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Autore: Ellie_x3    17/08/2019    2 recensioni
A volte a Chuuya mancava qualcuno che gli tenesse compagnia senza essere...beh, Dazai.

La stessa persona che aveva “sbadatamente” dato fuoco al suo armadio e che gli hackerava la carta di credito ogni due giorni e che a volte camminava per casa nel cuore della notte, i piedi scalzi e l’espressione vuota, in preda ai fantasmi dell’inquietudine.
Convivere con quell'idiota era un lavoro a tempo pieno.
Tuttavia, più spesso di quanto volesse ammettere, si era chiesto come avesse fatto a sopravvivere in quattro anni di separazione.
[Dazai Happiness Week 2019]
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Dig Us a Grave and Kill Me Softly



Come l’aveva chiamato Mori-san?

Ah, già.

'L’ex migliore amico di Dazai', quando in realtà il bastardo non l’aveva mai considerato tale: se avesse avuto bisogno d’aiuto Chuuya non sarebbe stato il suo primo pensiero.
Oda non era morto perché lui corresse alla Port Mafia al primo problema, nonostante fossero entrambi coscienti dell’occasionale vantaggio di allearsi con il nemico. Dazai avrebbe chiamato Atsushi di cui si fidava ciecamente e Kunikida, il suo povero, paziente partner, o Yosano. Ranpo, anche se Chuuya non era certo della misura in cui il detective migliore della città sarebbe stato interessato ad aiutare qualcuno che non fosse sè stesso.
Ma no, Chuuya era l’ultima persona che Dazai avrebbe chiamato e, presto o tardi, Dazai se ne sarebbe andato di nuovo.
Dazai — spreco di bende, spreco di spazio, spreco di sentimenti — avrebbe nuovamente gettato dalla finestra qualsiasi aspettativa Chuuya avesse e gli stava bene, perchè non aveva ancora imparato e, davvero, a questo punto era colpa sua tanto quanto di quell’idiota bendato.
Se ne andrà.
Quella semplice realizzazione aveva trasformato l’avere a che fare con Dazai nell’equivalente emotivo di aprirsi taglio nella carne e spruzzarlo di sale, non necessario e doloroso, ed il valzer di insulti a cui credeva di essere abituato aveva iniziato a scavare nel suo autocontrollo.

Aspettiamo.
Fino a quel momento—

Dazai se ne sarebbe andato.
Non quel giorno, forse non quello seguente, ma ogni volta che Chuuya si chiudeva la porta alle spalle non era sicuro di cosa avrebbe trovato ad aspettarlo.

“Oi, Dazai.”
Dazai aveva a malapena alzato gli occhi dal libro dalle pagine mangiucchiate, con la familiare copertina rossa consumata a forza di essere spiegazzata; Chuuya spinse il ricordo che si trattava di un manuale sul suicidio nel fondo della propria mente, dove non poteva fare danni.
“Hm?”
“Qual è la tua opinione su questa,” gesticolò fra di loro, “questa cosa?”
“Cosa intendi? Oh, no, chibikko ha mangiato qualcosa di strano e sta vaneggiando.”
Chuuya sbuffò.
“Magari voglio iniziare ad avere un po’ di stabilità.”
Non pretendeva che un executive della mafia potesse avere vera stabilità, ma vivere con Dazai era un fottuto mare in tempesta. Nemmeno quella domanda fu sufficiente ad ottenere l’attenzione dell’uomo, che si aprì in un ghigno di scherno con gli occhi ancora puntati sulla pagina.
“Stabilità~? Magari una villetta in campagna e una cuccia? Oh, Chuu~ya, sei proprio un cane—”
“Dacci un taglio con questa storia del cane, Dazai.”
Dimenticando il libro Dazai si immobilizzò, gettando indietro la testa per incrociare lo sguardo dell’ex partner.
Ah?”
“Mi stai davvero stancando.”
“Chibi si è offeso?”
“Non sei in grado di dire una cosa gentile, ogni tanto?”
“Perchè, il mio chihuahua ha bisogno di conferme?”
“Vaffanculo,” sbottò, cogliendo il principio di sorriso che stava già curvando le labbra dell’altro.

Se ne andrà e lo farà con il sorriso e tu chi sei per dire ad Akutagawa di non farsi illusioni e smetterla di corrergli dietro?
Maledizione, Chuuya. Sei un executive della Port Mafia, non una scimmia ammaestrata.

Animato dal bisogno di colpire qualcosa, Chuuya si alzò, allontanandosi dalla poltrona su cui era stato accoccolato fino a quel momento con abbastanza rabbia che, nell'istante in cui posò un piede sul pavimento, fece tremare ogni soprammobile in preda al suo personalissimo terremoto. 

Nessuno ama quel disagiato perché è Dazai, a meno che tu non sia un idiota o Jinko, ricordò, infastidito dalla propria stessa idiozia, ami Dazai nonostante sia Dazai.
Quanti nonostante aveva accumulato negli anni; quanti, per essere ancora lì a commettere gli stessi errori, a farsi ribollire il sangue e cadere negli stessi trucchetti che Dazai sapeva l’avrebbero infastidito.
Senza una parola Chuuya si chiuse in camera, lasciandosi cadere sul letto con un sospiro pesante.

Se ne andrà di nuovo.

Da un po’, ogni volta che Dazai si riferiva a lui come al suo cane o il suo tirapiedi — un vecchio scherzo che, tuttavia, non mancava mai di mordere via un pezzo della sua pazienza, della sua autostima — il cuore di Chuuya si stringeva in una morsa: era leale e amava la compagnia e non gli piaceva essere abbandonato, e allora? Non erano tratti umani? 
Era un problema essere feriti dopo anni da un ex partner che svaniva nel cuore della notte?
Si fidava di Dazai sul campo di battaglia: gli avrebbe consegnato la propria vita senza batter ciglio e sarebbe saltato ad occhi chiusi da una scogliera sapendo che l’altro l’avrebbe preso ma, proprio perchè lo conosceva, non si fidava di lui in ogni altra cosa.
Dazai non osò provare a scassinare la serratura, eppure Chuuya sospettava che sapesse che non l’aveva mai chiusa a chiave.

 

- - -

 

“Chuuya?” 
Chuuya aveva esitato, incapace di alzare gli occhi. Sentiva il respiro tiepido di Dazai sul viso e una voce gli diceva di chiudere gli occhi e smettere, smettere di pensare, ma era in trappola, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quel sorriso che sembrava scavato nell’acciaio e che sapeva non raggiungere gli occhi dell’ex partner. Non era certo di poter guardare qualcosa che non fossero le sue labbra e domandarsi come potesse esistere qualcosa di così invitante e deludente al tempo stesso.
Lasciò che il suo nome echeggiasse fra loro, una domanda che riempiva lo spazio che Chuuya non aveva più la forza di colmare.
Era un adulto e non aveva intenzione di rimanere fermo il momento in cui Dazai si sarebbe allontanato: un altro capitolo lasciato a metà, chiuso senza degnarsi di ridare le chiavi perchè comunque le avrebbe bruciate o fatte esplodere, o avrebbe trovato un modo di usarle per ferire sè stesso e tutti coloro che tenevano a lui.
“Chibi?” 
Un altro nome fra di loro, sospeso, come se dovessero essere separati da qualcosa: un suono, la distanza, due intere organizzazioni.
“Lascia perdere,” aveva sussurrato Chuuya tirandosi indietro, “se non hai niente da dire, smettila di ripetere il mio nome. Cazzo, mi fai venire i brividi.” 
Il respiro di Dazai e la vicinanza delle labbra che aveva fissato fino ad un secondo prima lasciarono un vuoto gelido nel momento in cui l’uomo obbedì e mosse due passi indietro, distogliendo lo sguardo.
Era così che avevano ripreso ad ignorarsi in quei giorni, sin dal momento in cui Chuuya si era chiuso per primo. Dazai aveva provato, pazientemente ma senza troppo impegno, a fare qualche scherzo ma il suo poco mordente e l’atteggiamento rassegnato avevano infastidito Chuuya, che l’aveva ignorato con ancor più insistenza. 
L’aveva ignorato e avrebbe voluto che fosse più difficile, finché una sera non era esploso.


Doveva succedere.
“Fino a quel momento” non poteva durare per sempre.

Come spesso gli accadeva, Chuuya non dava vita alle peggiori discussioni per qualcosa che lo riguardava direttamente; ma, ehy, sin da ragazzino era sempre stato bravo a prendersi fin troppo a cuore i casi disperati. Per come la vedeva lui, non c’era nulla di fragile come il leggero tremore nella voce di Akutagawa mentre chiamava Dazai, il suo sguardo basso, il broncio più cupo del solito, le sue mani affondate nelle tasche come se stringersi nelle spalle potesse renderlo più piccolo, meno prono ad essere colpito.
Dazai-san. Un nome così semplice da pronunciare, così chiaramente lanciato nel silenzio in attesa, se non di una risposta, di un istante di riconoscimento.
Uno stupido, insulso momento d’attenzione.
Ma Dazai l’aveva guardato, abbassando gli occhi sulla figura tesa e scura del ragazzo che sperava in una risposta e aveva passato quasi distrattamente un braccio sulle spalle di Atsushi, dedicandogli tutta la sua attenzione ed un sorriso luminoso.
Jinko era sobbalzato al contatto.
Chuuya avrebbe sorriso se non avesse notato anche il morale di Akutagawa che cadeva a pezzi.
“Beh, qui abbiamo finito, no?” aveva trillato Dazai. Chuuya aveva stretto i pugni.
“Pessimo lavoro di squadra come sempre, ma ci arriveremo. Ora, Atsushi-kun, è ora di pranzo e qualcuno qui si è meritato del chazuke—”
Jinko aveva protestato ma Dazai aveva riso, sventolando l’ennesima carta di credito non sua (Chuuya si era prontamente tastato le tasche per controllare che quell’idiota non gli avesse sfilato il portafogli mentre era distratto).
Il mondo sembrava pesare ancora un po’ di più sulle spalle di Akutagawa.
Quella sera, Chuuya aveva giurato che non gliel’avrebbe fatta passare perchè era da quando avevano sedici anni che guardava lo spettro di Dazai ingrandirsi in ogni gesto e in ogni silenzio di Akutagawa — di Ryunosuke, per l’amor del cielo, era un ragazzino — ed aveva esaurito la voglia e la pazienza di non dire nulla.


“Oi, spreco di bende, è l’ultimo avvertimento: se non la smetti di trattare Akutagawa come se fosse una pedina ti uccido,” seduto ad una tavola già liberata dalla cena, Chuuya alzò gli occhi sul proprio partner, “e sono serio.”
L’espressione pigra che esitava sulle labbra di Dazai fino ad un secondo prima si piegò all’ingiù, qualsiasi traccia di indulgenza lavata via dalla minaccia. Con un gesto disinvolto smise di asciugare i piatti, posando delicatamente il canovaccio sul bancone per voltarsi.
“Oh? Cos’ho fatto questa volta?” le labbra del detective si curvarono in un accenno di sorriso, ma era distante. “Riguarda oggi?”
“Il ragazzo ci tiene, Dazai. Se vuoi che lavorino insieme prova almeno a fingere di trattarli alla pari.”
Immediatamente, Dazai inclinò il capo di lato come avrebbe fatto un animale incuriosito.
“Non ne ho alcuna intenzione,” rispose.
Aveva gli stessi occhi vuoti e sorpresi di una bambola.
Due pezzi di vetro.
“Sei il peggiore degli stronzi.” lo accusò Chuuya sentendo la sincerità appesantire ogni sillaba, vedendo qualcosa a cui non sapeva dare un nome scintillare dietro la maschera di Dazai.
L’unica emozione autentica ad animarlo, in quel momento, era la sorpresa.
“Come al solito, Chuuya non è molto bravo a spiegarsi.” replicò, puntellando la schiena contro il bancone, “non vedo perchè dovrei trattarli ugualmente. Non lo meritano, e Atsushi ha chiaramente bisogno di più—”
“Jinko ha bisogno esattamente di quello di cui ha bisogno anche Akutagawa, imbecille.”
“Non vedo perchè dovrei mentirgli.”
“Ma sei serio?” abbaiò, sentendo la frustrazione intorpidirlo.
Arahabaki brontolava, da qualche parte nel buio, facendogli sfarfallare davanti agli occhi immagini sanguinolente, modi in cui poteva evitare quella conversazione facendo esplodere la città intera. Infastidito, fece schioccare la lingua. Dazai era un imbecille, ma non meritava di essere polverizzato per la sua inettitudine.
“Non te ne frega davvero niente di un ragazzino che tu hai reso quello che è oggi? Onestamente, mi chiedo come ragioni a volte, perchè sembra che tu non sia mai cresciuto. Mi sembra che tu abbia bisogno di veder morire qualcun altro prima di renderti conto che non sei una brava persona, mackerel.”
Gli occhi dell’uomo si strinsero, due fessure che avevano perso ogni traccia dell’ambrato che Chuuya riconosceva essere merito dell’agenzia e della luce verso cui era stato spinto. In quel momento Dazai restava immobile, i gomiti coperti dalle bende posati sulla superficie liscia della cucina e aveva la sensazione che gli sarebbe potuto saltare alla gola da un momento all’altro.
“Non voglio veder morire nessuno,” sibilò.
Una minaccia ed un invito a stare zitto: Chuuya sapeva che Dazai non poteva sopportare che qualcuno nella mafia nominasse ancora Oda, non dopo quello che Morì aveva fatto e l’intera organizzazione aveva spalleggiato. Sapeva anche che, a volte, il detective credeva di non averne il diritto lui stesso. 
“Allora dovresti rivedere questo tuo atteggiamento da psicopatico, perché prima o poi ti ritroverai con un cadavere fra le braccia,” soppensando le parole si umettó le labbra, “e questa volta sarà colpa tua.”
L’altro lo fissó in silenzio, l’espressione terribile e distante che ricordava gli anni della mafia; gli anni in cui l’unica sfortuna di nemici di Dazai era quella di essere nemici di Dazai. Gli anni in cui era stato una tagliola sempre sul punto di esplodere ed uccidere, e non era mai una fine pulita. 
Tuttavia, Chuuya si strinse nelle spalle. Qualcuno doveva dar voce alla disperazione che spezzava gli occhi di Akutagawa mentre il suo mentore si allontanava per l’ennesima volta, e quel silenzio era la peggiore delle offese.
“Oh, mi spiace che la realizzazione di non essere migliorato di un solo giorno rispetto a quando hai lasciato la mafia ti offenda.”
Non che fosse completamente vero: Dazai era migliorato, nonostante fossero sforzi mirati solo a chi non l’aveva conosciuto prima, ma si sforzava di sorridere di più e soffrire di meno. Tuttavia, Chuuya voleva solo aprirgli la testa per vedere se c’era solo granchio in scatola e ghiaccio e crudeltà. Voleva capire se aveva sperato invano che Akutagawa potesse essere riconosciuto da quell’uomo che pareva non apprezzare nulla.
“Non esagerare, Chuuya.” 
“Oh, ho finito, non preoccuparti. Ma lascia che ti dica una cosa prima, potresti trovarla interessante.”
“Ne dubito,” sussurrò Dazai, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, “ma prego.”
“Non c’è un lato che salva le persone e uno che le uccide: è una cazzata semplicistica di qualcuno che non ha mai capito l'organizzazione, e cambiare lavoro di per sè non ti rende migliore, nonostante la vostra stupida agenzia si fregi di essere questo e quello. Essere dalla parte dei buoni, qualsiasi cosa voglia dire, non ti rende meno una persona di merda se ricadi sempre nelle stesse abitudini e smettere di uccidere non vuol dire niente se continui a ferire senza neanche rendertene conto.”
“Chuuya—

Un nuovo avvertimento, ma Chuuya strinse i pugni.
“No. Quello che fai ora ti rende solo un cazzo di ipocrita, e sono sicuro…” esitó. Era troppo? Probabilmente. Se ne sarebbe pentito? Sicuro. Lo pensava davvero? Ogni parola. “...E sono sicuro che se vedesse che sei lo stesso di sempre, tossico e figlio di puttana, il tuo prezioso Oda Sakunosuke si pentirebbe di aver mai suggerito ad uno come te di avvicinarsi a delle brave persone.”
Senza aspettare che finisse, pallido come un fantasma e altrettanto minaccioso, etereo nelle sue bende e con quegli occhi spenti e la pelle come carta velina, nel momento in cui il nome di Oda aveva riempito la stanza Dazai aveva stretto le labbra ed era uscito dall’appartamento senza dire una parola.

 

Il giorno successivo le loro interazioni non erano andate oltre il 'non mi parlare, Chuuya'.
Dazai si era silenziosamente trasferito nella propria camera, quella che non puliva mai nè si preoccupava di tenere in ordine, e Chuuya aveva inghiottito milioni di mi dispiace perchè no, perchè Dazai non si era mai scusato con Akutagawa.
Chuuya sapeva di aver toccato un nervo scoperto. Vedeva il modo in cui Dazai si guardava le spalle e sobbalzava ogni volta che entrava nella stanza come se si aspettasse qualche altra sberla emotiva e lo fissava con un rancore che non riusciva a mascherare, ma ciò non scusava il dolore che aveva inflitto lui fino a quel momento.
Pochi giorni dopo il detective aveva concordato con Fukuzawa che probabilmente non era una cattiva idea tornare nei dormitori: certo, l’appartamento era più comodo e il fatto che se ne stesse fuori dai piedi permetteva ad Atsushi e Kyouka di avere stanze separate, ma Dazai aveva silenziosamente tirato un sospiro di sollievo.
Stava diventando tutto troppo serio, troppo in fretta.
Le parole di Chuuya lo tormentavano, avevano aperto una slabbratura che bruciava e non ne voleva sapere di chiudersi, ma era difficile convincersi che l’avesse fatto per puro desiderio di ferirlo: lo pensava davvero, ogni singola parola.
E Dazai sentiva la paura immobilizzarlo perchè aveva la sensazione che avessero tenuto il freno tutta la vita sulla loro relazione ed ora si era ridotto ad un pericoloso o tutto o niente, o stare immobili o schiantarsi contro un muro a tutta velocità.

 

Me ne vado, chibi è troppo noioso~
Era ora.

 

Ed era finita così, in non detti che si portavano dietro dall’adolescenza e nuove ferite aperte perché erano degli stupidi e sapevano che sarebbe andata così, ma ci avevano provato comunque. 
Vedi? Avrebbe voluto urlare Chuuya, nonostante una voce serpeggiante gli sussurrasse che era colpa sua. Ti amo, mi dispiace, ti sto allontanando e perchè diavolo me lo stai lasciando fare?
Era tutto intrappolato nella gola dell’executive, ma aveva la sensazione che Dazai non se lo meritasse. A volte assumeva la forma aggressiva di un “ammettilo che mi ami e dillo, spreco di tempo e di spazio” urlato nella sua mente, a volte lo sussurrava ad una stanza vuota. L’unica certezza era che nessuno avrebbe fatto quel passo. Era sempre così: Dazai aveva lasciato perdere e lui lo aveva lasciata andare.
Chuuya lo aveva sempre saputo.
“'Fino a quel momento', hm?” mormorò a sè stesso, accendendosi una sigaretta con un sospiro. “Pare che sia arrivato prima di quanto pensassi.”

 

- - -

 

Inaspettatamente, fu il lavoro a far piovere una soddisfazione sulla testa dell’executive, oltre che una piacevole distrazione dalla casa improvvisamente vuota e silenziosa: il fu Yamaguchi Gumi, un vecchio gruppo distrutto dalla guerra, aveva artigliato le poche risorse che gli erano rimaste ed aveva iniziato a scavare le fondamenta per il proprio ritorno. Una talpa grassa e cieca, l’aveva definita Mori, intorpidita dagli anni di inattività e dall'ozioso periodo d’oro che aveva vissuto prima del conflitto. Ad ogni modo, era un embrione ancora vivo che andava schiacciato.
Il nuovo clan avrebbe fatto il proprio ingresso sulla scacchiera di Yokohama ad un party in cui non si sarebbero scambiati solo valzer e cocktail occidentali, ma appalti e segreti di stato: la Port Mafia era naturalmente invitata, ma Chuuya non si aspettava certo di essere chiamato a supervisionare la situazione.
Questo finché Kouyou non aprí un armadio gli rivolse un sorriso enigmatico che costrinse il ragazzo a sollevare un sopracciglio. 
“O’nee-San?” 
“Hirotsu-san nei molti anni di servizio ha stabilito buoni collegamenti: presenzierà formalmente mentre tu e Akutagawa rimarrete in incognito.” spiegó la donna, inclinando delicatamente il capo, “capisci la necessità della copertura, non è così?”
“Naturalmente,” mormorò lui, muovendo appena le labbra.
Quel genere di missione riportava a galla vecchie missioni di Soukoku, ma tenere sotto controllo le proprie emozioni era la prima lezione che O’nee-san gli aveva impartito.
“Chuuya,” Kouyou sospirò. Era un suono leggero che gli ricordò un petalo durante la fioritura, ma che mal celava una nota di disappunto, “Cosa vuoi chiedere?”
“Non capisco il motivo di questa missione, O’nee-san.” ammise.
Poteva mandare Gin o Higuchi: dopotutto, entrambe lavoravano bene con Ryunosuke, e il comportamento del ragazzo sembrava più stabile da quando era obbligato a collaborare con Jinko. Non c’era motivo di tirare fuori una vecchia mascherata, il ricordo di una partnership che ora era solo una slavata sfumatura grigio — lo stesso grigio del tulle scintillante che avvolgeva l’ampia gonna dell’abito da sera —, ma broncio di Kouyou gli fece capire di aver posto le domande sbagliate.

“Hirotsu-san sarà sotto sorveglianza e Mori-san intende mettere in campo le pedine migliori.”
“Perchè?”
“Non credere che non abbia provato, ma Mori-san è…incredibilmente poco collaborativo, come sempre,” la donna strinse le labbra, “ti prego di agire secondo le sue richieste, non c’è molto altro che tu possa fare.”
L’executive strinse i pugni e respiró a fondo il profumo di incenso e fiori nella stanza.
O’nee-san lo calmava, l’aveva sempre calmato.
“Se abbiamo già delle informazioni sugli obiettivi posso agire facilmente su di loro.”
Non mi riconosceranno mai, ed ho bisogno di sporcarmi le mani.
Ho bisogno di sentire il sangue, qualcosa che mi ricordi che sono umano e non solo un esperimento e una bomba ad orologeria.
O'nee-san, ti prego...
“Con calma, Chuuya,” mormorò la donna con una risata leggera, “vedremo se si presenterà l’occasione.”
Incapace di contraddirla, Chuuya annuì. La donna aveva pensato che il giovane executive fosse a caccia di gloria offrendosi di annullare tutti i target da solo, ma per lui si trattava di mera sopravvivenza.
In quel momento voleva solo togliersi i guanti e prendere a pugni un sacco da boxe fino ad aprirvi una voragine, fino a che il suono della pelle lacerata e la sabbia che cadeva sul pavimento non fossero l’unica cosa che gli riempiva le orecchie; fino a che il legno di una tavoletta spezzata e l’odore pungente delle nocche insanguinate non avrebbe avvolto qualsiasi altra sensazione in una pellicola, soffocandola. 

“Ah, e Chuuya?”
Chuuya si era voltato con una mano giá posata sul legno della porta scorrevole. Ikebana, cerimonia del tè, trucco, assassinio: Kouyou gli aveva insegnato tutto quello che sapeva per affinare un diamante grezzo, un ragazzino che conosceva solo la forza della gravitá e una responsabilità prematura, ma raramente aveva sentito un tono così dolce da quando era diventato a tutti gli effetti un adulto. 
Kyouka-chan era la destinataria di quella voce, spezzata da una nota di malinconia eppure delicata come una foresta di bambú mossa dal vento.
“O’nee-san?”
“Mi sono arrivate delle voci; puoi fare molto di meglio.”

 

- - -

 

“Kuuunikiiida-kuuun~”
Il cuore di Chuuya perse un battito.
Di nuovo. La loro relazione, qualunque essa fosse, arrivava ad un punto di stallo e di nuovo, di nuovo, se lo trovava davanti con un sorriso. 
Maledizione. 
Lanciando un’occhiata ad Akutagawa, che tossí ma riuscì ugualmente ad annuire, Chuuya pregó che la missione e la credibilità di Hirotsu non venissero intralciate dallo spreco di bende e dal patetico teatrino dell’Agenzia dei detective armati. Dopo un suo cenno Akutagawa sparí nella folla senza dire una parola nè tradire alcuna emozione, l’ombra nera di Rashomon inghiottita da haori colorati e giacche eleganti, da ventagli e vestiti da sera, e Chuuya lo invidiò perchè se non avesse avuto dei maledetti tacchi avrebbe potuto svanire nello stesso modo.
Se.
Prima che potesse seguire il collega, sentí una voce alle proprie spalle: una risata allegra perché quell’idiota sembrava sempre felice di essere ovunque fosse…eccetto quando era con lui, chiaro.
Il giorno peggiore della mia vita, Chuuya, quello in cui ti ho incontrato!
“Non essere scortese, Kunikida! Ah~” Chuuya rabbrividì, riconoscendo il tono, “Signorina! Dovevo saperlo che era il giorno perfetto per un suicidio di coppia, non capita tutti i giorni di vedere una donna così bel—”
Prima di potersi trattenere Chuuya si voltó, caricando un pugno con tutta la forza che aveva in corpo.
Gli occhi di Dazai si spalancarono per un istante prima che l’executive sentisse le nocche schioccare contro la mascella dell’ex partner, facendolo volare all’indietro. Il bianco dei guanti di seta era un bagliore diverso rispetto al solito nero e per un istante Chuuya temette che il colpo fosse scivolato, ma Dazai era finito contro un gruppetto di altri ospiti, mandando a gambe all’aria un cameriere ed un vassoio di tartine. Le persone attorno a loro iniziavano già a sussurrare, e la parola 'rissa' che si alzava tra gli invitati gli si scaricò addosso come una secchiata d'acqua gelida.

Fanculo, la copertura.

Stringendo i denti, l’executive decise rapidamente che era il momento di ritirarsi: aveva vissuto abbastanza con Kouyou da sapere che spesso gli astanti notavano solo quello e che con una pettinatura diversa ed un abito differente sarebbe tornato ad essere solo un’altra bella ragazza nel mezzo della folla. Approfittando della confusione, e di Kunikida che era accorso al fianco del partner, Chuuya sollevò la pesante gonna dell’abito con entrambe le mani e svicoló fra gli sconosciuti, sussurrando alla ricetrasmittente che teneva all’orecchio che avrebbe lasciato la sala principale. Doveva ringraziare O’nee-san per avergli lasciato almeno due cambi d’abito e lenti a contatto.

Era a metà del corridoio, con un vestito azzurro cielo che si apriva a campana attorno a lui e il suono dei tacchi che riverberava nel corridoio, quando una voce nell’orecchio gli geló il sangue nelle vene.
Doveva essere un incubo.
“Chuu~yaaa! Non ti pare di essere troppo violento?”
Istintivamente, Chuuya premette l’indice contro il proprio auricolare, orrore puro che gli scorreva in corpo.
Kuso Dazai?! Che diavolo—“
“Infiltrare la vostra intelligence è un gioco da ragazzi. Akutagawa-kun?”
Non rispondere, lo pregò Chuuya mentalmente.
Sapeva anche che era inutile.
“Dazai-san?” arrivó, come da manuale, seguito da un rumore statico. Chuuya imprecó sottovoce, coperto dalla risata argentina dell'altro.
Sentirla senza vederlo era una tortura, incapace com'era di prevedere da dove sarebbe arrivata la prossima mossa.
“Dovresti essere con Atsushi, giusto?”
“Jinko mi ha raggiunto questo istante.” c’era una nota infastidita nella sua voce, e Chuuya immaginò Akutagawa mentre scrutava Jinko senza alcuna cordialità, “siamo pronti a muoverci verso il target.” 
“Ottimo, ottimo. Magari avrai modo di mostrarmi dei miglioramenti, chi lo sa~”
“Bastardo,” sussurró Chuuya, con il terribile presentimento che sarebbe finito nei guai: gli sembrava di essere solo, ma era difficile ignorare una donna che parlava da sola con una voce da uomo “Che diavolo vuoi fare?”
“Chibi, nello studio del secondo piano sta avvenendo uno scambio di atti di proprietà. Una warehouse a Tokyo, una a Yokohama e una a Kyoto.”
“Hah!?”
Il tono di Dazai si fece più sottile, come se stesse sorridendo contro il microfono e Chuuya masticó un’imprecazione, girando sui tacchi.
“Sai cosa significa, no?”
“Quei figli di puttana, li ammazzo.”
“Potrebbe essere un problema per la città se iniziassero ad espandersi,” chiarificò il detective per il resto degli agenti collegati, con voce flautata. Chuuya sentí un brivido, irritazione e qualcos’altro corrergli lungo la schiena. 
“Giuro che questi bastardi vogliono morire stanotte.”
“Fermo lì~ Hirotsu-san sta gentilmente provvedendo a creare un diversivo mentre Kunikida, Tanizaki e Gin se ne stanno occupando.”
“E allora che cazzo—”
“C’è un terzo membro dell’organizzazione, una sorta di garante: secondo i miei calcoli hai circa dieci minuti. Lo troverai sulla terrazza del primo piano, non sei distante.”
Chuuya sentì un’imprecazione scivolargli fra le labbra. Le memorie del recente litigio sfrigolavano come bruciature di sigaretta sotto il velo di disinteresse che aveva tanto lavorato per creare: anni ed anni ed anni di meditazione ma Dazai arrivava sempre come un terremoto, un piano suicida e nessun rispetto per gli sforzi altrui.
“Ma sei serio?”
“Perchè, Chuu~ya? Non ti fidi dei miei piani~?”
“Quanto di odio.”
“Ottimo, ottimo! Contiamo sulla collaborazione di tutti voi!”
Chuuya si morse l’interno della guancia per non imprecare.
Qualcuno che non riconobbe stava snocciolando nomi e posizioni mentre Atsushi si lanciava ogni pochi minuti in assicurazioni che tutto stesse andando per il verso giusto, seguito dall’eco soffocato delle repliche di Akutagawa. In silenzio, Chuuya pregava solo che la serata finisse in fretta ed ognuno andasse per la propria strada: Jinko ed Akutagawa sarebbero potuti andarsene a casa insieme, a quel punto, non gli interessava.

Avrebbe voluto prendere a calci il muro, sentire la gravità che polverizzava il pavimento e piegava il legno ad ogni passo. Sarebbe stato un peccato distruggere una così bella villa, ma non era nella natura della bellezza esistere nonostante la bruttezza dell’essere umano? Notare l’eleganza dello spazio attorno a sè era come alzare gli occhi e ammirare una nevicata su un incendio: inevitabile, un miraggio degno d’attenzione per un momento ma inutile e, francamente, anche piuttosto ridicolo.
Ridicolo come il fatto che cinque executive e svariati luogotenenti stessero ancora pendendo come burattini dai fili tirati da un traditore.
“Chibi, non farti notare come al solito. Sento le vibrazioni da qui, non vorrai distruggere il palazzo e permettere a tutti i cattivi di scappare, nee?”
La voce di Dazai era bassa, le fusa di un gatto, e Chuuya avrebbe voluto prendergli il volto fra le mani e schiacciarlo contro il muro più vicino.
“Pensa alla missione, mackerel.”
“Non vorrai ripetere Fukuoka? Devo venirti a salvare?”
“A Fukuoka stava andando tutto benissimo!”
“Hm-hm~” aveva mormorato Dazai, allegramente “cerca di non prendere iniziative questa volta, chibikko-chan.
“Cretino! Sei tu che—”
“Voi due, smettetela di dire cose che nessuno capisce.”
“Siiii Kunikida~”
“Oi, quattrocchi, tu e la vostra stupida agenzia non dovreste nemmeno essere qui, non dirmi cosa devo fare.”
Un silenzio attonito lo avvolse dall’altra parte della trasmittente, prima che l’ululato di Kunikida lo colpisse così forte che Akutagawa, da qualche parte al secondo piano, aveva ceduto all’istinto di strapparsi di dosso quell’affare infernale. In sottofondo l’executive sentì un soffocato, “Jinko, tieni tu quello stupido aggeggio e facciamola finita”.
“Come mi hai chiamato, Nakahara!?”
“Cosa, stupida agenzia? Quattrocchi?” un sogghigno animale gli distese le labbra, miele che colava da ogni offesa, “mi spiace di aver toccato un tasto dolente, Mr quattr’occhi dell’inutile Agenzia degli stupidi Detective Armati, non riuscite neanche a stare dietro a quello spreco di bende perché non intralci il lavoro altrui.”
“Nakahara—” 
La voce di Kunikida era animata da una nota minacciosa, una promessa di regolare i conti al di fuori della situazione che strappò un sogghigno a Chuuya.
“Cosa, la stupida inutile Agenzia è suscettibile?”
“Neh, neh, Chuu~ya?”
“Stanne fuori, Dazai.” sbottó Kunikida con la voce ancora tremante d’ira. Chuuya sentí un moto di rabbia rimestargli lo stomaco al trillo d’assenso di Dazai. 
Vaffanculo.
O’nee-san aveva scelto un vestito troppo stretto, stava soffocando. 
La terrazza era due corridoi più in là, ce la poteva fare.
“Aaaaa, non maltrattare il tuo collega preferito, Kunikida-kuuu~n!”
“Vuoi smetterla con i giochetti, spreco di bende?” gli ringhiò Kunikida, e Chuuya giurò di sentire Jinko sospirare, “il minimo che dovevi fare era avvertirmi!”
Sicuro, continua a sperarci.
“Ma Kunikida-kun mi avrebbe strangolato~”
“Te lo saresti meritato!”
“Non voglio morire per mano di una persona che ama il suo quaderno più del proprio partner!” 
“Come se facessi qualcosa per meritarlo, ipocrita!”
“Sí, kuso Dazai, ascolta il tuo nuovo partner,” sibiló.
Gli scivoló fuori dalle labbra carico di rancore prima di poter ricordare che Dazai era un mostro e che erano letteralmente in streaming. Prima di pensare, prima di modulare la voce così da non sembrare una ragazzina gelosa, prima di farlo suonare vagamente dignitoso.
Pessimo tempismo.
Pessima serata.
Chuuya sentí la bolla di silenzio gonfiarsi attorno a lui — fu scoppiata da Dazai e poteva giurare che stesse sogghignando per la vittoria che gli aveva strappato.
“Chuuya, sei geloso?”
Senza pensarci due volte Chuuya spense la trasmittente e si affrettò oltre la porta a vetri che dava sulla terrazza. Se quell’idiota di Dazai voleva comunicare il suo stupido piano avrebbe trovato il modo, altrimenti si sarebbe arrangiato perché come al solito era solo colpa sua.
Era stata colpa sua sin dall’inizio.

 

Dopo Fukuoka, Mori aveva imposto a Dazai di non sovraccaricare Chuuya: non potevano rischiare la distruzione di una città perché qualcosa andava storto.
“Chuuya può utilizzare il suo potere liberamente,” aveva replicato Dazai, chiudendosi nel cappotto nero che teneva drappeggiato sulle spalle “è la sua vita ed è sempre una sua decisione.”
Come se avessi scelta, quando ti fai catturare ogni volta senza nemmeno avvertirmi.
“Sta diventando troppo frequente, Dazai-kun. Impegnati a trovare delle alternative.”
Tu e i tuoi stupidi piani.
“Se Chibikko si impegnasse di più—”
Vaffanculo; sei un serpente, altro che un pesce.
Sgombro dell’accidenti.
“La vostra vita non è spendibile, Dazai-kun, speravo l’avessi capito.”
Non voglio morire. Non come te, non con te. 
“Sí, boss.”
Il pugno aveva colpito la parete accanto al suo letto prima che potesse pensare e fermarsi ed il dolore partito dalle nocche era esploso dietro la sua visuale, bianco e rosso e fiammeggiante. Ricordava l’intonaco scheggiato, il silenzio, il vago sorriso di Mori.
“Vuoi dire qualcosa, Chuuya-kun?”
“Arahabaki è al servizio della Port Mafia,” un nodo gli stringeva la gola. Sei fortunato, hai il dovere di proteggerci, non hai diritto di rifiutare. “Non ho intenzione di privare l’organizzazione di questo vantaggio.”
Quello che voleva dire era che la sua vita non avrebbe avuto altrettanto valore altrimenti perchè non sarebbe stato che un’arma mutilata abbandonata per paura, ma non ne aveva avuto il coraggio. 
Non aveva intenzione di dare a Dazai l’ennesimo motivo per prendersi gioco di lui.

 

Usare la parte corrotta del proprio potere dopo quattro anni era stato come sfondare a testate una diga piena d’olio bollente, ma Chuuya non aveva il diritto di lamentarsi: tutto quello a cui riusciva a pensare in quel momento era come la terrazza che dava sul giardino all’occidentale, ornata di vasi di camelie e illuminata da lampade bianche, gli ricordasse bizzarramente la casa da tè di Fukuoka.
Dazai non l’aveva lasciato in pace per mesi —Chuuya, Yacchin, versami il sakè! Ti dona il ruolo di ragazzina ricca! — e un sedicenne Chuuya aveva perso velocemente la pazienza. Nessuno aveva previsto che il sakè fosse drogato: a Fukuoka, Chuuya aveva ringraziato Dazai per la prima volta. Era tenuto a salvarlo dai proiettili, dalla sua abilità, da sè stesso ma non da quello, non dai rischi di essere sotto l’ala protettrice di O’nee-san.
Come Dazai aveva previsto, un uomo in giacca e cravatta fumava mollemente appoggiato alla balaustra in marmo: i corti capelli neri, la nuca pallida, le spalle ossute, il braccio piegato a sostenere una sigaretta le uniche cose che Chuuya riusciva a vedere. 
Deglutì a vuoto e mosse il primo passo nella sua direzione.
Con lo stomaco stretto, l’executive indossò il proprio miglior sorriso appoggiandosi al marmo; il rossetto aveva lo stesso sapore cipriato di sempre, ma quella sera era coperto dall’odore della nicotina.
Il marmo era freddo sotto i guanti di seta. Una villa degna di un re, peccato appartenesse ormai ad un cadavere.
“È una bella serata.”
Non era una domanda e Chuuya voltò il capo leggermente, ciocche di capelli rossi che gli sfioravano gli zigomi affusolati.

Uomini del genere avevano in mente una sola cosa.
Uomini del genere morivano facilmente.

“Questo genere di eventi sono sempre una noia mortale,” replicò. 
L’uomo gli sorrise.
Troppo facile, mortalmente noioso.
“Accompagna qualcuno, signorina?”
Poteva quasi sentire la tensione emanata dal corpo altrui, la percepiva come un animale anticipava una tempesta: se fosse stato più giovane, meno smaliziato e con meno sangue sulla coscienza, forse avrebbe avuto voglia di vomitare.
Mosse un passo verso l’uomo, tendendo la mano coperta dal guanto e sorrise quando gli offrì la sigaretta.

Uomini del genere non se ne accorgevano nemmeno ed erano già morti.

“Una cosa del genere.” 

 

- - -

 

Pulire la lama del coltello sull’orlo interno del vestito di O’nee-San, una rosa cremisi in bella vista eppure nascosta, risvegliava in Chuuya una scarica di adrenalina alla bocca dello stomaco. Era sfuggire alla polizia quando aveva quindici anni, quando ancora l’incapacità delle forze pubbliche lo illudeva di essere veloce, era meglio di una bottiglia di vino costosa, meglio di uno sconosciuto in un bar che lo spingeva in una stradina buia quando nessuno poteva vedere. Era la prova di un’abilità superiore, di adattamento, di fare necessità virtù. 
L’animo umano era facilmente malleabile, corruttibile, ed ingannarlo era un gioco da ragazzi.
Tuttavia, il singolo suono di qualcuno che entrava nella terrazza fu sufficiente per derubare l'executive anche di quella piccola soddisfazione personale. 
“Ho cercato di assicurarmi che fosse andato tutto bene, ma come volevasi dimostrare sei inaffidabile.”
Sbuffò, lasciando cadere l’orlo della gonna pesantemente.
“Cosa stai insinuando, kuso Dazai?”
“Se petit mafia avesse tenuto la trasmittente non sarei dovuto venire fino a qui di persona.”
Dazai sorrideva con uno sbaffo di sangue sulla guancia. Prima di chiedere Chuuya si morse il labbro inferiore: non sembrava ferito e, nonostante ciò, il suo cuore aveva iniziato a correre all’impazzata.
“È colpa tua. Sei sempre insopportabile.”
Dazai ridacchiò, affondando le mani nelle tasche dell’impermeabile. 
“Atsushi e Akutagawa si sono occupati del target principale. Confido di poterti affidare la pulizia di questo,” lanciò un’occhiata eloquente al corpo riverso a terra, “prima di andare.”
Con uno sbuffo, Chuuya si strinse nelle spalle.
“Ovviamente, per chi mi hai preso?”
“Ottimo.”
Giurò di sentire una nota condiscendente, ma strinse i pugni prima di poter colpire quell'idiota di nuovo quando ancora sentiva le nocche formicolare dal pugno nella sala principale. C’era un numero massimo di volte in cui Dazai poteva tradirlo e disattendere le sue aspettative? C’era un limite alle volte il cui il cuore di Chuuya poteva essere strizzato e calpestato come uno straccio?
“Non pensavo usassi ancora questo vecchio trucco,” commentò Dazai, la voce priva di qualsiasi serietà.
“Non è che un trucco diventa vecchio quando tu te ne vai, brutto imbecille. Se funziona…”
“Ah, quindi chibi sa di essere una bella donna~”
“Non ho mai detto una cosa del genere!” sbraitò, sentendo lo stomaco fargli un tuffo alle caviglie nel momento in cui gli veniva ricordato il trucco, e il vestito, e i tacchi e il profumo costoso. 
La risata di Dazai era come un abbraccio, ma aveva le spine della presa in giro in sè oltre al gelo delle accuse che Chuuya gli aveva rivolto.
“Va’ all’inferno da dove sei venuto, vagabondo. La tua presenza porta solo problemi.”
“Me ne stavo andando,” assicurò Dazai, il sorriso cristallizzato sulle labbra che non gli raggiungeva gli occhi.
Non vedeva l’ora di andarsene, ancora una volta.
Non aveva avuto rimorsi, ma non ne aveva mai avuti quindi perché si stupiva ancora?
Chuuya annuì.
“Era ora.”

Dí, smetterai mai di lasciare che questo bastardo si prenda gioco di te? 

Odiava molte cose, in quei giorni. Odiava il senso di responsabilità. Odiava la solitudine.
Odiava sè stesso per l’apparizione di Dazai, per averlo ferito e per il modo in cui l'ex partner lo guardava; odiava come si era voltato un’ultima volta prima di sparire oltre il vetro che separava la casa dalla terrazza, occhi castani che lo sfidavano a fermarlo.
Si odiava perchè sapevano entrambi che non l'avrebbe fatto.

 



 
   
 
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