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Autore: _Lisbeth_    17/08/2019    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Allora, Ziegler? Chi ti è toccato? – la accolse Maggie, chiudendo la porta una volta fatta entrare la coinquilina.
Tracy ripose le chiavi della sua 500 nell’armadietto che tenevano al lato della porta, affianco al termostato. – Non lo indovinerai mai.
L’amica aggrottò la fronte. – Chi è? Il tuo ex?
- No. Alex avrebbe bisogno del ricovero. – sospirò la giovane psicologa, avviandosi in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. – Cosa c’è per cena?
- Ah, perché tu sei convinta del fatto che io abbia preparato la cena?
Tracy alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Tirò fuori da uno dei cassetti sopra al forno una tovaglia azzurra e la stese sul tavolo. – Dammi una mano ad apparecchiare e cucino il tonno rimasto in freezer.
- Di nuovo? – domandò Maggie, alzandosi sulle punte per raggiungere la dispensa in cui tenevano le posate. La cucina non era molto grande, ma era comoda e agibile. Il tavolo rotondo di legno era posto al centro della stanza, il forno era sulla sinistra come il frullatore e le dispense. I fornelli, invece, erano parallelamente opposti.
- Guarda che mangiare sempre la stessa cosa ogni santo giorno non fa bene all’organismo. – commentò ancora Maggie.
- Lo so che la tua professionalità da nutrizionista ti spinge a tenere alla mia e alla tua alimentazione, ma qui nessuno si è occupato di fare la spesa.
- Va bene, come vuoi. Fammi sentire in colpa.
A Tracy scappò un sorriso mentre lasciava che le due fette di tonno aderissero alla griglia.
- Non mi hai ancora detto chi sia il paziente.
- Il ragazzo dell’altra sera.
- Jake?
- Già.
L’amica si sedette a tavola e si fece sfuggire un verso di scherno. – Allora hai fatto proprio una gran figura di merda. Chissà perché non sono stupita, però.
Tracy servì il tonno nel proprio piatto e in quello di Maggie. Si sedette al suo fianco e mise in bocca un pezzo di pesce. – In teoria, no.
- In pratica sì. Di che avete parlato?
- Segreto professionale.
Maggie annuì. – Giusto. Pardon.
- Tu hai fatto qualcosa, nel frattempo?
- Non proprio io. – la ragazza sorrise. – Qualcuno però mi ha intrattenuta.
- Cioè?
- Brad.
Tracy strabuzzò gli occhi. Brad era la cotta storica di Maggie e per un breve periodo i due avevano anche avuto una relazione, finita pochi mesi prima per un motivo che nemmeno Maggie stessa era riuscita a capire. La ragazza ci era stata malissimo e Tracy aveva fatto del suo meglio per starle vicina e tirarle su il morale. E, nel sentire di nuovo quel nome, qualsiasi cosa il ragazzo avesse fatto, era rimasta leggermente spiazzata.
- Brad? – ripeté, leggermente incredula.
- Sì. E’ venuto qui sotto e mi ha dedicato una canzone scritta da lui.
Se possibile, l’espressione di Tracy si fece ancora più confusa. – Eh?
- Gesù, ma ti ha fatto male ‘sta seduta! Devo ripeterti le cose tre volte prima che tu le capisca?
La giovane psicologa si passò una mano sul volto e finì il proprio piatto di tonno. – E tu che hai fatto?
- Nonostante interiormente stessi per morire, a lui ho detto di doverci pensare su.
Tracy inarcò le sopracciglia. – Almeno per una volta non sei stata una testa di cazzo.
 
 
Tracy fece ritorno a casa verso le nove e mezza. Aveva assistito ad un’altra delle sedute della dottoressa Warren e aveva quasi finito il blocchetto per gli appunti per quanti ne aveva presi. Poteva ritenersi stanca, ma soddisfatta.
Posò la propria borsa sul divano e si sporse verso il corridoio. – Meg, sono a casa.
Quando non sentì risposta aggrottò la fronte. Percorse tutta la casa passando dalla cucina e dal bagno fino ad arrivare in fondo, nella stanza che condivideva con Maggie. La porta era chiusa e Tracy ci bussò un paio di volte. – Maggie?
- Entra. – si sentì rispondere. La voce era rotta e tremante e Tracy iniziò leggermente a preoccuparsi. Aprì la porta, trovando l’amica seduta sul proprio letto mentre stringeva tra le braccia un cuscino, con le lacrime agli occhi. I capelli a caschetto erano scombinati e la punta del naso arrossata.
- Maggie. – mormorò la coinquilina precipitandosi sul letto dell’amica. Passò una mano tra i suoi capelli lisci e scuri, guardandola con apprensione. – Cosa succede?
- Brad. – la ragazza tirò su col naso e Tracy le asciugò una lacrima che le era scivolata su una guancia. – Mi ha lasciata. Senza dirmi nulla. Mi ha solo detto che voleva finirla.
La giovane psicologa non disse nulla, non trovava le parole, nonostante avesse voglia di uscire da quella casa e andare a cercare l’idiota che non aveva avuto il coraggio di parlare per davvero con Maggie. Si allungò verso l’amica e la strinse in un abbraccio, accarezzandole delicatamente la schiena. Maggie ricambiò la stretta lasciando andare il cuscino. Quando Tracy si staccò per sorriderle dolcemente, la ragazza singhiozzò di nuovo. La tirocinante psicologa le prese entrambe le mani, accarezzandole delicatamente le dita.
- Io sono innamorata di lui, Tracy. Lo sono da quando andavo alle scuole superiori, capisci? Mi fa stare malissimo essere lasciata così, senza capirci nulla.
Tracy si fermò a riflettere per un attimo. Si mordicchiò il labbro inferiore. Le dispiaceva vedere l’amica in quelle condizioni, anche perché era consapevole di quanto Maggie fosse presa da quel ragazzo. Batté le ciglia un paio di volte e respirò profondamente.
Si alzò dal letto e afferrò la mano della ragazza, tirandola a sé.
- Che fai? – domandò Maggie, evidentemente perplessa.
- Preparati. Andiamo a sfondarci di gelato.
 
 
Di sabato mattina la dottoressa Warren lavorava all’Henry Ford Kingswood Hospital. Tracy, che ancora svolgeva il suo tirocinio, era in procinto di assistere ad una delle sedute della sua superiore per un caso più grave rispetto a quelli che era abituata ad ascoltare in studio. L’ospedale psichiatrico sulla Mendota Avenue non era grande, e trovandosi nell’area di Ferndale ci voleva anche un po’ di tempo per raggiungerlo da Detroit. Visto dall’esterno sembrava quasi un piccolo hotel, con l’aiuola fiorata all’entrata e i tre portici dal tetto a volta. Una volta entrativisi, le pareti spoglie e bianche facevano cambiare idea e l’odore dei farmaci si sentiva anche a distanza di metri.
Tracy entrò nell’ospedale e guardò l’orologio che aveva al polso: le dodici e mezza. La ragazza ripensò alla prima seduta a cui aveva assistito in quell’ospedale. Il paziente aveva parlato quasi ininterrottamente con la dottoressa Warren, intrecciando parole sconnesse a discorsi poco chiari. Aveva però parlato della sua tossicodipendenza e di quanto l’astinenza lo facesse star male. Aveva parlato di tutto il dolore che era costretto a subire durante le proprie crisi, di quanto volesse scappare da quel mondo che gli stava portando via tutto e di quanto gli fosse difficile, tanto da risultargli impossibile.
La ragazza trasse un respiro profondo e si avviò verso gli ascensori. Non sapeva a quale seduta avrebbe assistito, se avrebbe visto lo stesso ragazzo della volta precedente o qualcun altro. Sapeva di doversi tenere pronta a tutto e a tutti.
Doveva concentrarsi su ciò che avrebbe dovuto fare, come sempre. Tenere occhi e orecchie aperte, ascoltare con attenzione e captare ogni informazione. Arrivò davanti all’ascensore che l’avrebbe portata al secondo piano e premette il pulsante per chiamarlo.
E, come se le sorprese avute in quella settimana non fossero state abbastanza, non appena si voltò vide la stessa persona della sera prima e di quelle precedenti.
Jake la stava guardando, gli occhi spalancati e increduli. L’espressione variò quasi immediatamente, il ragazzo ruotò le iridi scure dietro alle palpebre e sospirò dal naso, irritato. Jake sembrava forse ancora più magro del giorno prima. Le guance erano scavate e non sembrava aver chiuso occhio nemmeno per un minuto, quella notte.
- Oh signore. – disse tra i denti.
- Ciao, Jake. Anche io sono felice di vederti. – sospirò Tracy.
Quando l’ascensore arrivò entrarono entrambi e restarono in silenzio per quelli che, nonostante fossero pochi secondi, sembrarono ore. La testa di Tracy si stava riempiendo di domande. Aveva incontrato il suo primo paziente per tre volte nell’arco di pochi giorni e quella era la quarta. Nell’ospedale psichiatrico in cui lavorava, per di più. Iniziava a non capirci più nulla, in tutte quelle coincidenze e nei loro passi quasi intrecciati. Sembrava fatto apposta.
E Jake, dopo attimi di silenzio, gonfiò i polmoni e disse esattamente ciò che Tracy stava pensando. – Un altro cliché del genere, e la mia vita diventerà una grandissima puttanata.
 

 
A Jake stava iniziando a sembrare tutto un’enorme presa per il culo. Gli sembrava di trovarsi in un film la cui sceneggiatura scritta male era piena zeppa di equivoci e coincidenze e, essendo onesto con se stesso, l’ultima cosa che si sarebbe augurato e in cui avrebbe sperato era quella che era appena successa. La sua psicologa lo aveva visto entrare in un ospedale psichiatrico e sicuramente in quel momento si stava già programmando le domande da fargli durante la seduta a venire.
A pensarci bene, però, Jake nemmeno aveva dato la conferma e, se prima aveva dei dubbi, ora era ancor più riluttante. Se c’era una cosa di cui però era certo, era quella che per nessun motivo avrebbe parlato con quella ragazza della situazione di Sam e di Josh, nonostante Veronica lo spronasse a farlo. Erano affari suoi. Affari suoi di cui non avrebbe proferito parola. Le persone che riuscivano da subito ad aprirsi riguardo ai propri problemi con una sconosciuta che, per altro, da quei discorsi ricavava anche del denaro, non le capiva per niente.
“Vedrai che ti scioglierai. Ha anche la tua età e mi sembra una ragazza così dolce e affidabile”, gli aveva detto Veronica non appena si era resa conto di chi fosse la psicologa. E lui, come suo solito, aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sbuffato.
“Ne dubito fortemente”. E con la sua risposta, il discorso si era chiuso.
Quando uscì dall’ascensore tirò dritto verso una camera diversa da quella di Sam, per evitare che la ragazza riuscisse a capire dove stesse andando.
Nonostante non fosse vicino riuscì comunque a sentire distintamente Tracy rivolgergli di nuovo la parola. – Buona giornata, Jake.
La salutò con un cenno del capo e, non appena fu certo che l’ascensore fosse ripartito, virò nella direzione, diretto verso la stanza giusta.
Era già consapevole di dover aspettarsi di tutto. Sam avrebbe potuto avere una crisi come quella di giorni prima, o non gli avrebbe nemmeno rivolto la parola, troppo giù per rispondergli a qualunque domanda gli facesse.
Le reazioni di una persona affetta schizofrenia non erano affatto prevedibili e Jake ricordava perfettamente tutto ciò che i dottori avevano fatto per fare in modo che la malattia venisse a galla. Sam non aveva parlato per due mesi, due mesi in cui il suo sguardo si era spesso fatto vitreo, terrorizzato o perso. Aveva ricominciato a parlare gradualmente, ma i primi discorsi consistevano in frasi sconnesse, parole insensate. Sam non era più lo stesso. Spesso sembrava essere completamente indifferente a tutta la sua famiglia, rifiutava il contatto fisico di chiunque, aggredendo talvolta chi gli si avvicinava troppo. Altre volte, invece, riusciva ad essere lucido, era capace di intrattenere un discorso sensato, di provare affetto per chi gli voleva bene, anche se in modo totalmente diverso rispetto al periodo precedente all’incidente. Raramente era allegro o felice. Poi arrivavano le crisi, le urla, le allucinazioni. I momenti peggiori, però, erano quelli in cui il morale di Sam precipitava senza possibilità di essere risollevato.
Jake aveva provato tante volte a farlo stare meglio, a cercare di tirarlo su con qualche discorso divertente o un semplice sorriso, ma quella di Sam era una malattia. Non era un semplice sbalzo d’umore, un momento no. E ormai, dopo un anno, il fratello maggiore ci aveva fatto l’abitudine.
Jake respirò profondamente e bussò alla porta della camera del ragazzo, con il pugno tremante.
- Sì? – la voce del fratello era tranquilla.
- Sono Jake.
- Entra, entra! – trillò il ragazzo. Il maggiore vide la porta aprirsi e la prima persona ad apparirgli di fronte non fu Sam.
La figura minuta di Joy gli coprì la visuale. Jake vide un paio di occhi castani osservarlo mentre la ragazza si postava per fargli spazio nella stanza. Joy si spostò una ciocca di capelli tinti di azzurro dietro all’orecchio destro, si sedette sul letto accanto a Sam e abbassò gli occhi sul pavimento.
 
 
- C’è una ragazza che fissa Sam da quando siamo arrivati. – la voce di Josh distrasse Jake dall’accordare la propria chitarra. Il gemello alzò la testa dal proprio strumento musicale e puntò lo sguardo verso il ragazzo dai capelli ricci che si stava asciugando il sudore dal viso con un telo di spugna. Quella serata stavano andando abbastanza bene. Avevano fatto un buon lavoro, nonostante fossero ancora a metà esibizione. La gente in quel pub li stava però facendo sentire apprezzati.
- Non ho avuto modo di notare nessuna pretendente. – Jake si accertò che la propria chitarra fosse ben accordata e sorrise.
- Questo perché non ti fai mai i cazzi di tuoi fratello.
- O perché suono e ho gli occhi sulla chitarra.
Josh sembrò pensarci su per un attimo, per poi scrollare le spalle. – Sì, plausibile.
Sam tornò dal bagno con le mani ancora bagnate e un sorriso stampato sul volto. – Ragazzi non sapete cosa…
- Una ragazza che trovi carina ti ha notato. – lo interruppe Josh.
Il minore aggrottò la fronte. – Come fai a…
- Ti stava scopando con gli occhi, Sammy.
 
A mezzanotte e venti i quattro ragazzi smontarono i propri strumenti e, stanchi morti, misero piede fuori dal locale. Danny inciampò un paio di volte per il sonno e Sam continuò a lamentarsi per una buona mezz’ora. Dovevano tornare a casa a piedi e avevano avuto una fortuna sfacciata a sentirsi dire dal proprietario del locale di lasciare, almeno per quella notte, amplificatori e batteria nel pub. L’uomo, per altro amico di famiglia, aveva assicurato loro che avrebbero tenuto d’occhio gli strumenti e le attrezzature per tutto il tempo.
- Io non ce la faccio più. Questo basso pesa più di tutti noi messi insieme. – aveva sospirato il più piccolo, ricevendo in risposta una risata da Danny e da Josh. Jake gli batté un pugno sulla spalla. – Sono sacrifici che si devono fare.
- Per cosa? Non ci pagano nemmeno chissà quanto!
- Lo so, ma li hai visti? – Jake sorrise, i suoi occhi si illuminarono. – Ci incoraggiavano, ci sorridevano, partecipavano. Per la prima volta da quando suoniamo mi sono sentito apprezzato per davvero.
- E io credo che anche quella ragazza abbia apprezzato per davvero il nostro timido Samuel. – commentò Josh.
Danny sorrise, circondando le spalle del suo migliore amico con un braccio. - Io credo che tutti apprezzino Sam.
Sam strinse gli occhi e fece tremare il labbro inferiore. – Daniel, la mia schiena!
Il batterista scostò immediatamente l’arto dal corpo del ragazzo. – Scusami!
Danny si vide letteralmente strappare via l’amico, strattonato da qualcuno che nessuno di loro era riuscito ad identificare. Jake spalancò gli occhi rizzando la schiena, temendo un’aggressione. Invece, non appena riuscì a rendersi meglio conto della situazione, notò una minuta ragazza dai capelli corti e scuri afferrare le spalle di Sam e sporgersi in avanti, protendendosi sulle sue labbra e premendoci le proprie. Sam trasalì, i suoi occhi restarono spalancati anche quando lei si staccò.
La ragazza sorrise e chiuse un foglietto di carta ripiegato in una delle mani di Sam. - Sono Joy Powell, questo è il mio numero. E il tuo modo di suonare il basso è ciò di più sexy che io abbia mai visto. 
 
 
- Come stai oggi, Sam? – domandò Jake guardando Joy accarezzare i capelli di suo fratello. Sam alzò le spalle. – Decisamente meglio. Molto, molto meglio.
Il maggiore sorrise. Si sedette sulla sedia accanto alla scrivania e guardò suo fratello e la ragazza. Jake era grato a Joy per essere rimasta con Sam senza mai vacillare. Gli era stata accanto per anni e aveva continuato a dargli l’amore e la forza di cui aveva bisogno anche vedendolo in quelle condizioni. Erano due caratteri agli antipodi, l’animo ribelle e la schiettezza di Joy si scontravano con la personalità impacciata e timida di suo fratello, ma i due ragazzi si amavano. Ed era quello l’importante.
Joy era lì con lui quando Sam non riusciva a trovare il coraggio per fare qualcosa, e Sam le era accanto ogni volta che lei faceva qualcosa di eccessivamente stupido di cui si pentiva un attimo dopo.
Però le cose erano cambiate, da un anno a quella parte. Sam la amava, sì, ma la malattia talvolta lo prosciugava da ogni tipo di affettività e tenerezza. C’erano giorni in cui preferiva stare da solo, giorni in cui respingeva Joy in modo brusco, e non succedeva solo con la ragazza. Era capitato anche a Jake.
Sam si alzò dal letto e lasciò una carezza sulla guancia di Joy. – Joy, tesoro, ho bisogno di parlare con Jake. Puoi aspettarci fuori?
Jake aggrottò la fronte. Se il fratello voleva parlargli in privato, senza nessuno intorno, con ogni probabilità doveva esserci un motivo abbastanza importante. Vide la ragazza scrollare le spalle e alzarsi, lasciare un bacio sul naso di Sam. Avviandosi verso la porta diede una pacca sulla spalla di Jake per salutarlo, e il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di risponderle che si sentì afferrare per le spalle.
Il fratello minore lo guardava fisso negli occhi, le palpebre completamente spalancate, un sorriso stampato sul viso. - L’ho visto, Jake. L’ho visto ancora. Ho visto Josh.
Jake sentì il cuore fermarsi. Deglutì, temendo un’altra crisi di suo fratello. Aveva però ancora più paura di sentirlo parlare di Josh, raccontando l’incontro e le parole con una persona che nemmeno c’era più. Con il loro fratello, con il suo gemello. Prese le mani di Sam, le strinse forte allontanandole dalle proprie spalle.
Cercò di recuperare il fiato che aveva trattenuto. – Sam, Josh non c’è più. Non è…
- Devi fidarti di me, Jake! Perché non ti fidi di me? L’ho visto con i miei occhi. Mi ha parlato. Mi ha detto che…
- Basta, Sam. Per favore.
Jake vide l’espressione del minore cambiare. Il sorriso si spense, gli occhi si fecero gelidi. Lo guardò allontanarsi e dargli le spalle.
- Sì, giusto. E’ vero, non ci avevo nemmeno pensato. – Sam si voltò di scatto, gli occhi spalancati e le braccia tremanti. – Io sono pazzo. Sono qui dentro perché sono pazzo. Sono pazzo e vedo cose che non ci sono, vero?
Il ragazzo afferrò il vaso di fiori appoggiato sul davanzale della finestra e lo scaraventò per terra, facendo sussultare il maggiore. Si riavvicinò a Jake e allargò le braccia sottili. – Però io credevo che almeno tu mi credessi. E invece non mi credi nemmeno tu.
Jake sentì la gola seccarsi e il cuore battere forte. Gli occhi di Sam erano rossi, lucidi, patinati di rabbia e amarezza. Detestava vederlo in quelle condizioni e pensare di esserne stato la causa lo faceva stare ancora peggio. Afferrò di nuovo le mani di Sam, la voce gli tremava come le dita. – Cosa ti ha detto, Sammy?
Il ragazzo sembrò calmarsi. Le spalle scesero, il corpo si rilassò. Abbassò lo sguardo. – Si sente in colpa.
- In colpa? Per cosa?
- Per starci facendo soffrire.
 
 
Un colpo di tosse scosse il sacco a pelo del diciottenne e Josh, ovviamente, se ne accorse. Era rimasto sveglio per tutta la notte per vegliare sul gemello ammalato, la brutta febbre aveva deciso di farlo star male proprio durante quella settimana che avrebbero dovuto passare in campeggio senza nessun pensiero oltre al passare del tempo in famiglia e divertirsi. Josh era stanco morto, ma non aveva intenzione di addormentarsi. Scivolò fuori dal suo sacco a pelo e si avvicinò a Jake, inginocchiandosi accanto a lui.
Gli scoprì leggermente il viso e ci appoggiò sopra una mano. Era bollente e aveva assunto una tonalità di rosso ancora più forte dell’ultima volta. L’ennesimo colpo di tosse scosse il corpo di Jake, facendo anche un po’ male a Josh.
Il suo gemello dormiva, ma non sembrava per niente sentirsi bene. Respirava con fatica e tremava per il freddo. Josh gli accarezzò i capelli del colore identico ai suoi, gli scosse leggermente una spalla e lo sentì mormorare qualcosa che non riuscì a comprendere. Vide gli occhi scuri schiudersi e il cuore gli si strinse. Erano lucidi e arrossati.
- Jakey. Come ti senti?
Lo vide stringersi di più nel sacco a pelo tirando su col naso. – Ho freddo.
Josh sospirò dal naso e scosse la testa. Ci pensò su per un attimo e un’idea gli balenò presto in testa. Sollevò le coperte del sacco a pelo sentendo dei gemiti di protesta da parte di Jake e si infilò insieme a lui nel bozzolo bollente. Si girò verso il gemello e gli circondò il corpo così simile al suo tra le braccia, stringendolo forte per trasmettergli un po’ di calore.
- Che fai? – sussurrò Jake con voce nasale.
- Ti abbraccio.
- Così ti prenderai la febbre anche tu.
Josh sorrise e lo strinse più forte, facendo però attenzione a non fargli male. – Sono il gemello forte, tra i due.
- Non è vero.
- Chi è che si è ammalato?
Sentì Jake sospirare sul proprio petto. – Stai zitto.
A Josh scappò una risata. Seppellì il naso tra i capelli di Jake, annusando quel profumo così familiare che gli ricordava tanto il fuoco attorno a cui cenavano quando erano in campeggio. - Finché ci sarò io, nessuna febbre potrà farti del male. Te lo prometto. Non soffrirai, se ci sarò io a stringerti.
Jake sorrise appena. Sebbene avesse il naso premuto contro le costole di Josh, avendo ancora più difficoltà a respirare, stava bene. Si sentiva a casa, al caldo, al sicuro. Sentiva il cuore del gemello battergli contro l’orecchio, e gli fu più facile addormentarsi.
   
 
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