Se
non mi fosse venuto in mente di lasciare il castello, situato, al
sicuro, dentro lo strato più interno delle mura che si
innalzavano sopra al mondo interno, non sarebbe mai successo ciò
che mi trovai costretta ad affrontare; ma non avrei neanche mai dato
una svolta alla mia vita.
Infatti, le giornate, in quel posto, erano davvero monotone. Ed io
cercavo un avventura in grado di spezzare la monotonia che ha da sempre
caratterizzato la mia vita da principessa.
Ho cercato un'avventura, e l'ho trovata. Fino a sfiorare la morte, per raggiungerla.
Per poco non morivo, e mi sono passati, davanti agli occhi, tutti i
momenti vissuti all'interno del palazzo reale. Ho ricordato ogni cosa
che credevo di aver dimenticato. Ogni guaio combinato da bambina, e
ogni tentativo fallito di raggiungere l'esterno del castello, luogo in
cui mi era proibito recarmi, e controllato dalle guardie di mio padre.
L'unico posto in cui potevo sfogare il mio desiderio di libertà
rimaneva, dunque, l'immenso giardino che circondava il palazzo, e
situato ai suoi piedi.
Quando ero piccola, mi divertivo a nascondermi tra i cespugli curati da Atsumichi,
l'anziano e robusto signore dai corti capelli, oramai, argentei, il
volto rugoso e contrassegnato dagli evidenti marchi della vecchiaia e
l'aria paziente di chi ha già vissuto come si deve e non
necessita di sbrigarsi a fare qualcosa che non abbia già fatto.
E vedendo il vecchio piegato sulle ginocchia dinanzi ai piccoli arbusti
in fiore, non nascondevo una certa ammirazione per il modo in cui,
dolcemente, egli si prendeva cura della flora reale, mentre pensavo a
come fosse da giovane. Lo immaginavo biondo, e muscoloso. E non posso
mentire dicendo che non mi ero invaghita di quell'immagine.
Lo sentivo, spesso, sussurrare gentili parole alle pargole foglie che
non smetteva di accarezzare quasi come fossero neonati strillanti e,
quando accadeva, non riuscivo a non avvicinarmi alla sua figura,
che mi accoglieva sul suo petto a braccia aperte.
Con Atsumichi ho vissuto i momenti più spensierati della mia
fanciullezza: ammiravo l'uomo dall'aria tenera che, qualche volta, mi
afferrava per i fianchi e, stendendo le braccia, mi sollevava in aria
contento di avermi impedito di piangere ancora, per il ginocchio
sbucciato che poi si affrettava a curare, e sul quale lasciava sempre
un piccolo bacio.
E a lui faceva piacere che io mi interessassi della sua vita e che gli
chiedessi di ciò che aveva avuto modo di scoprire e visitare,
prima di accettare l'offerta di lavorare al castello di mio padre.
Ascoltando i suoi racconti, non mi fu difficile capire che il
giardiniere era un uomo di mondo; uno che aveva visto ogni cosa che
meritava di essere adorata.
Un giorno, avrei voluto essere come Atsumichi, e andarmene a spasso per
il mondo esterno, dove esisteva ciò che, invece, non era
conosciuto da coloro i quali abitavano all'interno delle mura, lontano
dai pericoli, dai rischi; ma anche dalla libertà.
E gli volevo persino bene all'anziano giardiniere. Tanto che, per come
mi trattava, egli ottenne facilmente la stima e il consenso di mio
padre, e divenne quasi il mio badante.
In fondo, era grazie a lui se, sin da piccola, conoscevo tutto
ciò che c'era da sapere sugli esseri vegetali che abbondavano
nel nostro giardino; se ero a conoscenza di ogni segreto dello spiazzo
stesso. E fu grazie ai racconti dei giorni in cui faceva il soldato,
che mi decisi a scappare dalla triste realtà in cui ero stata
costretta a vivere; a fuggire dai ruoli e dai compiti a cui avevo
l'obbligo di adempiere, affinché la mia immagine risultasse
quella di una persona colta e posata.
Eppure, all'interno delle mura del castello, non si svolgevano soltanto
lezioni di cucito, di buone maniere e portamento. Ma, qualche volta, la
signorina Nene, la mia vecchia insegnante, mi permetteva di
interrompere il momento dedito alla lettura dei saggi storici, e di
girovagare per le innumerevoli stanze del palazzo, che lo facevano
assomigliare ad un labirinto, più che alla calma dimora della
famiglia reale. Difatti, erano parecchie le persone che, con il loro
lavoro, impedivano al silenzio di regnare nel castello.
Tra tutti coloro che facevano parte della schiera di gente di cui mio
padre si fidava ciecamente, e di cui mi fidavo anch'io, ricordo, con
piacere, la signora Ayano, la cuoca sempre impegnata in cucina, che mi
faceva volentieri assaggiare i suoi piatti, prima di servirli a pranzo
e cena, in quanto sua preziosa e fedele aiutante. Ella era una donna
sulla cinquantina, credo. I capelli marrone scuro che arrivavano appena
a sfiorarle le spalle larghe, le gote paffute sempre rosse, il corpo
grosso e pesante dimostravano una natura lontana dalla delicatezza, e
celavano la verità legata a quell'essere e la sua unica natura.
Ayano, infatti, era zelante in tutto ciò che faceva. Ma
nonostante fosse una donna silenziosa e riservata, forte e severa al
punto giusto, in cucina, dimostrava agli altri tutta la sua spensierata
allegria, e la buona volontà che metteva nel suo mestiere, al
fine di ottenere il rispetto che le sue grandi portate, in grado di
saziare anche il più esigente palato raffinato, meritavano.
E quando volevo allontanarmi dall'avidità della nuova moglie di
mio padre, che aveva, a quel tempo da poco, preso il posto della mia
vera madre, morta di tubercolosi quando io avevo solo pochi anni, e
sfuggire dal suo sguardo severo, mi rintanavo nel mondo della mia cuoca
preferita. Ricordo, addirittura, che, vedendomi arrivare, timida, Ayano
mi sorrideva. Faceva qualche battuta sul mio strano modo di acconciare
i capelli, che non si addiceva per niente, secondo il parere delle
donne impegnate a riordinare la mia stanza e a prendersi cura della mia
figura, all'eleganza di una principessa, mi accoglieva nella sua
dimora, calda per via del fuoco sempre e instancabilmente presente, e
mi offriva un tozzo di buon pane che gustavo volentieri e in silenzio,
mentre ammiravo le grossa braccia della donna manovrare la pasta stesa
sul tavolo da lavoro.
Ma il momento che più adoravo era quando, finito di lavorare e
serviti mio padre e la mia matrigna nella sala più bella del
palazzo, Ayano si slegava il grembiule che le copriva il pancione, lo
sistemava accanto agli altri attrezzi da lavoro, mi faceva segno di
seguirla e, insieme, ci dirigevamo nella sua piccola e sporca stanza,
situata nello stretto corridoio dell'ala del castello riservata alla
servitù. Chiusa la porta di legno, in modo che nessuno potesse
disturbarci e interrompere il momento, e accesa una lanterna in grado,
con la sua flebile luce, di illuminare di poco le quattro mura in cui
ci trovavamo, Ayano mi faceva sedere sul morbido materasso su cui
dormiva la notte. Poi, mi raggiungeva e prendeva posto affianco a me. E
mentre io tenevo in mano l'unica fonte di luce di cui disponevamo, la
cuoca posizionava sulle sue gambe l'oggetto più prezioso che io
avessi mai visto: quel libro polveroso non aveva niente a che fare con
gli abiti ampollosi che mi costringevano ad indossare, e nemmeno con i
vasi preziosi e antichi che adornavano la più bella sala da
pranzo del palazzo. Anzi, era molto meglio e molto più
importante, per me.
E il fatto che leggere quelle pagine, le quali narravano le vicende
degli eroi e le loro avventure e scoperte fuori dalle mura, era
severamente proibito rendeva il tutto più eccitante.
Ma, se solo avessi saputo che indagare sul mondo esterno con una
sognatrice più grande e coraggiosa di me fosse un crimine, e
avrebbe portato al licenziamento di Ayano, l'unica persona che
assecondava i miei desideri e dava voce ai sogni nascosti di una
bambina incompresa, non avrei mai chiesto alla cuoca di parlarmi
dell'oceano e del mondo all'esterno delle mura; se avessi saputo che
non l'avrei mai più rivista, non le avrei chiesto in prestito
quel libro. Eppure, l'ho fatto.
E, ancora oggi, nascondo, sotto al letto, un oggetto che mille persone
vorrebbero bruciare e distruggere; e che mille altre, invece, leggere e
amare: non avrei mai potuto immaginare che quel primo piccolo atto di ribellione mi avrebbe portato a fare la guerra contro la mia stessa famiglia.
Per poi scoprire che quelle persone erano tutto, tranne che
la mia famiglia; che l'imponente castello in cui trascorrevo le mie
giornate non sarebbe mai stato la mia vera casa, che il posto in cui
vivevo era solo una parte del mondo in cui avrei voluto sognare.
E che il principe di cui ero stata costretta ad invaghirmi
mai avrebbe eguagliato il soldato dai corti capelli neri e dai modi
rozzi e scortesi, conosciuto per caso: già da piccola, ne avevo
piene le tasche dei sogni proibiti che, a quel tempo, credevo che non
avrei mai potuto realizzare.