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Autore: _Lisbeth_    07/08/2019    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Anche se non aveva la minima idea dell’argomento di cui stavano discutendo, a Tracy sembrava che i due ragazzi dall’altro lato della strada stessero effettivamente per uccidersi a vicenda ma, guardando bene, ci si poteva accorgere della calma disarmante della ragazza e della furia omicida del ragazzo.
Li aveva riconosciuti subito. Era sollevata del vedere la persona che il giorno prima aveva trovato inerte sul pavimento riuscire a reggersi tranquillamente sulle proprie gambe e avere anche la forza di discutere così animatamente con la sorella.
Ora che lo guardava meglio riusciva quasi a percepire, dal suo aspetto fisico e dai ricordi della sera prima, uno stato d’animo quasi distruttivo. Non era alto, era minuto e magrolino, i capelli castani erano lunghi e raccolti in una mezza coda che gli scopriva le orecchie. La pelle era talmente pallida da sembrare grigiastra e Tracy, dall’altro lato del marciapiede, poteva benissimo notare le profonde occhiaie che gli sottolineavano gli occhi scuri. Non sembrava essere al massimo delle proprie energie, la schiena curva sembrava essere schiacciata da qualcosa di troppo pesante da riuscire a sorreggere.
Jake. Se ricordava bene, era quello il suo nome.
- Lì ci sono i due ragazzi di ieri.
- Li ho visti.
- Visto? – Maggie le tirò un pugno leggero sull’avanbraccio. – E tu che ti preoccupavi che potesse morire da un momento all’altro.
Tracy schiuse le labbra. – Io non mi… 
- Lo stai fissando.
In quel preciso momento lo vide voltarsi, puntare lo sguardo proprio verso di lei e aggrottare la fronte. Si affrettò a voltare la testa con uno scatto quando anche la sorella se ne accorse. Riuscì a vedere, con la coda dell’occhio, Maggie che si alzava sulle punte e agitava la mano sinistra in loro direzione per salutarli. Si appuntò mentalmente di buttarla fuori di casa.
 
 
Per qualche motivo che non riusciva assolutamente a comprendere, Tracy non riusciva a togliersi dalla testa l’avvenimento di tre giorni prima e della sera che lo aveva preceduto. Anche in quel momento, nello studio della dottoressa Warren, a pochi minuti dalla sua prima seduta singola in assoluto, si ritrovava a pensare per l’ennesima volta allo sguardo di quel ragazzo e all’infarto che si era quasi presa nel vederlo in quelle condizioni la prima volta che lo aveva incontrato.  Non riusciva nemmeno ad immaginare ciò che sarebbe potuto succedere se lei e Maggie non lo avessero trovato e chiamato quella che aveva dichiarato di essere sua sorella.
Si diede dell’idiota perché, in quel momento, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era concentrarsi e aspettare il paziente con calma e tranquillità. Appoggiò la testa allo schienale della sedia e cercò di spaziare coi pensieri. Proprio mentre stava riuscendo a recuperare un minimo di concentrazione sentì bussare alla porta. Con un respiro profondo si alzò, fece scivolare le braccia lungo i fianchi e rizzò la schiena.
“Non fare idiozie”, si disse mentre si piazzava davanti alla porta. “Pensa solo a ciò per cui hai messo piede in questo posto.”
Solo che, quando aprì la porta, si rese conto che i suoi problemi erano appena cominciati.
Si sentì sbarrare gli occhi e percepì la gola diventare secca.
La dottoressa Warren non le aveva nemmeno accennato la minima informazione sull’identità del paziente, ma Tracy tutto si era aspettata tranne il fatto di ritrovarsi la stessa persona la cui immagine le invadeva i pensieri da giorni.
Occhi scuri e pelle chiara, statura minuta, capelli lunghi e castani.
Vide il ragazzo davanti a lei alzare appena le sopracciglia. Sembrava sorpreso quanto lei, ma quando lo vide alzare gli occhi capì che non fosse entusiasta di quella coincidenza.
- Alla grande. – lo sentì dire tra i denti. Tracy cercò di non mostrare il proprio fastidio e lo fece entrare, indicandogli la poltroncina davanti alla scrivania che divideva la sua postazione da quella del paziente. – Può… Può accomodarsi lì.
Lo vide seguire ciò che gli aveva detto e a sua volta si sistemò sulla sedia mobile dall’altra parte della scrivania. Tossicchiò e deglutì leggermente, sollevando la testa per puntare lo sguardo su quello del ragazzo, che le sembrò scocciato e leggermente provocatorio. Si schiarì la gola e sorrise. Doveva farlo sentire a proprio agio, non doveva comportarsi in modo immaturo.
- Dottoressa Tracy Ziegler. E lei…
- E’ strano sentirsi dare del lei da una persona che pochi giorni fa mi stava fissando in modo decisamente poco professionale. – si sentì interrompere Tracy. La ragazza non si scompose, si limitò ad alzare le spalle e a continuare a sorridere. – Volendo essere pignoli, non avendoti ancora conosciuto sul posto di lavoro, il mio comportamento non ha avuto niente di poco professionale.
- Questo non significa che sia stato gradevole.
- A questo proposito mi scuso, non era mia intenzione farti sentire a disagio.
Jake assottigliò gli occhi inclinando leggermente la testa in avanti. – Mi sta dando del tu.
Tracy annuì appena. – Esatto. Come preferisci. O preferisce, dipende tutto da te. O da lei.
- Chi se ne frega. – Jake sospirò e si piegò in avanti. – Basta che finiamo al più presto.
- Posso sapere il tuo nome?
Effettivamente, sebbene lei lo conoscesse già, la dottoressa Warren non glielo aveva mai detto.
- Kiszka. Jacob Kiszka. Odio il nome Jacob, perciò mi chiamano tutti Jake. Quindi gradirei che lo facesse anche lei, ma mi chiami come le pare.
La giovane psicologa sorrise dolcemente. – Ma come? Mi rimproveri perché ti ho dato del lei, e poi lo fai tu?
- In questo momento per me è una persona che non conosco, come tutte le altre.
- Bene, dunque. – Tracy afferrò una penna dal contenitore di latta sulla scrivania, girandone il tappo un paio di volte. – Quanti anni hai?
- Ventitré.
- Hai la mia età. Non dirmi che dai del lei alla gente della tua età.
Jake fece un respiro profondo e puntò lo sguardo su quello della ragazza. – Allora? Devi intrattenermi ancora con questi giochetti idioti, o inizi a psicanalizzarmi ed esco da qui come una persona nuova e priva di qualsivoglia problema?
Tracy sorrise compiaciuta. – Mi hai dato del tu.
Lo vide alzare gli occhi al cielo, ma poteva giurare di averlo visto sorridere per una frazione di secondo.
- Come mai non ti piace il tuo nome?
- Non ho detto che non mi piace. Ho detto che lo odio.
- Be’, allora perché lo odi?
Vide il ragazzo puntare lo sguardo sul pavimento. Lo osservò mentre deglutiva e continuava a giocare con un anello di legno che aveva al dito. – Josh non mi ha mai chiamato Jacob.
Tracy batté le palpebre un paio di volte. Incrociò le dita delle mani, smettendo di sorridere e guardando il ragazzo nel modo più rassicurante possibile. – Ti va di dirmi chi è Josh?
Jake sollevò gli occhi, li puntò sulla parete e schiuse le labbra. Tracy vide gli occhi scuri diventare lucidi.
- No. – sussurrò semplicemente. La ragazza annuì, strinse le labbra. Forse non si sentiva sicuro, non si sentiva pronto. Forse era una cosa troppo importante, che faceva troppo male. Forse era il motivo per cui, quella sera, Jake era ridotto in quelle condizioni, il motivo di quel pallore e di quegli aloni neri sotto agli occhi.
- Appena vorrai aprirti con me, potrai farlo senza problemi.
- Non credo succederà mai. – la voce di Jake tremava.
Tracy si affrettò a cambiare argomento. – Da quello che sembra, non sei qui di tua spontanea volontà.
Il ragazzo deglutì e sembrò tornare leggermente in sé. – No, infatti.
- E tu non sei d’accordo con questa scelta che è stata fatta per te?
- Affatto.
La ragazza sorrise. – E’ stata Veronica, vero?
- Già. – sembrò riflettere per un secondo. – Mi aveva parlato di una certa Warren.
- E’ la mia superiore.
- Quindi in questo momento sono nelle mani di una principiante che potrebbe rovinarmi la sanità mentale con una sola frase?
- Posso assicurarti di aver studiato. E posso anche assicurarti che la tua sanità mentale resterà intatta.
Jake restò in silenzio. Osservandolo meglio, la ragazza notò la maglietta di Hendrix che indossava.
- Vedo che hai buon gusto in fatto di musica, Jake. – sorrise. Lo vide sollevare lo sguardo e cambiare posizione. – Sono cresciuto ascoltando i vinili che avevano i miei genitori in casa.
- Suoni qualcosa?
- Avevo una band. Suonavo la chitarra.
- Davvero? – gli occhi di Tracy luccicarono. – Come vi chiamavate?
- Greta Van Fleet. Non avevamo successo, ci limitavamo a suonare in piccoli locali o nel garage.
- Come mai vi siete sciolti?
Jake, per la seconda volta, sembrò assente. Continuava a spostare lo sguardo da una parte all’altra della stanza, come se si sentisse in trappola. – Io… Io non voglio parlarne.
Tracy cominciava a capire qualcosa della situazione. Cominciava a capire quali erano gli argomenti per cui Jake si sarebbe dovuto aprire da solo e che lei non avrebbe dovuto tirare fuori se non per il volere del ragazzo. – Come preferisci, Jake.
 
 
- Tieniti stretta queste parole e falle tue, Tracy. Un paziente ha bisogno di sentirsi a proprio agio, di potersi fidare. Non devi mai farlo sentire in trappola. – la dottoressa Warren parlò dalla poltroncina su cui era seduta, mettendo da parte i propri documenti e dando la sua massima concentrazione all’apprendista. – Quando noti il disagio di qualcuno, quando capisci che stai sfociando in un discorso che lui o lei fanno fatica a portare avanti, non mettere mai pressione al paziente. Molte volte è difficile per chiunque riuscire ad aprirsi subito, quasi impossibile. Si deve prima avere la completa fiducia nei confronti del dottore o della dottoressa. E una volta conquistata questa fiducia, è anche probabile che il paziente abbia voglia, a volte bisogno di parlare del suo disagio.
- Ma se dovessi avere bisogno di sapere un’informazione di questo tipo per comprendere meglio il problema e la persona? Sarebbe difficile portare avanti la seduta. – osservò Tracy. Danielle strinse leggermente gli occhi, come se stesse riflettendo. Annuì impercettibilmente.
- Mi hai fatto una domanda intelligente, Tracy. L’ho sempre detto che hai una bella testa. Sei curiosa, non ti vergogni di farmi domande quando c’è qualcosa che non ti è chiaro. – la dottoressa si grattò un sopracciglio. – Vedi, le prime volte si tratta solo di stabilire un rapporto con il paziente. Parlare di qualcosa che gli fa piacere, conoscerlo, fargli qualche semplice domanda anche solo per farlo sentire a proprio agio. Si tratta di intraprendere una normale conversazione, in modo che il rapporto piano piano vada ad approfondirsi e basarsi sulla fiducia nei confronti dello psicologo.
- E se non dovessi riuscire a conquistare quella fiducia?
Danielle sorrise. – Sono fermamente convinta del contrario.
 
 
- Oltre alla musica, hai altre passioni? Altri interessi?
Tracy non poteva dire di aver visto Jake aprirsi più di tanto. Per la maggior parte del tempo aveva risposto a monosillabi, ma quell’atteggiamento di rifiuto e menefreghista era quasi andato via. Sembrava sentirsi più a suo agio rispetto al momento in cui era entrato, o almeno quella era l’impressione della dottoressa.
- Sono attratto dall’arte in generale. Mi piace la letteratura, il cinema. Anche la cucina.
- Hai un libro o un film preferito?
- No, non direi. Posso dire di apprezzare i libri di Murakami, però.
- Piace anche me. – sorrise Tracy. – Il mio preferito è Dance dance dance.
- Bella scelta. – il ragazzo scrollò le spalle. – Però preferisco Kafka sulla spiaggia.
- Un po’ me lo ricordi, Kafka.
- Chi, il ragazzino?
- Esatto.
- Lo odio. – Jake incrociò le braccia al petto e rizzò il collo. – E’ forse l’unico personaggio del libro che ho detestato.
Tracy rise leggermente. – Non era mia intenzione insultarti.
- Figurati.
- Sai perché me lo ricordi? – la ragazza ripose la penna nel contenitore cilindrico. – E’ questa tua indipendenza, in un certo senso.
Jake aggrottò la fronte. – Indipendenza? Mi stai sentendo parlare da mezz’ora e già mi metti delle etichette?
- Non è un’etichetta, Jake. – rispose semplicemente Tracy. – Solo, l’ho capito l’altro giorno, quando ti ho sentito imprecare contro Veronica rifiutando di venire qui.
- Ah, quindi è sottinteso che stavi anche origliando, oltre che fissarmi.
- No, veramente ho intuito. – Tracy si attorcigliò un ricciolo su un dito. – E tu mi hai dato la conferma che le mie intuizioni erano corrette.
 

 
In un certo senso, l’atteggiamento della ragazza gli stava dando leggermente sui nervi. Non sapeva spiegarne il motivo. Forse era per il fatto che riusciva a tenergli testa, che riusciva a rispondergli a tono qualsiasi cosa dicesse. Gli succedeva con poche persone. Probabilmente solo Josh ne era in grado, insieme a Veronica. Di Tracy non lo avrebbe mai pensato. Non glielo aveva fatto intuire quell’atteggiamento che aveva avuto giorni prima, quando non appena lui aveva volto lo sguardo in sua direzione lei aveva distolto il suo, evidentemente imbarazzata.
Il problema era che non sapeva se esserne piacevolmente colpito o infastidito. E, soprattutto, quella seduta se la sarebbe aspettata diversa. Aveva passato quei tre giorni a pensare a quanto stressante e noioso sarebbe stato avere una professionista d’età avanzata che gli riempiva la testa di domande. Di Tracy aveva notato un’altra cosa: gli stava lasciando i suoi tempi, i suoi spazi. E, ancora, non sapeva se prenderla come una cosa negativa o positiva. Era un lato della situazione che lo faceva a suo agio ma che gli faceva capire di aver automaticamente torto, perché non era così male come si era immaginato.
Aveva scoperto anche di avere molte cose in comune con la giovane psicologa: ad entrambi piaceva scrivere e leggere, amavano gli stessi artisti musicali e gli stessi film. Ed era una buona forchetta.
- Ho origini italiane. Mia madre è di Palermo, mio padre invece è nato qui a Detroit. Spero ti piaccia la nostra cucina. – gli aveva detto tra una chiacchierata e l’altra. – Un giorno, se ti va, posso portarti un cannolo siciliano.
- Un che?
Tracy aveva strabuzzato gli occhi. – Non sai cosa sia un cannolo?
- No.
La ragazza aveva sorriso e aveva cominciato a gesticolare con le mani. – Sai, è un dolcetto tipico. E’ una cialda fritta con al suo interno della ricotta zuccherata. Puoi aggiungerci qualsiasi cosa per arricchirlo, ovviamente deve starci bene. Gocce di cioccolato, granella di pistacchi o di nocciole. Se ti piace la cucina, dovresti proprio provarlo.
Jake si era limitato ad annuire. La genuinità di Tracy era l’unica cosa che gli aveva fatto cambiare idea sull’opzione di prendere a calci sua sorella una volta tornato a casa.  
Dopo un momento di silenzio, sentì Tracy prendere fiato. – Come stai, Jake?
Il ragazzo alzò lo sguardo che aveva puntato in precedenza sulle proprie scarpe e la guardò. Vide della sincerità negli occhi castani di Tracy, capì che l’unico scopo che aveva quella domanda era esattamente ciò che significava. Alzò le spalle. – Come sta uno che è nello studio di una psicologa.
- Be’, a tal proposito posso dirti che questa tua frase non implica nulla. – disse semplicemente Tracy. – Molti pazienti vengono qui con l’unico scopo di farsi una chiacchierata. A volte sono anche contenti o soddisfatti. Ti dirò, ci sono anche persone che vengono qui dentro per raccontare quanto siano felici dell’andamento della loro carriera o della loro vita in ambito familiare.
Jake aggrottò la fronte. – E che cazzo di senso avrebbe? Non possono parlarne con i parenti?
- Magari c’è un buon rapporto tra psicologo e paziente.
- Io e te ci conosciamo da poco più di quaranta minuti. In secondo piano, ti direi che sto come uno che pochi giorni fa hai trovato svenuto nel suo vomito davanti ad un pub.
- Traendo le mie conclusioni, direi che il tuo stato d’animo non è dei migliori.
- Che intuito acuto.
Tracy si scostò i ricci dal viso. – C’è qualcosa che ti fa stare bene? Che è la tua valvola di sfogo ogni volta che non sai dove andare?
Jake batté le palpebre e respirò profondamente. Pensò a tutti i momenti della sua vita passati con la sua chitarra sulla gamba destra, al modo in cui sfogava tutta la rabbia che provava in quelle corde, alla soddisfazione che provava nel sentirsi suonare. Solo che quella chitarra, quella Gibson rossa che ne aveva passate di tutti i colori insieme a lui e alla sua frustrazione, era chiusa nella sua custodia da un anno, così come tutte le altre. Non aveva più trovato la forza per riprenderla dopo che Josh era andato via, perché senza di lui che cantava sopra alle sue basi, senza il basso di Sam, niente di tutta quella musica sembrava avere più un senso.
 
 
- Jake, ti va di suonare qualcosa? La mia batteria ne sarebbe entusiasta, non vede l’ora. E’ da tanto che io e te non suoniamo e la tua amata Gibson è a prendere polvere. Ti sei completamente dimenticato del più grande amore della tua vita? – Danny afferrò le bacchette dalla sacca che aveva sulle spalle e le puntò verso quell’amico che reputava un fratello. A sua volta, il batterista era a pezzi. Ormai, come tutta la famiglia Kiszka gli aveva sempre detto, lui faceva parte di loro. Era un quinto fratello, quella figura così importante di cui ci si poteva fidare qualsiasi cosa succedesse.
E c’era Sam.
Sam, per cui Danny aveva completamente perso la testa. Per la sua allegria, per quella spontaneità e quella dolcezza che lo aveva fatto irrimediabilmente innamorare fin da quando erano solo dei bambini. Aveva scoperto la sua omosessualità proprio grazie a Sam, ed era stato l’unico che, per ben tredici anni, gli aveva fatto provare quel turbinio di emozioni. E nonostante Danny fosse a conoscenza dell’eterosessualità di Sam, del fatto che amasse una ragazza, non aveva mai smesso di provare quelle sensazioni.
Un giorno lo aveva preso da parte, quando ancora avevano diciott’anni e non immaginavano nemmeno ciò che sarebbe successo poco tempo dopo. Gli aveva detto tutto, aveva buttato fuori qualsiasi cosa, nonostante avesse paura che ogni tipo di legame con il ragazzo sarebbe potuto finire. Lo aveva visto osservarlo per tutto il tempo, con gli occhi scuri puntati su di lui e con quell’espressione seria sul viso. Quando aveva finito, aveva continuato ad osservare Sam con gli occhi incerti e quasi terrorizzati. Per un attimo si era pentito, ma poi lo aveva visto sporgersi verso di lui e stringerlo forte a sé. Quella reazione era stata così da Sam, ed era uno dei motivi per cui Danny lo aveva sempre reputato la persona che amava. Quella gentilezza e quell’empatia.
Che adesso sembravano completamente sbiadite, scomparse. Ora Sam non sembrava essere più se stesso. Quelle barzellette che facevano sempre ridere Danny ora erano frasi sconnesse, quegli occhi sereni e vivaci erano sbiaditi e tristi, come vetri rotti. Nonostante tutto, però, Danny lo amava ancora. E non avrebbe smesso di amarlo.
Però, nonostante capisse Jake e la sua famiglia più di chiunque altro, non sopportava il fatto di vedere il suo migliore amico in quelle condizioni. Ogni giorno vedeva Jake stare sempre peggio, diventare sempre più magro e pallido. Ogni giorno Jake gli sembrava sempre meno Jake.
A sentire quella richiesta, l’amico aveva semplicemente scosso la testa, continuando a guardare lo schermo del suo cellulare con aria distratta e sconnessa. E se il chitarrista poche volte aveva visto Daniel Wagner perdere la pazienza, quella era una delle poche.
Danny aveva fatto un respiro profondo.
- No, non va bene. – aveva detto, inizialmente calmo. – Non va assolutamente bene.
Aveva afferrato il telefono che Jake teneva tra le mani, lo aveva lanciato lontano, in un punto imprecisato della stanza. Jake aveva spalancato gli occhi e lo aveva guardato incredulo, vedendo l’amico fissarlo ansimante.
- Ti rendi conto di quello che cazzo stai diventando, Jake? – aveva gridato, piantando i piedi sul pavimento. – Io non ti riconosco. Non riesco a capire chi tu sia. Tu non sei Jake. Jake non è così. Jake guarda le persone in faccia quando parlano, quando Jake è arrabbiato sfoga la sua rabbia su una benedetta chitarra, non se ne sta tutto il tempo chiuso in casa senza parlare nemmeno con quello che pensava di essere il suo migliore amico.
Jake vide gli occhi di Danny luccicare di lacrime.
- Chi sei, Jake?
 
 
- Tutto bene, Jake?
La voce di Tracy lo fece risvegliare, lo scosse. Ricordò le parole di Danny, ricordò la sua rabbia, la sua espressione.
“Chi sei, Jake?”
- Al momento… - respirò profondamente e cercò di trovare le parole, nonostante gli venisse difficile. – Al momento non c’è nulla che mi faccia stare meglio.
Vide l’espressione di Tracy cambiare, la vide abbassare lo sguardo e increspare le labbra. La ragazza fece un respiro profondo. – Penso già di sapere la risposta alla domanda che sto per farti, ma… Dato che questa è una seduta singola e non ne sono state prenotate altre da Veronica… - la giovane psicologa puntò nuovamente lo sguardo su di lui. – Tornerai, la prossima settimana?
Jake fece viaggiare lo sguardo da una parte all’altra della stanza. Vide gli attestati e i certificati della dottoressa Warren sul muro, osservò le pareti pitturate di un giallo talmente chiaro da sembrare quasi bianco, l’orologio che indicava le otto meno cinque. Spostò gli occhi dal muro alla ragazza che lo stava guardando sorridendo. Gli scappò il primo sorriso di quella sera. Era un sorriso accennato e sdentato, ma non era uno dei soliti sorrisi di circostanza che gli era toccato fare diverse volte nei mesi precedenti. Poteva definirlo un sorriso sincero.
- Ci penserò su.
 
- Allora? E’ stata una cosa così terribile? – gli domandò Veronica una volta tornato a casa, mettendogli davanti al viso un hamburger non ancora ben cotto.
Jake si morse il labbro e la guardò. – La dottoressa Warren è la superiore di una certa Tracy Ziegler.
- E chi sarebbe, Tracy Ziegler?
Il ragazzo accennò un altro sorriso.
-  E’ “la ragazza che mi ha salvato il culo prendendo il mio cellulare e chiamandoti”.
   
 
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