Storie originali > Favola
Segui la storia  |       
Autore: Old Fashioned    17/08/2019    14 recensioni
Un’arma segreta del Reich, il dispositivo ombra, viene recuperata quasi casualmente dallo scanzonato pilota di un idrovolante ricognitore.
L’ufficiale inglese che si è visto sottrarre l’oggetto, però, giura vendetta al tedesco, anche perché nello scontro che c’è stato fra i due, egli ha perso una mano e ora è costretto a portare un uncino al posto dell’arto perduto.
I due si incontreranno nuovamente in una misteriosa e sconosciuta isola al centro del Mar dei Caraibi: Ypa'u Oiyva, l’isola che non c’è. Tra indigeni ostili, foreste impenetrabili e luoghi misteriosi, si contenderanno di nuovo il dispositivo ombra e il capitano inglese approfitterà dell’occasione per cercare di saldare vecchi conti rimasti in sospeso.
Seconda classificata al contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP. Vincitrice del premio speciale "Miglior Hero"
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve gente, ecco qui un altro capitolo. Eravamo rimasti alla necessità di nuovo personale per rimettere l’aereo in condizioni di volo, ma spesso risolvere un problema significa crearne un altro…
Grazie come sempre a tutti quelli che mi seguono, e un ringraziamento speciale a chi mi lascia anche un commento!^^










IV – Problemi di convivenza






In piedi accanto ai loro zaini, facendo del loro meglio per mantenere l’equilibrio nonostante il rollio, i tre fratelli Liefke tenevano lo sguardo fisso su una lancia che dalla corazzata Schütze si stava muovendo nella loro direzione.
Il pur pesante battello, flagellato senza posa dal vento teso, saltava come un guscio di noce sulle onde crestate di spuma. Spruzzi d'acqua piovevano senza posa sull'equipaggio, facendo luccicare le cerate sotto il sole dei Caraibi.
I tre, che invece indossavano l'uniforme tropicale della Luftwaffe, contemplavano afflitti la prospettiva di arrivare alla fine della traversata completamente fradici.
La lancia ebbe un sussulto, balzò su un'onda particolarmente alta come una specie di cavallo selvaggio, poi ricadde imbarcando una secchiata d'acqua salmastra. Uno dei marinai prese la sassola e cominciò sgottare con l'aria placida del garzone che spazza il pavimento del negozio.
Dei due feriti che c'erano a bordo, quello incosciente se ne stava immobile al centro del natante, coperto da una cerata che gli lasciava fuori solo mezza faccia, l'altro a ogni ondata si rannicchiava per quanto glielo consentivano gli arti ingessati, e da come gli si muoveva la bocca sembrava intento a imprecare con veemenza.
Sulla coperta del Walküre le cose non andavano meglio. Una volta lontani dall'egida dell'aereo – un sinistro macchinario verso il quale i marinai nutrivano il misto di meraviglia e diffidenza dei selvaggi che vedono il fuoco – i tre fratelli Liefke erano inesorabilmente crollati al rango di marmittoni idioti, per di più digiuni di qualsiasi conoscenza nautica, ed erano ricoperti da ondate di disprezzo, più che d'acqua salmastra.
“Via, terrazzani,” disse passando un marinaio, “qui dobbiamo manovrare.”
I tre si fecero indietro e rimasero in piedi con la testa fra le spalle, stretti l'uno all'altro come pinguini sul pack.
“Via, ho detto!” ripeté l'altro. Strattonò una cima che si trovava proprio sotto i loro piedi. “Se non sapete niente di manovre, stupidi terrazzani, almeno statevene fuori dalle palle!”
I Liefke si rifugiarono ai piedi della scaletta che portava alla catapulta e da lì rimasero ad attendere lo svolgersi degli eventi.


La lancia arrivò e fu assicurata al Walküre da un paio di cime. Hans si sporse a guardare e si ritrasse inorridito. Fece girare lo sguardo intorno, come aspettandosi che qualcuno intervenisse dicendo che sarebbe stato umanamente impossibile con quelle onde passare dal cacciatorpediniere al piccolo natante, ma nessuno sembrava minimamente turbato dall'eventualità. “Sbrigatevi,” disse anzi un graduato, muovendo la mano come per dirigere il traffico, “non abbiamo tutto il giorno.”
Intervenne Wendel, che col tono di chi affronta la morte chiese: “Dobbiamo andare laggiù?”
“E in fretta, anche. La Schütze sta già segnalando di mollare gli ormeggi.”
Allineati come salsicce, tra le sghignazzate dei marinai assiepati lungo l'impavesata, i tre si trovarono a scendere lungo una scala a pioli stretta, scivolosa e sempre più vicina a onde che ai loro occhi di terrazzani sembravano quelle dell'Olandese Volante.
Nel frattempo un bansigo stava issando l'aviere ingessato, che passando li salutò con la mano sana.
Giunsero infine a bordo. Dopo di loro piovvero, legati insieme da una sagola, i tre zaini, che finirono con precisione nella pozza che si era formata sul fondo della lancia.
Poi il Walküre virò e si allontanò, lasciandoli in balia delle onde.
“La nostra casa va via,” pigolò Michael seguendo con lo sguardo il cacciatorpediniere, che ormai mostrava sdegnosamente solo la poppa.
“Quella non era la nostra casa,” replicò Wendel. “Era solo dove prestavamo servizio. Un posto vale l'altro, per il servizio.”
“Non ho salutato il tenente Voss.”
“Tanto non ci distingueva nemmeno uno dall'altro, ci chiamava tutti genericamente Liefke.”
“Non ho finito di incidere le mie iniziali sulla catapulta.”
“Michael!” protestò Wendel indignato, “Non si fanno queste cose!”
“Le ho incise anch'io,” intervenne Hans compiaciuto.
La rivelazione coincise con l'arrivo della lancia presso la corazzata tascabile.
I tre guardarono in su: da quella posizione, la fiancata della Schütze era una specie di bastione inviolabile, in cima al quale si era già raccolta una temuta fila di giubbe bianche. La scala a pioli che si perdeva verso l'alto dava le vertigini.
“Forza!” li incitò genericamente uno dei marinai della lancia. Si accese una sigaretta, schermandola con consumata abilità dagli spruzzi che provenivano da ogni parte.
Giunse ondeggiando un paranco, al quale furono assicurati gli zaini. Wendel li fissò con nostalgia mentre salivano e poi scomparivano oltre l'impavesata. Emise un sospiro.
“Forza,” ripeté il marinaio, manovrando una gaffa per tenere la lancia adeguatamente discosta dalla murata della Schütze. “Vorrei anche tornarmene a bordo, se a lor signori non dispiace.”
Si fece avanti a quel punto Hans. Si aggrappò alla bell'e meglio alla scaletta e cominciò a salire. La nave si alzava e si abbassava con un movimento poderoso, che ogni volta gli rimescolava tutte le viscere in corpo. Quando andava in su, gli sembrava che volesse schiacciarlo contro la volta celeste come una zanzara su un vetro; quando andava in giù, gli dava l'idea di volerlo precipitare nelle più cupe profondità dell'oceano.
Continuò a salire. Ogni gradino maldestramente superato era salutato dai marinai con lazzi e sghignazzate. Uno arrivò addirittura a sporgere dall'impavesata il deretano nudo, consigliandogli di tenerlo come punto di riferimento per l'ascensione.
Hans raggiunse infine la coperta, adocchiò delle uniformi kaki e subito le raggiunse, con l'istinto sicuro dell'animale che riconosce i suoi simili.
A quel punto si immobilizzò come se fosse andato a sbattere contro un muro. “Peter Pankow!” esclamò.
Fece un passo indietro senza riuscire a capacitarsi di quello che stava vedendo: in piedi davanti a lui, con tanto di berretto sulle ventitré ed espressione simpatica e un po' sfrontata, c'era il tenente Peter Pankow, quello della sfida agli inglesi, quello che aveva recuperato dopo aspri combattimenti un'arma segreta del Reich.
“Ciao,” disse disinvolto l'oggetto della sua meraviglia. “Sei il nuovo meccanico?”
“Peter Pankow,” ripeté Hans. “oh mio Dio, Peter Pankow!”
“Sì, è il mio nome,” fu la disinvolta risposta. “Sai anche aggiustare gli aerei, oltre a ripetere come mi chiamo?”
“Io...” Hans si ricordò improvvisamente della disciplina. Scattò sull'attenti e a voce alta e chiara scandì: “Aviere semplice Hans Liefke a rapporto, signore! Sono un meccanico, signore!”
Nel frattempo erano sopraggiunti gli altri due, che a loro volta assunsero la posizione prescritta e scandirono:
“Aviere semplice Michael Liefke a rapporto, signore!”
“Aviere scelto Wendel Liefke a rapporto, signore!”
L'ufficiale parve perplesso. “Tutti Liefke?” chiese.
Vagamente imbarazzati, i tre annuirono.
Con noncuranza Pankow replicò: “Beh, vorrà dire che vi chiamerò per nome. Dicevi che sei un meccanico, Hans?”
“Sissignore.”
“Qualcun altro sa mettere le mani nel motore di un aereo?”
Michael alzò la mano.
Il tenente annuì soddisfatto, poi si rivolse a Wendel e gli chiese: “E tu?”
“Sono radiotelegrafista e mitragliere, signore.”
La cosa parve fare un gran piacere all'ufficiale, che si puntò i pugni sui fianchi e ripeté: “Radiotelegrafista e mitragliere? Allora dovremo fare qualche voletto insieme, una volta o l'altra! Come hai detto che ti chiami?”
“Wendel Liefke, signore.”
“Ah, Wendel. Un radiotelegrafista, nientemeno.” Si girò verso un caporale che fino a quel momento non aveva aperto bocca e disse: “Un radiotelegrafista, hai sentito?”
Il graduato grugnì qualcosa di inintelligibile, ma dal suono indubbiamente poco entusiasta.
Il tenente non se ne diede per inteso. Indicò la catapulta, sulla quale l'aereo era ancora coperto dal telo come la vittima di un incidente stradale, e disse: “Andate lassù, ragazzi miei, e fatemi vedere quello che sapete fare. No, tu no Wendel. Tu ed io dobbiamo parlare di cose molto importanti.”


Seduto su una bitta un po' in disparte, Till scrutava torvo Peter Pankow che parlava con quel tale Wendel Qualcosa.
Così d'acchito gli pareva un ragazzetto senza nessuna esperienza, uno che non sapeva distinguere un identificativo Morse da una segnalazione di avaria, ma ormai conosceva bene il suo tenente e sapeva quanto lo elettrizzassero le novità.
Un nuovo radiotelegrafista, per esempio, era una cosa in grado di accendere prepotentemente il suo entusiasmo.
Razionalmente gli era ben noto che gli entusiasmi di Pankow si accendevano rapidi e con la stessa velocità si spegnevano, ma a livello emotivo non riusciva a convincersene del tutto.
Il tenente era un ragazzino mai cresciuto, un irresponsabile, uno sfrontato, uno che non sapeva comportarsi, che affrontava qualsiasi cosa con una noncuranza disarmante, ma era pur sempre il suo tenente.
Suo, non del primo radiotelegrafista che si presentava a pavoneggiarsi fresco di scuola.
E non era la momentanea fama di Pankow a renderlo geloso, ma la consuetudine che giocoforza, dopo mesi di guerra passati insieme, si era instaurata fra loro. Era lui che sapeva come il tenente voleva la fonia, era lui che sapeva tracciare le rotte sulla cartina nel modo che il tenente preferiva, ed era sempre lui, quando c'era da combattere, che sapeva brandeggiare la mitragliatrice in perfetta sincronia con il suo volo erratico e velocissimo.
Lui, non un moccioso qualsiasi di cui il Walküre si era liberato senza rimpianti, come avrebbe fatto con uno scarto.
Si puntò i gomiti sulle cosce e appoggiò il mento alle mani. Dalla catapulta proveniva il rumore del lavorio frenetico degli altri due mocciosi, che senza nemmeno appoggiare gli zaini sulle loro cuccette si erano fiondati a sistemare il motore dell'Arado.
Si augurò che sapessero cosa stavano facendo, e subito dopo si augurò che non lo sapessero e che Pankow decidesse di andare a fare il volo di prova con il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista, così competente e simpatico.
Rivolse loro un’occhiata poco amichevole: stavano parlando fitto fitto di faccende radiofoniche, li sentiva benissimo. Non poté fare a meno di notare che per quanto lui si trovasse perfettamente nel campo visivo di Pankow, egli evitava di chiamarlo. Anzi, gli pareva addirittura che stesse facendo finta di non vederlo.
Evidentemente non voleva essere disturbato, mentre si intratteneva con il suo nuovo e bravissimo radiotelegrafista.
Si alzò e si girò per andarsene, badando di farlo in un momento in cui Pankow stava guardando nella sua direzione.
Il tenente si limitò a fargli uno sbrigativo cenno di saluto con la mano, quindi tornò a dedicare la sua attenzione al nuovo arrivato.


§


L’Arado 196 sembrava di nuovo un aereo. Non aveva più il telo che lo copriva per metà e le cassette che avevano contenuto i pezzi di motore erano tutte vuote e ordinatamente impilate da una parte. Le capottature erano tornate al loro posto.
I due ragazzotti, unti e macchiati fin sopra i capelli dopo aver lavorato diverse ore, erano fermi sull’attenti. In quella posizione avrebbero dovuto mantenere un’espressione impassibile, possibilmente con lo sguardo fiero rivolto all’infinito, ma non riuscivano a impedirsi di sorridere compiaciuti.
Pankow si avvicinò sorridendo a sua volta da un orecchio all’altro. Contemplò il velivolo redivivo e disse: “Magnifico, ottimo lavoro! Non vedo l’ora di fare un giro di prova. C’è benzina?”
Si fece avanti Schelle, che in tono vagamente ammonitore disse: “Ma signore, sono quasi le effemeridi.”
“C’è ancora un sacco di luce,” fu la disinvolta risposta, “e poi staremo via poco.” Si rivolse a Wendel: “Giusto un giretto, che ne dici?”
“Come vuole lei, signore.”
Il tenente si rivolse a Schelle: “Sai far funzionare la catapulta, vero?”
“Io sono un radiotelegrafista,” dichiarò Till piccato.
“Oh, dai,” Pankow fece un gesto di noncuranza, “per premere due bottoni non ci vuole certo la laurea.”
“Potrei sbagliarmi e farla finire in acqua, signore,” fu la velenosa risposta, che però non scalfì minimamente l’adamantino entusiasmo dell’ufficiale.
“Siamo ai Caraibi,” rispose infatti Pankow, “c’è gente che paga per finire in acqua da queste parti.” Poi, a voce più alta: “Tutti a bordo, ragazzi! Si fa un giretto di prova!”


“Come vuole lei, signore,” ripeté Schelle facendo la vocina da smorfiosa. Poi, in un ringhio cupo: “Specie di stronzetto.”
La catapulta aveva funzionato correttamente, l’Arado si era involato e stava diventando sempre più piccolo in un cielo che ormai andava assumendo le sfumature rosa e viola del tramonto. Till immaginò il volo sul Mar dei Caraibi blu cupo, la comparsa di Vespero sull’orizzonte, il baluginio degli ultimi raggi di sole.
Pankow non aveva mai volato con lui a quell’ora. Quando c’era da volare con lui ci guardava eccome, alle effemeridi. Non ne sbagliava una.
Immaginò il rientro: il tenente e gli stronzetti – lo erano diventati anche gli altri due, per estensione – che parlavano fra di loro, che rievocavano ridacchiando episodi da cui lui era escluso.
E lui in un angolo come un povero scemo, a guardarli mentre si divertivano.
Provò di nuovo a ripetersi che Pankow era come una specie di cane da caccia, che correva dietro a ogni pista però alla fine tornava sempre indietro, che nonostante l’apparente spensieratezza era uno che sapeva riconoscere il vero valore delle persone, ma di nuovo la cosa non riuscì a convincerlo.
Si chiese se esistesse qualcosa che Peter Pankow prendeva seriamente. La guerra, ad esempio, non sembrava minimamente instillargli quel senso di reverente timore che in generale suscitava nell’animo di chiunque altro. L’autorità era il bersaglio di scherzi da scolaro discolo, il nemico stesso era qualcosa come la banda di ragazzini del quartiere vicino, con cui ci si picchiava furiosamente, ma così, tanto per giocare, e poi ognuno tornava a casa propria.
Aveva il coraggio di Sigfrido o l’irresponsabilità noncurante di un bambino mai cresciuto? Un dubbio che probabilmente non sarebbe mai riuscito a togliersi.



   
 
Leggi le 14 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: Old Fashioned