volto caldissima, credeva che di lì a poco avrebbe potuto prendere fuoco. Alle sue amiche ne avrebbe poi parlato qualche giorno dopo, dicendo di essersi innamorata di lui, del suo sguardo profondo, del suo viso dolce. Avrebbe voluto far vedere a tutte quante “l’amore della sua vita, la persona con cui avrebbe avuto dei figli un giorno e con cui si sarebbe sposata”. Quello fu l’errore più grande. Durante un intervallo, mentre erano tutte insieme, lo vide apparire. Gine si fece subito tutta rossa e bisbigliò qualcosa, che doveva essere un invito alla altre a voltarsi. Purtroppo Beatrice si girò e capì cosa provava la sua amica per Andrea, ma cercò di nasconderlo al mondo.
Quanti ricordi di un passato che pareva così vicino, eppure così lontano. Con una lacrima che le segnava il viso come una ruga destinata a sparire, si girò nel letto sfatto, fino a mettersi su di un fianco. A lato della testiera c’era un piccolo comodino e sopra di esso uno dei ricordi più belli dei tempi delle medie: il libro “nomi e significati”, che le riportò alla mente l’ennesimo momento di risate che avrebbe solo finito per trasformarsi in un nuovo dolore. La ributtò di nuovo a tre anni prima, qualche giorno dopo aver visto Andrea. Era il suo compleanno e lo passò con le sue amiche del cuore. Il pijama party era ancora lontano da venire e Bea non aveva ancora mostrato i segni che le aveva lasciato quell’incontro con, come diceva Gine, “l’amore della mia vita”; a ben ripensarci, però, sussultava tutte le volte che lo sentiva nominare, ma nessuna se ne accorse, finché non fu toppo tardi. In quell’occasione le avevano regalato il libro dei nomi, tutte e tre insieme, da buone amiche come erano. Trascorsero la sera a leggerlo e divertirsi, ma ben presto giunsero ad Andrea. Annì lo lesse ad alta voce: -qui c’è scritto: “uomo virile, forte, coraggioso e indomito”-, poi si lasciò sfuggire un -certo che “l’amore della tua vita” non è solo bello…-. Scoppiarono a ridere in coro, mentre Ginevra arrossiva. Erano troppo distratte per accorgersi che non fu l’unica.
Ancora nel letto, il tempo pareva non trascorrere mai, mentre le medie erano volate. Era prigioniera di questo vortice di ricordi, che come un uragano non faceva altro che scagliarla da una parte all’altra del tempo: dal palpitante presente fino ad un dolce passato, senza la possibilità di dimenticare l’immenso dolore nel mezzo. Quando tutte quelle risate si erano trasformate in stridule urla di accusa? Erano dovuti trascorrere quasi due anni dal pijama party. Bea era sempre più strana, mentre Gine sempre più triste, poiché il suo amore, infatti non aveva mai smesso di esserlo, aveva iniziato una nuova vita al Liceo. Non l’aveva più rivisto dall’ultimo giorno dell’anno scolastico passato e, ora che erano finite le vacanze, le mancava come non mai. Nonostante non vi avesse mai parlato, vederlo nei corridoi le dava un senso di pace, di sicurezza. Uno sguardo di nascosto era sufficiente a farla infiammare, fino a farla diventare paonazza, fino a lasciarla senza alcun contatto con la realtà, dispersa in un mondo di sogni e speranze, che come il più arido dei deserti non faceva altro che inghiottirla e trattenerla con i suoi vani miraggi di una futura vita con lui. Un giorno uguale a tutti gli altri, ordinario e noioso, si sarebbe trasformato nel migliore e al contempo peggiore: un amore ritrovato e subito dopo perduto. Stavano uscendo tutte e quattro insieme, fianco a fianco, finché, superati i cancelli della scuola, non sentirono Bea lanciare un gridolino di terrore e sparire alle loro spalle. Si voltarono insieme. Gli occhi di Gine splendettero di nuovo di un azzurro vivo, come ormai non accadeva più da tempo, per poi ingrigirsi e spegnersi per sempre: rivide l’amore della sua vita che si stagliava in tutta la sua bellezza e sorrideva, ma non a lei, e baciava delle morbide labbra, ma non le sue. Bea aveva preso il suo posto e si raggomitolava tra le sue braccia, come per non lasciarlo mai più, come se fosse il suo prezioso tesoro, il suo ossigeno. In quel giorno ci furono solo lacrime, ma non era altro che la calma prima della tempesta. La mattina successiva, le due amiche si affrontarono: una cercava di scusarsi e di spiegare, ma l’altra voleva solo vendetta. E così vennero infrante tutte le promesse, così Bea tradì colei che di più le voleva bene. Non tornò mai indietro, anzi, divenne sempre più distaccata, come se le medie non le appartenessero più, come se ormai lei ne vivesse al di fuori, con l’amore della sua vita, Andrea.
Guardò il display del suo telefono; erano appena le 7:10 e la sua sveglia non sarebbe suonata prima di mezz’ora. Distesa nel letto, al dolore si sostituì la rabbia: come poteva Bea essere stata così egoista da abbandonare le sue migliori amiche e addirittura ferirne una? Le tornò di nuovo alla mente il compleanno, il libro, quando avevano letto di Beatrice: -adesso voglio sapere cosa dice su di me!- aveva esclamato, incitando qualcuna a leggere. Subito Annì, che aveva assunto dall’inizio della serata quell’incarico, fece scivolare le pagine tra le sue dita, fino a trovare il nome: -a quanto pare tu sei una ragazza “che rende beati”- aveva detto con voce interrotta dalle risate.
-Certo che sì, chi più di lei mi rende beata quando siamo insieme?- era intervenuta Gine, stringendola in un abbraccio fraterno come non ce n’erano più da quasi un anno. Ora, a ripensarci bene, qualcuno beato l’aveva reso di sicuro e chissà in quanti modi e quante volte…. Interruppe bruscamente i suoi pensieri. Non poteva credere a cosa era stata in grado di pensare; ne rimase stupefatta e attonita. Se avesse detto qualcosa del genere di fronte a sua madre, avrebbe probabilmente sentito le solite parole: “mi raccomando, lascia che le tue amiche si rovinino pure, tu invece fai ciò che è adatto alla tua età e lascia stare quei ragazzi, da te vogliono solo una cosa.... Arriverà poi il giorno, quando sarai più grande, in cui troverai l’uomo giusto per te, ma non per ora”. Non aveva mai guardato i ragazzi. Forse qualcuno le era piaciuto un tempo, ma non si era mai sentita attratta da loro, non aveva mai cercato nulla in più di un’amicizia. Aveva trascorso le medie con le sue amiche e tutte erano d’accordo sull’argomento; sapeva che Gine non sarebbe mai andata oltre al parlare di Andre, ma non ne era più così certa. Fino ad un anno prima, infatti, sarebbe stata disposta a giurare che fosse lo stesso anche per Bea.
Si rigirò di nuovo nel letto, libera finalmente dai fantasmi del passato, ansiosa e vogliosa di iniziare la sua nuova vita, di lasciarsi alle spalle gli accadimenti dell’ultimo anno. Chissà come era il Liceo, chissà se davvero tutti volevano solo una cosa da quelle come lei, chissà che cosa avrebbe fatto se le fosse capitato di innamorarsi seriamente…. No, questo lo escludeva. Sua madre le aveva spiegato come va il mondo. Che scuola aveva scelto? Appassionata come era di nomi, non aveva avuto difficoltà al momento dell’iscrizione. Sul suo libro c’erano spesso dei segni strani, le derivazioni greche. Il classico era allora l’unica opzione, supportata poi dai genitori e dai loro amici, che continuamente lo esaltavano, perché “è un posto rispettabile”, “l’ambiente è il meglio”, “i professori sono senza dubbio i migliori” e altri cliché del genere. Stava finalmente per iniziare quella nuova avventura.
Vide un flebile raggio infiltrarsi tra gli spazi vuoti lasciati dalla tapparella, come per spiarla, come per scansionarla, simile al laser di uno dei migliori film di fantascienza degli anni ’70. Era partito dalla sommità del suo capo, illuminandole i lunghi capelli di un biondo scuro, e poi, lentamente, era sceso agli occhi verdi, al naso delicato, alla bocca carnosa e sempre più in basso, sempre più nel profondo; sarebbe giunto dove nessuno era mai arrivato, alla cosa più preziosa per lei, a ciò che conservava per il vero principe azzurro, come da insegnamento di sua madre, se solo…. Un brusio proveniva dall’esterno della sua camera, da dietro la porta che teneva rigorosamente chiusa, per timore di vedere i mostri che al di fuori di quel suo angolo di paradiso si celavano. Si alzò rapidamente dal letto. Poteva chiaramente riconoscere le voci dei suoi genitori. Decise di uscire dal suo isolamento mentale, di lasciare che il sole illuminasse centimetro dopo centimetro le lenzuola sotto cui aveva tentato invano di addormentarsi durante la notte e di dare finalmente inizio alla sua nuova vita. Si diresse in cucina, da dove provenivano i rumori e li trovò lì: suo padre era seduto a tavola, intento a finire il suo toast, mentre sua madre camminava frettolosamente dal frigo, da cui aveva appena preso il cartoccio del succo d’arancia, fino ai fornelli, dove la caffettiera borbottava ormai da qualche secondo.
-Buongiorno a tutti- esordì entrando nella stanza, con il suo pigiama color rosa candido, largo, ma non abbastanza da non segnarle il piccolo seno sodo. Adesso si sentiva un’altra persona, non più la ragazza che piangeva nel letto; sorrideva come non mai, tanto da portare sua madre a chiederle cosa le fosse successo. Scosse la testa, come a dire “nulla”.
-Io vado a lavoro, ci vediamo questa sera.- Suo padre uscì dopo averle dato un lieve bacio sulla fronte. Era da sempre abituata a queste cose: era una persona schiva e con lei non era mai riuscito ad instaurare un legame forte; rideva di rado e spesso passava fuori casa le sue giornate. Una volta, però, le era capitato di vedere una sua foto da giovane, mentre stringeva sua madre sorridendo. Solo da quel momento iniziò a credere che anche lui ne fosse capace.
-Ti preparo qualcosa per colazione?- le parole interruppero i suoi pensieri.
-No, mamma, ho ancora molto da fare prima di uscire.- disse avvicinandosi a lei; poi le diede un bacio sulla guancia, un abbraccio rincuorante e si diresse al bagno. -Grazie comunque…- quasi gridò nel tragitto.
Aveva ancora molto di cui occuparsi quella mattina. Il primo giorno di scuola è il più importante. La prima impressione che dai ai tuoi compagni è la cosa fondamentale, perché ti attribuiranno un cartellino che non ti lascerà mai durante i 5 anni del Liceo. Doveva ancora farsi la doccia, lavarsi i capelli, che aveva deciso avrebbe portato sciolti, mettersi un po’ di trucco leggero e scegliere tra tutti i suoi vestiti i migliori; doveva essere perfetta e doveva assolutamente fare tutto prima delle 8:30, l’ora X, in cui sarebbe dovuta andare di fronte alla scuola per la formazione delle classi. Non sarebbe però rimasta sola, perché anche Annì si era iscritta nello stesso istituto. Sperava di essere in classe con lei: la sua ansia era in parte anche paura di quel nuovo mondo, lo stesso che aveva corrotto Bea. Il cuore riprese a batterle all’impazzata: solo più 40 minuti.
Presto arrivò il momento più difficile: come vestirsi? Aprì il suo armadio che straripava di abiti. Ne aveva di ogni genere e colore, talora aveva anche la stessa maglia, ma di diverse tonalità. Dopo diversi minuti decise di prendere il paio di jeans migliore che aveva e una maglia a collo alto, abbastanza pesante. Si specchiò e per la prima volta davvero si piacque. Non ci aveva mai fatto troppo caso, ma ora si sentiva diversa. Rispettava sua madre e tutto quello che diceva, non aveva alcuna intenzione di essere provocante o attrarre gli sguardi dei ragazzi, però voleva che chi la guardasse pensasse bene di lei. Una cura tale della sua immagine le era totalmente sconosciuta, nonostante il buon gusto che aveva indubbiamente sempre avuto. I pantaloni le avvolgevano il sedere in modo leggiadro e delicato, ma in parte la maglia lo nascondeva, scendendo fino a metà del gluteo. I capelli morbidi le ricadevano sulle spalle, incorniciando il viso dolce e giovanile, come la cornice con il quadro; in questo caso, il quadro era della miglior fattura. Non aveva avuto bisogno di fondotinta, perché il sole preso d’estate ancora si mostrava in una abbronzatura su tutto il corpo, tenue, sul punto di svanire; aveva invece deciso di mettere un po’ di ombretto, di un colore scuro, che facesse risaltare i suoi occhi verdi, profondi. Se davvero questi sono lo specchio dell’anima, la sue era pari ad un vasto prato rigoglioso, come quelli che si fotografano in primavera, quando la natura ormai si è svegliata e vive la sua prima giovinezza, pienamente sbocciata e ancora ignara della fine.
Era tutto pronto. Prese la giacca e lo zaino e si diresse nel cortile, dove sua madre già la attendeva in macchina. Uscì dalla porta di casa. Il sole le colpì il viso e lei sorrise, rivolgendovi lo sguardo, assaporando il mondo che iniziava a svegliarsi, ascoltando il nuovo trambusto cittadino post estivo. Credette di non aver mai vissuto giornata più bella. La limpidezza del cielo accompagnava la limpidezza dei suoi occhi, la accompagnava e vi si fondeva, come la natura con l’etere, l’immanente con il trascendentale. Salì sull’auto, mentre sua mamma la guardava sorridendo lei stessa. La scuola non distava più di 15, forse 20 minuti da casa sua, ma era il primo giorno di Liceo ed un vero genitore non se lo perderebbe per nulla al mondo.
Si fermò in una piazza a pochi metri dall’istituto.
-Mi raccomando, fai la brava e questa sera mi racconterai come è andata. Come sta crescendo in fretta la mia bambina…- gli occhi si fecero vagamente vitrei.
-Certo mamma, ti voglio bene.- e scese dalla macchina, zaino in spalla, pronta a dirigersi all’ingresso.
Sentiva un rumore di mille e più voci ed ebbe presto modo di capire da dove provenivano. Giunta nei pressi, vide nello spazio davanti l’entrata, che si allargava, quasi a formare una piazzetta, tantissimi ragazzi e ragazze di tutte le età e anche qualche genitore dietro tutti. Ai lati dei due grandi battenti erano state installate due casse, collegate ad un microfono che il Preside stringeva nelle mani, mentre parlava con dei professori sulla sommità delle scale. Da lì avrebbe chiamato ogni singolo alunno del primo anno, per suddividerli nelle diverse sezioni, e le classi già formate dei successivi, per chiedere di accomodarsi nelle aule designate.
Non ebbe tempo di riprendersi dal guardare tutto ciò che si sentì afferrare e abbracciare da qualcuno. La riconobbe subito dal profumo inconfondibile: -Annì!- esclamò ridendo.
-Hai sentito? Mi sono giunte voci che saremo insieme anche quest’anno.- le sussurrò allentando lievemente l’abbraccio.
La vide in faccia, una faccia angelica, bianca come il latte e circondata da una folta chioma di capelli nero corvino. Dopo essersi salutate, ancora chiacchierando delle vacanze e del fatto di essere agitate, si avvicinarono alla marea di studenti, per confondervisi.
Non dovettero aspettare molto prima che il microfono venisse acceso e si iniziassero a chiamare le singole classi, a partire dalle quinte, poi scalando. Quando terminarono quelle già formate, nel piazzale rimanevano non più di 60 ragazzi, i novizi, i primini, tra cui c’erano anche loro due, mano nella mano, con il cuore impazzito. Un primo girone di chiamate e così via. Dopo una decina di minuti, venne annunciata la formazione della sezione prima beta, con 18 alunni in totale. Seguì una serie di nomi letti con voce incerta, storpiati, tra cui vi era anche la piccola Anna. Ne vennero chiamati 17, ne restava solo uno. Pregava intensamente che le voci fossero vere, che davvero potesse essere con la sua amica. Il Preside teneva in una mano un sottile plico di fogli, che si piegava in ogni direzione su spinta della minima folata di vento. Si aggiustò i sottili occhiali che gli stavano scivolando sul naso, portò nuovamente il microfono alla bocca e, strizzando gli occhi, finalmente lo lesse: -Chiara…- non ebbe bisogno di altro; subito iniziò a muoversi verso la scalinata. Salì i primi gradini, salutando la massima autorità dell’istituto con un timido e bisbigliato buongiorno. Prima di varcare la soglia, si voltò ancora una volta indietro. In lontananza poteva vagamente scorgere, in un piccolo scorcio tra le case illuminate da un ormai rinvigorito sole, il tetto di tegole rosse della sua vecchia scuola media; guardò un’ultima volta il mondo che stava abbandonando. Adesso non era più suo, le appariva lontano, sconosciuto; adesso che era stata chiamata, apparteneva al Liceo. Sentire il suo nome era stato quasi come vivere un nuovo Battesimo, dopo una nuova nascita. Si voltò verso le porte alte e nere e le varcò, con passo incerto e tremante, per raggiungere i suoi compagni che già la attendevano nell’atrio. Sarebbe divenuta parte di quel mondo, ormai gli apparteneva e si sentiva pronta, era pronta. Ci aveva a lungo pensato e voleva iniziare la sua nuova vita, ma non poteva ancora immaginare che peso la parola “nuova” avrebbe assunto di lì a poche ore.  
 
 
 
 
2.
 
Un rumore insopportabile lo svegliò, un trillo che gli penetrava nel cervello e gli martellava la scatola cranica. Allungò il braccio per spegnere quella stramaledetta sveglia. Che ore erano? Il display segnava le 8:10. Si passò la mano tra i capelli corti, come per grattarsi la testa, svegliarsi e strappare via quel senso di nausea che lo aveva assalito. Che giorno era? Il peggiore di tutti, l’unico che avrebbe sperato non arrivasse mai: 9 settembre, un nuovo giorno di merda. Non ne viveva di simili da almeno tre mesi, quando aveva pensato di essersi finalmente liberato della scuola; invece tutto stava per ricominciare: la noiosa routine cittadina, piena di clacson, urla, insulti, lezioni….
Cercò di alzarsi dal letto, ma ricadde all’indietro, sul materasso. Ancora gli girava la testa. Lentamente, aiutandosi con una mano poggiata sul comodino, si sollevò. Non era stato poi tanto difficile. Fece qualche passo verso la porta di camera sua, ma urtò qualcosa con il piede scalzo. Si udì un cupo rumore di vetro rotolare dal tappeto sin sul pavimento di legno. Dovette strizzare gli occhi, ma anche nel buio quasi totale poté subito riconoscere la forma di una bottiglietta di birra. Quella esattamente come era arrivata lì? Cercò di concentrarsi, di superare il dolore lancinante e la confusione mentale, di recuperare nella memoria che cosa era successo. Un fiume di ricordi lo investì come un treno.
La sera prima era uscito con i suoi amici, conosciuti circa tre anni prima, per festeggiare, per cercare tra la musica ed i fumi dell’alcool un riparo dalla terribile notizia che la pacchia stava per concludersi, che presto sarebbe ricominciata la scuola. Tutti sanno come vanno queste cose: esci per un drink in tranquillità, finisci in discoteca, perdi il senso del tempo e della misura, per poi ritrovarti a sboccare sul lato di una strada che non conosci o quantomeno non riconosci, alle 6 del mattino, dopo aver fatto chissà quali pazzie tutta la notte.
Aveva ancora in testa la musica a tutto volume e le luci, a tratti stroboscopiche. Era uscito di casa verso le 9:30, per incontrare Nick ed Eva. Il boss quella sera aveva dato buca causa “incazzature genitoriali”, come aveva scritto per giustificarsi sul gruppo whatsapp. La discoteca era il Club69; c’era una grande sala dove ballare, chiusa tra un piccolo palco con console e casse da un lato e un bancone dove prendere i cocktail dall’altro. Il posto non era di certo dei più grandi o più belli, ma era il loro posto, in verità perché l’unico nella zona; un luogo di ritrovo per il loro piccolo gruppo. 
Nel luogo dell’appuntamento aveva trovato Eva, lì già da qualche minuto, intenta a farsi una serie di selfies da postare su chissà quale social. Lui ne era sempre stato estraneo, forse perché non ci dava importanza, forse perché non aveva mai avuto così tanti followers da divenirne dipendente. Era una droga, peggio di una droga: può andarti a fanculo tutta la vita, può bruciarti casa, morire il cane e non te ne fregherebbe un cazzo, ma ecco che quando ti accorgi di avere un like o una visual in meno subito ti preoccupi e ti chiedi cosa hai fatto di sbagliato per essere punito così duramente.
-Ehi bella- l’aveva salutata distogliendola dal mondo virtuale nel quale era immersa. La ragazza non era delle più alte; occhi marroni, capelli castani a caschetto che appena le toccavano le spalle, trucco sufficiente a nascondere il candore della pelle. Il vestiario non avrebbe potuto adattarsi meglio alla discoteca verso cui erano diretti: giacchina di pelle nera aperta sul davanti, in modo da lasciare bene in vista le tette, coperte da uno stretto topless, e minigonna, dalla cui estremità inferiore spuntavano due calze a rete che si perdevano negli anfibi neri che calzava nei piedi.
Lei, alzando lo sguardo, aveva sorriso, avvicinandosi a lui e salutandolo con un bacio sulla guancia. -Credevo mi avreste lasciata sola. Riccardo ha scritto che non viene e poi tu e Nick non vi siete più fatti vivi!- Una macchina si fermò alle loro spalle. Ne scese un ragazzo magrolino, faccia scavata e occhi infossati. -Ragazzi, che facciamo ancora qui fuori? La festa è all’interno e ho intenzione di bere fino a dimenticarmi che giorno è oggi.- aveva riso goffamente, con voce roca. I tre si salutarono da buoni amici e si diressero infine verso l’ingresso del Club69. Una volta nel locale, si diressero subito al bancone, pronti per un primo giro di bevute. Avevano iniziato insieme con un quattro bianchi, per brindare a quell’ultima serata di follia prima dell’inizio della scuola, poi erano passati agli shottini, due a testa, vodka alla menta, come ormai era consuetudine. Le facoltà mentali erano ancora molto buone. Si buttarono in pista, in mezzo alle grida, alle luci, al sudore. Il pavimento era già appiccicoso, probabilmente qualche coglione aveva rovesciato il suo drink, si sperava non altro…. Aveva perso la cognizione del tempo, non avrebbe saputo dire da quanto fossero lì dentro, quando ad un tratto gli si avvicinò un tipo. Non riusciva più a mettere bene a fuoco il volto, ma ricordava di non averlo mai visto prima e di averlo giudicato più piccolo di loro di almeno un paio d’anni. Barcollava, gli occhi gli si chiudevano non simultaneamente, ma di certo aveva visto qualcosa per cui valeva la pena farsi largo tra quel mucchio di gente. Da dietro, mise le mani sui fianchi di Eva, che subito lanciò uno sguardo stupefatto e divertito ai due amici di fronte a lei. Lo guardò in faccia con la coda dell’occhio, mentre gli strusciava il culo sul pacco. Jeans contro jeans, le due stoffe ruvide sfregavano tra loro, non facendo altro che infiammare ancor di più i bollenti spiriti di quel bambinetto. Doveva essere piacevole quel movimento dall’alto al basso, intervallato da qualche moto ondulatorio per stuzzicarlo oltre il limite. Non c’era dubbio, la ragazza ci sapeva fare. Quando ne ebbe abbastanza si girò, allontanandolo con una mano: -Corsa unica e la giostra adesso ha chiuso, quindi vedi di smammare.- Il tipo, ancora barcollante, se ne andò esattamente come era arrivato, svanendo tra la gente ormai mezza ubriaca, avendo probabilmente capito la brutta aria che iniziava a tirare. Eva era molto sexy e provocante, ma era meglio starle alla larga quando diventava seria, perché non era tipa da ripetere due volte la stessa cosa. Poteva gelarti il sangue solo con uno sguardo o scaldartelo fino a fartelo ribollire dalla voglia. Era decisamente una per cui si sarebbero fatte follie. Più la si guardava e più si potevano notare curve sensuali, come un rollercoaster, che scende solo per risalire e all’improvviso rituffarsi in picchiata, forse temibile a vedersi, ma sul quale ti faresti anche più di un solo giro molto volentieri. Sarebbe stato con lei soltanto per soddisfare la sua curiosità di vederla nuda, non che il vestito nascondesse eccessivamente le sue fattezze e lasciasse troppo spazio all’immaginazione, e per capire se il suo comportamento non era altro che provocatorio o piuttosto nascondesse una vera e propria sensualità, pronta ad esplodere con chi lei volesse. Però erano amici, buoni amici ed i due legami si escludono vicendevolmente. Ne avevano passate molte insieme e non ne vale mai la pena di oscurare tanti bei momenti con una storia che sai non funzionerebbe. I tre si riunirono infine nei pressi del piano bar, intenti a prendere nuovamente qualcosa da bere. In quei locali, l’alcool scivola in gola come l’acqua, senza neppure che tu te ne accorga. Si possono sempre trovare i tipi umani più diversi: chi si ubriaca per dimenticare, chi per cercare di divertirsi in un posto così merdoso, chi per trovare il coraggio di limonarsi qualcuno, pregando poi di non sboccargli addosso, chi solo per sentirsi o farsi figo di fronte a quelli che chiama amici, vittima evidentemente di qualche complesso di inferiorità. -Raga, io ho visto uno che conosco, vi dispiace se vi lascio un attimo da soli?- Nick si allontanò con il bicchiere in mano, fino a raggiungere un uomo sulla trentina, giacca di pelle e barba curata, che si trovava un po’ isolato, dall’altra parte del locale. Fermo, nel buio della stanza, venne assalito da un nuovo ed intenso mal di testa. Da quel momento i ricordi divenivano tutti confusi, offuscati. Evidentemente i drink avevano iniziato a fare il loro effetto. Con difficoltà, cercò di strappare alle fredde mani dell’oblio le ultime ore passate al Club69. Era in piedi, vicino al banco, con Eva e stavano parlando del tipo di prima, ridendo per la situazione surreale creatasi, anche se, in un posto come quello, era piuttosto ordinaria. Parlavano del più e del meno, di ragazzi e ragazze, mentre sorseggiavano la restante bevanda alcoolica che lasciava intravedere il suo colore rosso sangue, facendosi largo tra i cubetti di ghiaccio nel bicchiere. Anche con tutte quelle luci stroboscopiche poté accorgersi di cosa stava succedendo ad Eva. Vide il suo sguardo perdersi lentamente nei suoi occhi e la sua pelle sbiancare sotto il trucco. Non erano nuovi a situazioni del genere, anzi, erano piuttosto frequenti nelle loro serate passate a festeggiare. Le levò il bicchiere dalle mani per posarlo sul piano bar, accanto al suo, poi le mise il braccio sotto l’ascella e, sorreggendola, si allontanò, verso una porta defilata che dava nel bagno. Il posto era angusto, illuminato da una sola tremolante luce al neon. Si poteva accedere immediatamente ad un piccolo stanzino con, da un lato, un lavandino, prontamente dotato anche di un piccolo distributore di preservativi sulla destra, dall’altro due porte che conducevano alle rispettive turche. Non avrebbe avuto problemi ad accompagnarla sin dentro, perché non vi erano distinzioni tra maschi e femmine, nessuna immagine, nessuna scritta, insomma, uno dei pochi luoghi sulla terra a rispondere alle impellenti esigenze di chi vorrebbe eliminare anche la minima forma di discriminazione. D’altronde, in un posto come quello non serviva dividere; ci si entrava soltanto per vomitare o fare altro, ma quello che era certo è che non ci pisciavi se non ne eri assolutamente costretto. Aprì una porta a caso e vi entrò con lei, chiudendosela poi alle spalle. Arrivò appena in tempo. Eva si chinò verso il water ed iniziò a sboccare l’anima. Per fortuna aveva avuto le forze di legarsi la coda prima di entrare, altrimenti sarebbe toccato a lui tenerle i capelli; uno dei compiti più nefasti. Se c’era una cosa che non aveva mai sopportato era quell’odore, ma gli amici si vedono nel momento del bisogno e quello non poteva essere classificato altrimenti. -Mi fotte sempre quella menta, ogni singola volta- disse lei. Non si ricordava se fosse effettivamente riuscita a finire la frase o se piuttosto fosse stata interrotta dall’ennesimo conato, ma poco gli importava. La assistette finché non si sentì meglio. Il tempo trascorso lì dentro gli parve interminabile, mentre il puzzo invadeva anche l’ultimo angolino di aria sana, per quanto sana si possa definire quella del cesso di una discoteca. Da lì i ricordi si facevano frammentati, quasi come se stesse guardando un album fotografico: pochi singoli momenti intervallati da lunghi bui. Erano usciti dal bagno e dal locale, dove avevano incontrato di nuovo Nick, bianco come un cadavere, che aveva raccontato di star aspettando sua madre, offrendo ad entrambi un passaggio. Forse avevano chiacchierato, forse nessuno ne era più in grado a quel punto della serata. Era infine salito sull’auto, seduto sul sedile posteriore insieme al suo amico, mentre Eva si era accomodata davanti. Era certo di essersi messo la cintura, forse l’ultimo barlume di lucidità che aveva finito per spegnersi troppo in fretta; dopo, l’oblio. Il ricordo successivo era di loro due in macchina, la ragazza doveva esser già stata portata a casa. Era rientrato infine all’alba delle 5, mentre il sole si stava ormai preparando a spandere i suoi caldi raggi su di un mondo freddo ed addormentato. Si era trascinato dalla macchina fino al portone d’ingresso, con una bottiglia di birra in mano, che continuava a non ricordare dove avesse preso. Si era accostato alla porta, poggiandovi contro una spalla per sorreggersi, poi aveva estratto da una tasca il mazzo di chiavi ed aveva iniziato a provarle. Le forme sembravano essere tutte così uguali…sarebbe stata più ardua del previsto. Dopo innumerevoli tentativi, finalmente c’era riuscito: l’uscio si era spalancato emettendo un lievissimo cigolio e rischiando di farlo cadere al suolo, dopo aver perso il suo unico appoggio. Facendo meno rumore possibile, aveva salito le scale, fino ad arrivare in camera, dove si era gettato sul letto, in parte stanco ed in parte ubriaco. Adesso si trovava lì, in piedi, mentre nel buio cercava di raggiungere la maniglia della porta della sua camera, ancora con la testa dolente come stretta in una morsa. Si sentiva appiccicoso, i vestiti puzzavano di fumo e di altre cose che il suo olfatto non riusciva ad individuare. Mille odori riempiono i locali notturni, ma nessuno è mai troppo piacevole. Lentamente, un passo dietro l’altro, la raggiunse: agognata libertà. Dischiudendo la porta, un raggio penetrò nella stanza, illuminandola e lasciandolo per qualche istante abbagliato. Come ogni mattina scolastica, sentì la musichetta del TG5 provenire come da lontano, un flebile suono, eppure inconfondibile; come ogni mattina scolastica, i suoi genitori si trovavano in cucina, per consumare una frugale colazione prima di iniziare la giornata lavorativa. Scese le scale e si trovò nell’ingresso di casa; una svolta a destra ed era di fronte a loro. Sua madre stava intingendo un biscotto nella profonda tazza di caffelatte, mentre suo padre guardava alla televisione le tragedie del giorno, fresche di redazione. Entrò nella stanza senza un fiato, dirigendosi verso il frigorifero; aprì l’anta e prese un cartone di succo ACE. Un brivido gli percorse la schiena, la sensazione di sentirsi osservato lo colse: la conosceva molto bene, da anni, ma non si sarebbe mai abituato. -Buongiorno anche a te. Mi pare di averti insegnato a salutare.- Il rimprovero coprì la voce della presentatrice di Canale 5. Quando si voltò, gli occhi di suo padre lo stavano ispezionando da dietro le sottili lenti da vista. La bocca era contorta in una smorfia di disapprovazione. Dopo qualche istante i loro sguardi si incrociarono. -Buongiorno a tutti e due.- Poi si portò il beccuccio alla bocca, per bere qualcosa e cercare di idratare la gola essiccata dall’alcool della sera prima. -Allora, sei pronto per oggi?- Gli chiese sua madre, sorridendogli. Non ebbe neppure il tempo di smettere di deglutire. -Ti sembra pronto? Spero che almeno si cambi.- lo interruppe suo papà. La donna calò nuovamente gli occhi nella tazza, per prenderne un sorso. Era quella la routine quotidiana o almeno lo era da un paio d’anni, da quando i suoi avevano litigato bruscamente a causa di sua mamma, che aveva cercato di difenderlo a seguito di un rimprovero mossogli. Era un po’ come se da quel momento si fosse creata una vera e ferrea gerarchia, con una autorità incontestabile e incontestata a capo. -E a che ora sei tornato ieri notte? O forse dovrei dire questa mattina?- Nuovamente si sentì quel terribile sguardo addosso. Domande inquisitorie, quasi certamente retoriche, che non gli lasciavano alcuna via di scampo: mentire e venire cazziato per averlo fatto o dire la verità e venire cazziato per esser rincasato alle 5. Per fortuna i film di azione insegnano che c’è sempre una terza via; questa volta non era di certo definibile giusta o onorevole, ma senza dubbio la migliore: fuggire. -Scusate, ma devo prepararmi, perché sono le 8 passate e non posso fare tardi il primo giorno.- Così se ne uscì dalla cucina, vigliaccamente, ma illeso. In fondo gli dispiaceva; non avrebbe voluto tenere un comportamento del genere e, anche se lo faceva, si sentiva in colpa nel trasgredire gli ordini dei suoi genitori, che poi erano soltanto quelli di suo padre, però si trovava costretto, chiuso in una morsa che non faceva altro che comprimerlo sempre più, ponendolo di fronte alla scelta di restare ed esserne schiacciato o scappare; messa in questi termini, aveva preso la decisione giusta. Eppure l’auto giustificazionismo non gli toglieva quel macigno che si sentiva nel petto. Capì che in un modo o nell’altro, non sapeva se dall’autorità paterna o da chissà cosa, tuttavia era destinato a rimanere schiacciato. Salì in camera, per cambiarsi, ma non prima di essersi dato una bella sciacquata. Si guardò allo specchio: la natura, si poteva forse dire, era stata abbastanza taccagna o almeno in questi termini lui ne parlava. Non gli aveva donato un fisico possente o altro, anzi, credeva di essere sottopeso e forse lo era realmente. Ciò che lo salvava erano lo stile innato che lo aiutava a nasconder un po’ quel corpo di cui non andava particolarmente fiero e lo sguardo glaciale: due occhi azzurro chiaro che alla luce del sole si illuminavano come non mai; eredità paterna, di quello doveva prendere atto. Si rivestì, prese la giacca di pelle, le chiavi della moto e corse fuori di casa. Erano ormai le 8:30 e si sarebbe dovuto sbrigare; sarebbe arrivato giusto in tempo per sentire la formazione delle classi. Uscì dalla porta di casa. Il sole gli colpì il viso e lui fece una smorfia e strizzò gli occhi, distogliendo lo sguardo, odiando il mondo che iniziava a svegliarsi, ascoltando il nuovo casino e puzzo cittadino post estivo. La giornata era proprio una merda. Montò in sella e partì alla volta della scuola. Per fortuna non viveva troppo distante dall’istituto, circa una ventina di minuti in macchina, quindici in moto guidando a modo suo, cioè per nulla sicuro. La parcheggiò vicino all’ingresso, dove già si era accalcata una marea di gente. Vide in lontananza Eva parlare con Riccardo, un tipo piuttosto tozzo, ma non grasso né muscoloso: lo si sarebbe potuto definire ben piazzato. -Ehi Lore, non hai una bella cera.- Lo stuzzicò la ragazza. -Beh, sai com’è, c’è chi sta male prima e chi dopo…- sarebbero potuti andare avanti per ore, ma era un conflitto benevolo, di quelli che non puoi capire se non fai parte del gruppo. -Ciao boss. E tu? Tutto a posto con i tuoi?- Si rivolse all’altro ragazzo che gli stava sulla sinistra. -La solita storia, si sono incazzati perché oggi c’è scuola, eccetera…Conosci bene l’antifona anche tu, no?- -Fin troppo, ma ormai non ascolto e faccio abbastanza di testa mia.- -Prenderò esempio da te. Adesso che ricomincia la scuola, voglio tornare alle buone abitudini dell’anno scorso: il sabato il Club69 sarà di nuovo nostro. Contatemi pure per le prossime uscite.- -Sarà meglio. Ci sei mancato…soprattutto ad Eva.- La ragazza stava guardando il telefono con la testa china, ma sorrise mentre alzava il dito medio. -Avete per caso già visto Nick?- Ambedue scossero il capo. Era come sparito dalla sera prima e non sarebbe apparso fino a metà mattinata. Mentre chiacchieravano tranquilli, per aggiornare Riccardo sulle ordinarie follie della notte precedente, il Preside iniziò a chiamare le singole classi. Si mossero in gruppo quando sentirono pronunciare il nome della 4°C. Erano purtroppo ben consci di quanto avrebbero dovuto sopportare in quel primo giorno: causa la mancanza dell’orario di lezione e dei primini spaesati, si sarebbero beccati tre ore, se non addirittura quattro, consecutive con la loro coordinatrice di classe, una donna con “incazzatura cronica da ciclo”, come avevano ipotizzato ormai un paio di anni orsono; la teoria era però stata rivista negli ultimi tempi e, valutando l’età, che doveva essere non inferiore alla cinquantina, si erano convinti fosse causata piuttosto da una “menopausa isterica”. L’istituto tecnico era situato in cima ad una collinetta, un po’ al di fuori della città. Da lì si potevano vedere quasi tutti gli edifici principali del centro. La banca principale svettava tra i bassi condomini: non era nient’altro che un’alta torre scura, di un’estetica discutibile. Si poteva intravedere anche la scuola media, con il suo tetto di mattoni rossi; un luogo che tutti quanti odiavano, d’altronde, chi sano di mente ha un buon ricordo di quel periodo? Infine, alzando lo sguardo, si giungeva alla ciliegina sulla torta: il Liceo classico. Se ne poteva chiaramente vedere la facciata principale. Tutti gli studenti dell’ITI lo consideravano un posto per ricchi chic e snob; quegli idioti si consideravano superiori a tutti, ma erano così ciechi da non vedere che, dopo essersi fatti il mazzo per 5 anni, ne uscivano con nulla in mano. A Lorenzo venne da sorridere ripensando all’ultima frase: “semmai ne uscivano con un cazzo in mano, tutti quanti, ragazzi e ragazze.” L’altra opinione diffusa era infatti che, in quella scuola, tutte le ragazze fossero delle fighe da paura, voce alimentata dal bisogno di credere che da qualche parte pullulasse il gentil sesso, vistane la carenza a Informatica e Meccanica, dove la più bella era il tuo compagno di classe con i capelli lunghi, mentre tutti i ragazzi fossero di un’altra parrocchia, per essere politically correct.
   
 
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