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Autore: WhiteLight Girl    20/08/2019    1 recensioni
Fanfiction Crossover tra le varie serie di Digimon, in questa prima parte Tamers e Frontier, nella prossima Adventure.
Qualcosa si muove nell'acqua, non è un mistero che sia parte del problema, perché quando Izumi esce dall'ascensore l'acqua scorre sul corridoio davanti a lei e fino ai piedi dei suoi amici. Cosa ci fa quell'acqua putrida nell'ascensore del centro commerciale 109 di Shibuya? Da dove viene? Izumi probabilmente lo sa, ma non è in grado di rispondere a questa domanda.
Personaggi: Takato, Ruki (Rika), Henry, Ryo, Zoe (Izumi), Takuya, Koushi, Kouichi, Junpei (JP), Tomoki (Tommy), Guilmon, Renamon, Terriermon, MonoDramon...
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dove porta l’ascensore (P.1)






Gli occhi di Izumi si aprirono verso un soffitto bianco e candido, la luce la abbagliò e lei scattò a sedere, incapace di sopportarne l’intensità, per dare le spalle alla finestra e nascondere il volto nel cuscino. Con quel movimento rapido aveva esaurito tutta la poca forza che le era rimasta, allora rimase a faccia in giù, ad occhi chiusi e pugni stretti, incapace di muoversi o anche solo di concentrarsi sui rumori presenti con lei nella stanza.

La luce si affievolì, accompagnata da un rumore confuso che Izumi ci mise un po’ a riconoscere: una tapparella che si abbassava.

«Stai bene?» le domandò qualcuno. La voce la raggiunse leggera, incerta, e solo dopo che ebbe fatto presa nella sua testa Izumi la riconobbe.

Voltò il capo, Takuya era solo una sagoma sfocata di cui non si sforzò di distinguere i contorni, il volto pallido e ombre scure sotto gli occhi. Serrò le palpebre, la presenza dell’amico ed il suo respiro bastarono a rassicurarla.

«Ora meglio, grazie.» gli rispose.

Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, come li avessero trovati e cosa avrebbero fatto adesso, ma era ancora troppo assonnata per parlare quanto avrebbe voluto.

Sentì la mano di Takuya che le sfiorava un braccio e rabbrividì per quel contatto e per il freddo, lui sollevò il lenzuolo per coprirla.

Ma il freddo che sentiva Izumi non era quello che si prova quando la temperatura è bassa, perché ogni brivido che avvertiva lungo la schiena era l’eco di quelli che aveva provato nella grotta assieme a Kouichi. Ripensò a lui, al modo in cui si erano stretti l’uno all’altra per scaldarsi, all’oscurità in cui per giorni erano rimasti immersi, soli e senza sapere dove fossero e cosa stesse accadendo loro. Aveva lo stomaco in subbuglio e l’incavo del braccio, dove le avevano infilato la flebo, prudeva, ma aveva anche fame, così tanta che era sicura che si sarebbe mangiata un pollo intero.

Takuya si sedette al suo fianco, le mani intrecciate in grembo, silenzioso come era stato poche altre volte nella sua vita. Pareva non riuscire a distogliere lo sguardo da lei, cosa che probabilmente in un altro momento le avrebbe fatto piacere, ma Izumi si sentiva pesante, affamata e così sporca che era certa che non ci fosse un solo lembo di pelle del suo solito colore, su di lei. Perfino la testa le prudeva, tanta era la voglia di fare la doccia, e lì nella penombra bramava l’acqua - e del sapone - come non le era mai successo prima.

Apparentemente era la giornata delle prime volte, anche se non aveva idea di che ore fossero, né di dove si trovasse lei. Si domandò dove fossero finiti tutti; Junpei, Tomoki, Kouji, i suoi genitori, che come ogni altro genitore avrebbero di sicuro voluto essere lì con lei, dopo averla persa per così tanto tempo.

«Kouichi sta bene?» chiese a Takuya.

E la voce le graffiò la gola.

Lui sospirò e tentò di sorridere, ma ne risultò una smorfia.

«Non siamo ancora riusciti a salvarlo, mi dispiace.» le disse, la voce in un sussurro, quasi come se fosse preoccupato che anche le sue parole potessero farle male. «Ma lo stanno cercando.»

Allungò il braccio verso di lei, le dita tese per raggiungerla, ma tentennò e Izumi, che non vedeva l’ora di avere un po’ di calore umano, gli strinse la mano per prima.

Sentire la pelle di lui contro la propria le diede un tipo diverso di brivido, più piacevole, rassicurante, fu come se solo quel contatto potesse spazzare via almeno un po’ del freddo e della paura che aveva avuto ed a cui, solo in quel momento, poteva reagire senza che essa la soffocasse.

Takuya le carezzò il dorso della mano con il pollice, lo sguardo perso nonostante fosse puntato dritto contro di lei, distratto da qualche preoccupazione che Izumi non era certa di voler conoscere.

«Cosa è successo?» gli domandò.

E Takuya iniziò a raccontare ciò che era accaduto dal momento in cui l’ascensore l’aveva portata via, di quando era tornata, aveva baciato Kouichi e l’aveva in qualche modo incantato, quasi fosse la sua sirena. Raccontò delle occhiatacce delle persone, dei commenti che avevano attirato prima che tutto diventasse ancora più bizzarro.

Il terremoto che era arrivato subito dopo, raccontò Takuya, era stato inaspettato ed aveva provocato singulti strozzati nella maggior parte delle persone. Qualcuno aveva strillato, qualcun altro era corso in direzione delle scale, ma i più avevano mantenuto il contegno e si erano aggrappati alle pareti ed al proprio accompagnatore.

Non si soffermò su quello che era successo dopo, ma tagliò corto dichiarando che:

«Siete digievoluti, non so come abbiate fatto, nel mondo reale, e poi siete scomparsi insieme ed il terremoto era finito.» dopo un sospiro aggiunse anche: «Prendendo l’ascensore siamo riusciti ad arrivare nel Digital World, ma non riuscivamo a trovarvi.»

E poi Takuya spiegò, in breve, di come avevano scoperto che si trovavano in un universo parallelo e di come fossero stati costretti a cercare i Supremi per poterli raggiungere.

Del resto non disse nulla, e Izumi pensò che avrebbe chiesto spiegazioni a qualcun altro, quando ne avrebbe avuto la possibilità.

Il dito di Takuya ancora la accarezzava, la pelle d’oca sul suo braccio andava calmandosi, ma il lenzuolo non le infondeva ancora abbastanza calore. E poi aveva fame.

Avrebbe mandato Takuya a prendere qualcosa da mangiare, ma non voleva che lui si allontanasse. Fu il suo stomaco a parlare per lei, brontolando e ruggendo così forte da fare sgranare gli occhi al ragazzo.

«Ti porto qualcosa.» le disse. E si alzò per occuparsene.

Izumi strinse la presa sulla sua mano, lui rimbalzò indietro e, solo per un momento, esitò.

«Torno subito.» promise.

Allora lo lasciò andare.

Quando lui uscì, Izumi rimase sola con i suoi pensieri e con i ricordi di ciò che era accaduto quando le porte dell’ascensore si erano riaperte davanti a lei.


«Dunque, ci sarebbe quel negozietto di scarpe al secondo piano che l’altra volta non abbiamo fatto in tempo a visitare...» aveva detto saltellando. «Allora forza, chi arriva ultimo al secondo piano mi offre il biglietto per il prossimo film al cinema.»

Tomoki era stato il primo a correrle dietro, l’esitazione degli altri l’aveva divertita come sempre.

Era entrata nell’ascensore e si era voltata, pronta a bloccare le porte dell’ascensore quando si fossero richiuse.

Junpei si era riscosso poco dopo. «Ehi! Aspettaci!»

Ma Izumi non era stata abbastanza rapida; quando le porte dell’ascensore avevano rombato e si erano chiuse aveva avuto un attimo di smarrimento, teso una mano per passarla davanti al sensore ed impedirlo, ma quelle non avevano percepito la sua presenza.

L’ascensore aveva tremato, avuto uno scatto ed era partito, il contatore dei piani aveva iniziato a scorrere e raggiunto in fretta lo zero, ma non si era fermato quando aveva raggiunto il parcheggio. I numeri dei piani avevano continuato a susseguirsi, ricominciando ad aumentare e, dopo diversi minuti, Izumi aveva pensato che non si sarebbero mai fermati.

La frenata aveva provato un leggero scossone all’ascensore, il tintinnio familiare preannunciato l’apertura delle porte e, quando queste si erano dischiuse, un fiotto d’acqua si era riversato dentro gorgogliando verso di lei, scivolando attorno alle suole delle sue scarpe e precipitando scrosciante nella fessura che la separava dal resto dell’edificio.

«Ma che diavolo...» si era lamentata, appoggiando una mano allo specchio e sollevando i piedi a turno per evitare che l’acqua le inzuppasse anche i calzini.

Aveva sbuffato, premendo ripetutamente il bottone per risalire, ma l’ascensore non si era mosso e le porte non si erano richiuse, lasciandola bloccata davanti a quella che, lo aveva notato solo in quel momento, le era parsa una semplice piccola sala d’aspetto abbandonata di una qualche stazione. La prima cosa che aveva pensato era che non si trovava più nel Magazzino 109.

Si era poggiata contro il corrimano e affacciata, conscia di essere almeno temporaneamente bloccata su quell’assurdo piano, i suoi passi all’interno della saletta allagata avevano risuonato sinistramente, riecheggiando contro le nude pareti grigie e scrostate.

Come se non sapessi che non è una buona idea uscire dall’ascensore, aveva pensato. Aveva incrociato le braccia per ripararsi da una folata di vento freddo proveniente dalla porta socchiusa che aveva davanti. Si era guardata attorno, prima verso l’ascensore, per assicurarsi che non ripartisse senza di lei, poi lungo le pareti in cerca di un indizio su dove si trovasse. Aveva cercato qualcosa come una mappa per le evacuazioni che segnasse la sua posizione, o la porta di un bagno da cui potesse provenire tutta quell’acqua.

Le uniche uscite, però, erano state la porta socchiusa e l’ascensore con cui era arrivata, le finestre che circondavano la parte superiore della camera, appena sotto al soffitto ammuffito, erano disposte troppo in alto per poter vedere cosa ci fosse all’esterno. Izumi Aveva aggirato la fila di poltrone dismesse e strappate in mezzo alla stanza e si era avviata all’ingresso. Guardando il gradino bagnato che l’avrebbe condotta all’esterno si era resa conto che l’acqua proveniva da qualunque cosa ci fosse oltre la porta. Aveva afferrato la maniglia e l’aveva spinta, si era ritrovata davanti ad una banchina deserta e pallida che si stagliava contro uno sconfinato oceano dai toni grigiastri. Le era parso che il mare ingoiasse ogni singolo raggio di luce, si perdeva oltre l’orizzonte, divenendo più scuro là dove confinava con la linea del cielo, mentre le onde scivolavano ritmicamente sul bagnasciuga poco distante.

«Non è il mare a essere grigio, rispecchia solo le nuvole in cielo.» si era detta Izumi, ad alta voce, perché poterci credere di più.

Ma qualunque cosa aveva provato a dirsi, o anche urlarsi nella testa, non aveva potuto fare a meno di ricordare che a Shibuya non c’era traccia di mare e dietro di lei, dove avrebbe dovuto esserci l’edificio da cui era scesa, c’era solo una stanzetta diroccata dal tetto fatiscente. I binari che si era ritrovata davanti erano arrugginiti, ma guardandoli non aveva potuto che ripensare agli eventi di alcuni anni prima, così apparentemente irreali e tuttavia vividamente impressi nella sua memoria.

Aveva sorriso, ripensando al Digital World ed ai suoi abitanti, poi aveva sentito il sangue defluire dal volto e le gambe tremare nel constatare la differenza tra i paesaggi che ricordava di aver lasciato e la poltiglia incolore che stava guardando.

Si era leccata le labbra, mentre il vento le scuoteva i capelli i lembi della giacca. Il suo sguardo si era perso contro l’orizzonte, mentre la sabbia mulinava sulla spiaggia davanti a lei.

Probabilmente l’acqua è entrata con l’alta marea, aveva riflettuto, osservando un punto poco distante in cui le onde arrivavano a lambire una parte della banchina e schizzavano la loro schiuma sui mattoni consumati e ricoperti di alghe scure. Vi si era avvicinata, sporgendosi e specchiandosi sull’acqua gorgogliante e tetra, in cerca di segni di vita, ma il vento e l’oceano erano stati gli unici rumori di quel mondo, mescolati con il suo respiro trattenuto.

   
 
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