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Autore: Spoocky    29/08/2019    4 recensioni
Missing moment fra "Duello nel Mar Ionio" ed "Il Porto del Tradimento": l'equipaggio della Surprise affronta le conseguenze dello scontro con le navi turche. Una battaglia che ha segnato tutti profondamente, in modi diversi.
La versione precedente di questo racconto è stata pubblicata con il titolo "Words and Scars". Il titolo è una citazione dal paragrafo iniziale de "Il Porto del Tradimento" che ha ispirato questo racconto.
Genere: Angst, Guerra, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing moments in Patrick O'Brian'
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Disclaimer: i personaggi di questo racconto sono di proprietà di Patrick O'Brian e degli aventi diritto. Non scrivo a scopo di lucro e non guadagno nulla da questa storia.
Ringrazio in anticipo chiunque vorrà fermarsi a leggerla e, magari, commentarla ^^

Buona Lettura ^^


Il capitano Aubrey ruggì il segnale d’attacco e Tom Pullings gridò all’unisono con lui, prima di lanciarsi sul ponte della Torgud balzando sul suo ponte di coperta dalla paratia della Surprise con la spada sguainata. La sua altezza gli consentiva un vantaggio notevole sugli avversari e i lunghi anni di combattimento sotto Jack il Fortunato lo avevano temprato al punto che si muoveva con maggior disinvoltura sul ponte di quella nave nemica che nel salotto di casa sua.

Un turco alto quanto lui e grosso come un armadio gli si parò di fronte, solo per finire sgozzato dalla sua lama, accasciandosi con un grido strozzato mentre un getto vermiglio gli imbrattava l’uniforme.
Non ebbe tempo di riprendersi che ne accorse un altro e dovette schivare un tondo che, se fosse andato a segno, gli avrebbe tranciato la testa di netto. Sfruttò il movimento del nemico per abbassarsi sotto il suo braccio e sparare sul suo fianco scoperto, abbattendolo.
Raddrizzandosi si trovò a sorridere: non per il miraggio di un’ ipotetica promozione ma per la pura esaltazione di trovarsi in mezzo allo scontro. Spalla a spalla con il suo capitano, il suo mentore, il cui codino biondo guizzava instancabile al margine del suo campo visivo, dandogli un riferimento sicuro. 
Una cacofonia di urla, lamenti e spari lo avvolgeva, l’odore salmastro del mare soffocato da quello acre della polvere da sparo e del sangue, che si mescolavano ai suoi piedi, impregnando le travi del ponte.
In momenti come quelli non si rimugina sul passato, né si fantastica sul futuro: ogni battaglia ha uno spazio ed un tempo a sé e regole proprie, che trascendono la realtà circostante. Un minuto può durare ore, un’ ora può durare un anno, un secondo può decidere la vita o la morte di un uomo.

Tom era ancora chinato in avanti quando un ottomano piccolo e magrissimo lo assalì con un pugnale, tentando un affondo. Con una torsione del busto, il tenente riuscì ad evitare di essere colpito in punti vitali ma la lama affilata lacerò panciotto, camicia e pelle sul suo costato, causandogli una ferita che percepì solo per via di un lieve bruciore mentre la sua seconda pistola sparava il suo unico proiettile.
La pallottola colpì il ragazzo in pieno petto e per esperienza Pullings capì di averlo ucciso ancora prima che toccasse terra.
Gettata l’arma ormai inutile, scaricò un altro fendente alla sua destra, lacerando l’addome di un uomo prima che questi potesse afferrarlo per scaraventarlo in mare.
Con la coda dell’occhio intravide un turco mastodontico caricare Aubrey con una scimitarra, pronto a falciarlo. Senza riflettere si lanciò nello spazio vuoto alla destra del capitano, in un tentativo disperato di proteggerlo che si rivelò un errore fatale.

Se un giorno qualcuno gli avesse raccontato un episodio simile Pullings lo avrebbe liquidato con una risata: non avrebbe mai pensato di trovarsi egli stesso in quella situazione.
Nella foga della mischia non aveva visto un golfare situato proprio davanti a sé e quando fece per accorrere al fianco del capitano, ricacciando il suo avversario con una spallata,  la punta del suo stivale vi rimase incastrata, facendolo precipitare a terra con un tonfo sordo.
Sopraffatto dallo sgomento, senza ancora aver realizzato cosa fosse accaduto, Tom alzò lo sguardo verso Aubrey come per chiedergli aiuto, gli occhi spalancati come quelli di una lepre intrappolata da un segugio.
Il volto del capitano impallidì e lo vide tendere una mano nella sua direzione, poi venne accecato da un lampo di luce e cadde prostrato in avanti, completamente cieco e con la bocca piena di sangue.
Sentì qualcuno gridare, ma non ebbe la forza di reagire. Tutto era diventato buio, freddo, ed il suo volto pulsava di un dolore sordo, indefinibile, mentre sentiva qualcosa di caldo ed appiccicoso riversarglisi addosso.  

Qualcosa, o qualcuno, avvolse il suo torace in una presa salda e lo trasportò lontano da tutto quel rumore, appoggiandogli la testa contro una paratia di legno.
Per qualche motivo il suo naso non sembrava funzionare come doveva, e ne fu grato nel momento in cui riconobbe la voce di Goffo Davis mentre questi gli alitava in un orecchio: “E’ bello che morto, questo qui.”
Allora Tom ebbe paura e tentò di sollevare una mano per trattenere il marinaio: se davvero stava morendo non voleva rimanere solo ed anche quella sottospecie di scimunito ubriacone sarebbe stato meglio di nulla. Ma era troppo debole quasi solo per respirare e poco dopo non percepì più la presenza massiccia del marinaio al suo fianco.
Rimase in quel limbo per un tempo indefinito, con la testa che gli pulsava, piegata su una spalla perché non aveva la forza di tenerla dritta, freddo e nausea sempre più forti, peggiorati dall’ incessante rollio, finché il fragore della battaglia non si acquietò.

Una voce famigliare lo riscosse dal suo torpore: “Oh Gesù benedetto! Tom? Tom, per l’amor di Dio, dimmi che puoi sentirmi.”
“William?” sussurrò, la sua voce talmente flebile che lui stesso faticò a sentila, ed impedita come se la sua mascella non articolasse bene i suoni.
“Sono qui, Tom.” Una mano calda gli avvolse un polso, stringendolo appena, e pur senza vederlo Tom avvertì il sorriso sul volto di Mowett, chino su di lui: “Abbiamo vinto, amico mio. Abbiamo vinto! Il capitano li ha ricacciati indietro e li ha decimati praticamente da solo. Una furia scatenata, ti dico! Dovevi vederlo: Achille nel pieno della sua ira non avrebbe fatto un danno simile.”
Nonostante delle fitte profonde gli trafiggessero il viso ad ogni movimento, Tom riuscì a sorridere: “Abbiamo vinto! Sarò capitano, finalmente.” Emise anche una sorta di risata ansante mentre l’amico gli accarezzava una spalla.
Lo sentì chiamare qualcuno che venisse a soccorrerlo, poi sprofondò  nel buio.
 


Scemata l’eccitazione del combattimento, Jack venne sopraffatto dalla preoccupazione per le sorti di Tom Pullings. Interrogato a riguardo, Mowett gli aveva assicurato che stesse bene ma stentava a credergli dopo aver visto il colpo che lo aveva abbattuto ed averlo protetto con la sua persona, mentre giaceva bocconi in un lago di sangue. Sapeva però che il suo tenente, ebbro di gioia per la vittoria, non gli avrebbe dato informazioni più dettagliate e si diresse egli stesso verso la scala sotto cui aveva ordinato a Davis di trasportare il corpo, per verificare di persona.
Lo spettro di James Dillon gravava ancora pesante sul suo cuore.

Le sue preoccupazioni vennero sedate un poco quando intravide il torace del suo secondo sussultare e ritrarsi, e l’udì emettere un debole lamento mentre il nefasto Davis s’ingegnava per sollevarlo da terra.
Jack lo spinse brutalmente di lato, facendolo cadere ed atterrare malamente sul fondoschiena.

Per un istante desiderò non averlo fatto: la scimitarra del turco aveva squarciato il viso del tenente, riducendolo ad una maschera di sangue a malapena riconoscibile. Le palpebre dell’occhio sinistro erano sigillate dal sangue, la fronte, il naso, e lo zigomo destro erano devastati. Dovette reprimere un conato quando riconobbe il biancore delle ossa nel rosso pulsante della carne viva.
Con un singhiozzo soffocato, Aubrey s’inginocchio accanto al ferito e, con una delicatezza impensabile per mani poderose come le sue, scostò alcuni capelli dall’orrenda ferita, avendo cura di non provocare al poveretto altro dolore: “Ce l’abbiamo fatta, Tom. Abbiamo vinto.” Non riuscì a dire altro perché la voce gli si ruppe in gola.
Se avesse potuto gli avrebbe accarezzato una guancia ma dovette risolversi a raccogliere una delle sue mani nella propria per stabilire un contatto.
Quella che stringeva era una mano salda, fortificata dalle intemperie e dalla guerra, una mano in cui avrebbe riposto la propria vita senza pensarci due volte, ma ora la sentiva fredda, sudata e debole. Represse a fatica le lacrime quando, cercando di ricambiare la stretta, Tom riuscì a prendergli solo due dita, come un bambino che non riuscisse ad avvolgere la mano intorno a quella del padre, troppo grande per lui.

Uno scricchiolio sinistro lo fece sobbalzare ed istintivamente strinse a sé il corpo del ferito.
Ricordò improvvisamente che quell’imbarcazione maledetta stava affondando e quella consapevolezza gli diede la forza di raccogliere Pullings dal cantuccio in cui giaceva. Stringendoselo al petto, lo protesse con il proprio corpo nel salto verso il ponte sicuro della Surprise.

Lo accolse una schiera di volti con diverse sfumature di contrizione ma si costrinse ad ignorarli mentre trasportava il suo inestimabile primo tenente in infermeria, quasi cullandolo come avrebbe fatto con il piccolo George prima di adagiarlo nel suo lettino.
Forse un angolo remoto della sua mente si rese conto che, qualche ora più tardi, Preservato Killick avrebbe bestemmiato tutti i Santi del calendario in ordine alfabetico inverso nel trovare la sua giacca completamente rovinata dal sangue ma ricacciò quel pensiero prima ancora che si formasse.
Avevano vinto lo scontro ma ancora non poteva permettersi di perdere un minuto, o Pullings sarebbe spirato tra le sue braccia.
 
     †


Nel buio dell’ infermeria, Stephen lavorava febbrilmente da ore.
Dall’inizio dello scontro si era trovato a dover amputare già tre gambe e quattro braccia, tra cui quello di un povero allievo, reciso all’altezza del gomito, oltre che ricucire un incalcolabile numero di ferite.
I lamenti dei suoi pazienti, fatti distendere o sedere dove possibile, risuonavano tutto intorno a loro ma nulla poteva distrarlo. Le sue mani abili guizzavano rapide sui corpi straziati che gli giacevano dinnanzi, salde e precise grazie ad anni di esercizio sul mare.
Agiva quasi senza pensare, con un orecchio sempre teso verso l’entrata della cala perché anche nel suo antro sacro era giunta una voce che pregava con tutto il cuore non essere vera: tra i marinai correva la diceria che il tenente Pullings fosse stato ucciso in combattimento, o per lo meno ferito gravemente.

L’esperienza gli aveva insegnato che i feriti più gravi spesso erano i più silenziosi, e tendevano ad arrivare per ultimi sul suo tavolo.
Sperò che quello non fosse il caso di Tom: a quanto gli era dato di capire aveva preso una brutta botta in testa nel mezzo della battaglia ed era rimasto tramortito. Nel migliore dei mondi possibili lo avrebbe rinvenuto per conto proprio sul ponte di coperta intento a dare ordini, o nella cabina del capitano a decidere il da farsi, con un bendaggio di fortuna sul capo.  
Il buon vecchio Leibniz dimostrò per l’ennesima volta di avere torto quando Jack piombò a capofitto nella cala, pallidissimo e terrorizzato, con un fagotto insanguinato in braccio. Non lo aveva mai visto tanto spaventato.

Non appena il tenente gli venne deposto davanti, Maturin si attivò per valutare le  sue lesioni.
Lo riconobbe dall’uniforme e dal colore dei capelli, dove non erano intrisi di sangue, perché il volto era sfigurato da una ferita spaventosa. Raramente ne aveva viste di tanto brutte.
Il naso era stato quasi reciso e la fronte squarciata. La lacerazione era profonda ed esisteva la possibilità concreta che Tom avesse perso l’occhio sinistro. Sollevandogli le palpebre, però, trovò il bulbo oculare intatto e la pupilla si contrasse normalmente quando avvicinò una lanterna.
Tastò le ossa del volto, strappandogli un lamento soffocato.
 Il cranio presentava una lieve frattura, che gli avrebbe causato nausea ed emicranie per qualche mese, ma il danno peggiore lo aveva ricevuto lo zigomo: per il contraccolpo la mandibola si era lussata tanto gravemente che la delicatissima articolazione non sarebbe mai guarita del tutto. Stephen la ricompose come poteva.

Ripulì con maggior delicatezza del consueto quel che restava del viso di Pullings mentre un suo assistente gli lavava i capelli con una spugna.
Sigillò i pochi punti fondamentali per restituire al tenente i suoi lineamenti e lo avvolse con garze e bende, lasciando scoperti la bocca, le narici, e l’occhio destro. La luce era troppo debole per poterlo ricucire con la precisione necessaria in un’area tanto delicata: la cicatrice sarebbe stata visibile e permanente, bisognava ridurla quanto più possibile. Se l’emorragia non lo avesse portato via durante la notte, lo avrebbe suturato con calma alla luce del giorno.
Il viso del giovane avrebbe perso gran parte della connaturata dolcezza che aveva spinto i locali a soprannominarlo “la verginella” ma Stephen era convinto di poter ottenere un risultato più che dignitoso.  Avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per restituirgli un aspetto quanto più gradevole possibile.
Terminato il bendaggio, gli depose la testa su uno straccio piegato prima di passare al resto del corpo.

Gli assistenti lo avevano spogliato, mettendo a nudo il suo fisico magro: la pelle era bianca, fredda, e sudata. La piaga vermiglia sul fianco apparve subito evidente, insieme ad altre più superficiali.
Stephen le ricucì rapidamente, approfittando del prolungato stato d’incoscienza del tenente. Dagli ematomi sul petto diagnosticò che avesse delle costole incrinate, che fasciò strette per aiutarne la guarigione.
La caviglia destra ed il piede, inoltre, si presentavano gonfi e lividi, sintomo di una brutta slogatura.
Ridusse la lussazione e la immobilizzò con un bendaggio rigido.

Fu un debole gemito ad attirare la sua attenzione: ”Dove sono?”
L’occhio sano di Pullings era semiaperto e fisso verso il soffitto. Stephen si chinò su di lui e gli appoggiò una mano sui capelli: “Tom, siete nell’infermeria della Surprise, caro ragazzo mio. Come vi sentite?”
“Male… fa… male.” Ansò il tenente, impossibilitato a muovere la mandibola dal bendaggio.
Alzò debolmente una mano ed il dottore la raccolse, sentendo il polso rapido e sottile: “State tranquillo: adesso vi diamo qualcosa per il dolore, poi potrete riposare.”
“E’ molto grave?”
Pullings non aveva che un filo di voce e la sua debolezza commosse profondamente il dottor Maturin, che gli accarezzò la mano e la strinse, cercando di offrirgli un po’ di conforto: “Avete preso una bella botta in testa, mio caro, non c’è che dire. Ma adesso è tutto a posto: guarirete presto.”
“Dottore.” Gemette il poveretto, aggrappandosi alla sua mano più forte che poteva, sopraffatto da una fitta.
“Shh, va tutto bene. Sono qui. Sono qui.”

Una volta cessato lo spasmo Stephen fece diluire cinquanta gocce di laudano, il massimo per un corpo così debilitato, in mezzo bicchiere d’acqua. Il suo assistente sollevò con estrema cura la nuca del ferito ed il medico lo aiutò a sorbire la soluzione, controllando che aprisse la bocca solo il minimo indispensabile.
Gli restò accanto, carezzandogli la mano con le proprie, finché non ebbe la certezza che si fosse addormentato.
Accompagnò gli infermieri mentre lo mettevano a letto e provvide personalmente a stendergli addosso una coperta, accertandosi che fosse quanto più confortevole possibile.




La storia partecipa alla Summer Bingo Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/]
  
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