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Autore: Ellie_x3    05/09/2019    7 recensioni
Aveva sperimentato un tipo ben diverso d'amore, lui, un sentimento crudele e meschino che non faceva altro che male.
Tagliava in profondità le membra di un uomo, recidendo i muscoli, non lasciando altro che languore, scavando nelle ossa fino a prosciugare qualsiasi ricordo dell'essere umano che era stato in passato. Il sentimento mostrato da Alain aveva in sé la dolce sfrontatezza dell'attrazione: inequivocabile, sì, ma di gran lunga meno disperato e violento di ciò che provava Rossignol.
Magari, si disse, non esistono tipo diversi d'amore, ma solo uomini che lo vivono diversamente.
Forse Rossignol stava mentendo e non era affatto amore quello che provava per Alain, ma una cosa era certa: Alain era innamorato di lui.
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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VIII




Nonostante gli innumerevoli impegni mondani, i balli, le prove infinite delle più varie tipologie di abiti all’ultima moda, ventagli da giorno e parrucche charmantes, Marie Antoinette aveva fatto una promessa molto tempo prima: diventare una buona regina.
Una bambina che parlava francese, mangiava francese, respirava e vestiva la Francia — cos’era diventata?
Quando aveva attraversato quella fredda tenda sul confine tra foglie secche e le prime spruzzate di neve, quando era stata spogliata di ogni bene e la maggioranza dei ricordi della sua infanzia le era stata strappata via per non rivederla mai più, Antoinette si era ripromessa d'essere generosa e comprensiva con quel popolo che mai, negli anni a venire, avrebbe avuto occasione di vedere.
Una farfalla in una crisalide di vetro che parlava, vestiva, respirava francese e che, eppure, continuava ad essere Austriaca. Cosa l’avevano resa gli anni, come l’aveva plasmata la corte.
Spesso le era capitato di ripromettersi che sarebbe andata più spesso a trovare le delegazioni delle giovani madri in difficoltà, che sarebbe stata più sollecita nelle donazioni alla chiesa di Parigi per sfamare i bisognosi e che si sarebbe interessata della situazione delle fornerie, alla politica, alla raison d’être del suo ruolo.
Col tempo, però, le avevano fatto intendere che quelli non fossero problemi degni dell'attenzione di una regina.
Era una farfalla e, fintanto che sbatteva le ali, andava bene così — un figlio maschio, due per assicurare la linea dinastica, tre per tenerla buona, ma nulla di più. Le casse dello stato mancavano della disponibilità per aiutare il prossimo e le compagnie altolocate l'avevano persuasa che c'era una maniera più interessante di utilizzare il denaro.
Dall’alba al tramonto la sovrana doveva scegliere se far felice la propria cerchia di amici, intrattenere l'intera corte oppure privarsi di quei piccoli, ma costosi, svaghi per aiutare il popolo di Parigi. I giorni passavano e lei dimenticava l'esistenza un paese intero, al di fuori della capitale.
Dunque, stanca di doversi crucciare per una faccenda dalla quale proprio non riusciva a venir fuori,  aveva ben presto delegato tutte le decisioni al buon Ambasciatore Mercy-Argenteau. Avendo dunque disposto in modo da non dover decidere affatto, spendeva senza nemmeno rendersene conto ciò che sarebbe dovuto essere amministrati dall'ambasciatore, svuotando i fondi delle elemosine quando finiva la sua disponibilità mensile.
Non era cattiveria, si diceva: solo inesperienza.
Avrebbe imparato col tempo.
Così, ogni mese la stessa storia; anno dopo anno, dopo anno. Aveva sempre fatto ciò che nessuno le aveva detto di non fare, con tutta l'ingenuità e la freschezza della sua giovane età prima e del disinteresse poi, una rosa che non aveva mai conosciuto l'asprezza che dilagava al di fuori del suo giardino.
Senza sapere come la giovane, bella nuova Regina di Francia era diventata una sperperatrice e una giocatrice senza pudore. Ancora nel cuore aveva quella promessa d'essere buona, ma non la ricordava più.

Anche quel giorno Antoinette avrebbe dovuto discutere con Mercy-Argenteau delle opere di bene e, anche quel giorno, aveva rimandato l'incontro a causa dell'ormai usuale mancanza di fondi.
“Ma chère,” si era detta, mordicchiandosi le unghie al pensiero di essere nuovamente ripresa dall’Ambasciatore, “non avere nulla da temere. Possiamo sempre aiutare le persone il mese prossimo.” 
Aveva fatto chiamare Yolande, sperando di dimenticarsi in fretta delle incombenze disattese; avevano discusso non di tasse e povertà, ma di merletti, tacchi, dolci e animali domestici. Avevano deciso insieme che Mops, ormai vecchio ed appesantito, aveva bisogno di un fratello pressochè identico, una sua ombra che zampettasse per gli appartamenti reali. Antoinette aveva avuto modo di notare che la duchessa s'era in qualche modo ammorbidita; la bellezza della sua unica figlia la riempiva d'orgoglio e, sebbene ricercasse ancora quegli svaghi ai limiti dell'accettabile che per tanto tempo l'avevano contraddistinta, si mostrava ora più conciliante con i desideri della regina.
Un tempo, Yolande de Polignac l'avrebbe dissuasa dal prendere un nuovo Mops, spingendola piuttosto ad avviare le trattative per un nuovo elefante per il serraglio reale: ora, invece, apprezzava la normalità nella quale la Regina desiderava bearsi.
Très bien,” le aveva detto, “fate come desiderate.”
Antoinette si era aperta in un sorriso luminoso.
Un nuovo cucciolo.
Una nascita benaugurale; una nuova, canina personalità di corte.
Fu allora che il bussare alla porta, nonostante avessero ordinato il più assoluto riserbo, le fece trasalire entrambe; c'era solo una persona che potesse battere ad una porta con quella stessa, timida delicatezza in un gesto che era ben al di sotto del suo rango.
Antoinette scattò in piedi, barcollando sotto il peso del vestito.
Fece cenno ad un valletto di aprire, con in cuore il desiderio di non rispondere affatto. Eppure solo quando vide Luis Auguste, pallido, pingue ed affannato, si convinse che non avrebbe dovuto mai farlo entrare.  
Sentì il fruscio della seta mentre Yolande affondava in un inchino, i cardini della porta che si apriva per lasciar entrare il re, lo zampettìo dei cani che lo seguivano strisciando gli artigli sul legno, eppure aveva la sensazione che non avrebbe ricordato nulla di quel momento in seguito.
Il re non la veniva mai a cercare.
Il re non poteva muoversi senza un'ampia scorta di paggi, non era nelle consuetudini.

Il re non, non, non—

Con una stretta allo stomaco, Marie Antoinette lo fissò mentre si avvicinava, gli occhi che le pizzicavano ma senza la forza di sbattere le palpebre e perdersi anche un solo, minuscolo, minimo dettaglio dell’angustia dipinta sul volto del consorte.
Si disse che doveva succedere.
Aveva infine ceduto anche Louis ai pettegolezzi? La sua mente tradizionalista e pacata aveva abbracciato la consapevolezza dell’infedeltà della moglie, nonostante per anni fossero stati molto meno che discreti?
Era l'unico segreto pericoloso di Antoinette e gli occhi porcini del re esprimevano un cordoglio così terribile, così inaspettato, che la sua mente divenne bianca: l’uomo che voltava lo sguardo e non la guardava negli occhi ora aveva il mento alto e la fissava, le labbra strette e le guance arrossate.
“Yolande...” mormorò Antoinette, e strinse la mano della donna vedendo che Louis non si muoveva, “potete lasciarci, grazie.”
La donna la guardò, le strinse brevemente il braccio di rimando e si voltò per andarsene. Era un tripudio di rumori e colori, la sua gonna, ma non riuscì a sovrastare la voce del re — per la prima volta, Marie Antoinette lo sentì alzare il tono, parlare da uomo, da marito, con la testa alta.
“Restate, madame. Porto ad entrambe una terribile notizia.”
Una terribile notizia.
Quanto terribile poteva essere, se il Louis Auguste in persona veniva a riferirla? Antonietta risucchiò un respiro spezzato, sentendo l’aria umida improvvisamente pesante nello stomaco. Tornata silenziosamente al suo fianco, Yolande restava immobile. Entrambe con la mano sul cuore, attesero che Louis guardasse prima l'una, poi l'altra.
“Non so bene come di— non è certo una questione facile, sono molto rattristato per voi, mia cara…” allora il re prese tempo, ingoiò a vuoto. Già dall'inizio aveva preso a giocherellare con il tricorno color fango, inserti dorati che scintillavano alla luce del sole. Era quello che teneva per lavorare nella fornace —non s'era nemmeno cambiato, riconobbe Antoinette con un sussulto — e le sue dita sporche di pece stringevano la stoffa, la piegavano come se potesse trovarvi conforto.
“Monsieur?” lo pregò.

Non, non, non

Louis Auguste non l’aveva guardata, allora, la spavalderia sciolta come una spruzzata in primavera, ed aveva volto lo sguardo al pavimento.
“Si tratta di vostro cugino. Sono addolorato di informarvi che è deceduto nei suoi appartamenti.”

 

#

 

Rossignol aveva adempito a tutti gli obblighi di fratello minore ed era tornato a corte senza alcun tipo di nostalgia per la campagna, per gli insetti e per lo stantio odore di muffa della sua taverna di fiducia. Ottimo vino, ottimi dadi ed ottime cameriere iniziavano a stargli un po’ stretti, quando poteva avere tutto ciò e un arredo decente a Versailles.
Orestes aveva fatto ciò per cui l'aveva pagato, spaventando e minacciando e prendendo la vendetta che Rossignol non aveva osato reclamare da solo, e questo aveva alleggerito il peso sul suo petto… ma, invero, non di molto.
E dire che era appena diventato uno zio!
Quella creatura minuscola, rosa, che odorava di latte e rideva come se nulla al mondo la spaventasse sarebbe diventata un giorno qualcuno come lui. Nel tenerla fra le braccia e cullando piano della sua più giovane nipote, Rossignol aveva sentito nascere in sé il primo barlume d'affetto puro ed incondizionato: una strana gioia l’aveva scaldato, con la sensazione di voler fare del bene fine a sé stesso, senza scopo se non quello di rendere il mondo un luogo migliore per quella bambina così piccola, così morbida. Poteva romperla; aveva rotto esseri grandi cento volte lei senza rimorso alcuno, ma voleva proteggerla.
Il ragazzo si sentiva afflitto da un peso, come un masso che gli gravava sullo stomaco ed era impossibile far rotolare via, che lo seguì fino alle sue stanze.
Sentiva ancora il profumo di Josephine nell'aria; la sua cipria per capelli, il sorriso stanco e la pelle macchiata dalla fatica del parto, i vagiti del neonato che così piccolo già chiedeva mille attenzioni diverse erano spettri che lo avevano seguito sino a casa di Parigi.
Sua madre non gli aveva riservato altro che l’accoglienza che Rossignol si aspettava ma, per la prima volta, si chiese cosa una donna avrebbe potuto provare invece di fronte al figlio.
Avrebbe potuto amarlo incondizionatamente.
Avrebbe potuto vederlo come l'eterno bambino, piuttosto che il cortigiano.
Avrebbe potuto fargli il dono di adorarlo, amarlo, viziarlo nonostante tutti gli errori, gli sgarri, i giochi pericolosi e le mancanze morali che mai erano dispiaciute a compagni più affini, ma che mai s'erano fermati a lungo. Rossignol era una taverna di passaggio, un molo inospitale; per quel giorno, per la prima volta, sentì la consapevolezza di essere in collera con sua madre per non essere rimasta.
Lei era lì, curva e vestita di nero.
Sette figli, tre nati morti, avevano lasciato sulla donna che chiamava maman un'impronta indelebile. Ciascuno di loro aveva posato la sua piccola mano sul corpo della madre lasciando una cicatrice invisibile, come ad aggiungere un peso che l'aveva lasciata sempre più stremata, sempre più cupa. La manina paffuta della seconda ed ultima delle sorelle, Trophine, era quella che aveva lasciato il segno più visibile. La sua stretta di bambina aveva dato prova di essere la più forte, l'ultimo colpo in grado di spezzare quella donna severa che era stata la madre di Rossignol.
Lui l'aveva vista morire, Trophine. Portata via dalla polmonite, era spirata come un angelo di porcellana tra le braccia dei suoi genitori, circondata dai fratelli maggiori e dalla sorella che dormiva nel suo stesso letto.
Da allora, Rossignol non era più stato il benvenuto nella casa paterna poichè Trophine regalava ai due vecchi genitori una bontà d'animo, una speranza, un'indulgenza, che se n'era andata insieme a lei.
Sua madre alzò gli occhi su di lui senza fargli il minimo cenno, rimanendo appollaiata su una poltrona di velluto davanti ad un camino spento. Un braccio le cadeva mollemente in grembo, l'altro teneva sollevata la testa di capelli argentei.
“Cosa vuoi?”
Rossignol venne scosso da un brivido.
Sua madre aveva i capelli ingrigiti e il viso solcato di rughe, ma la voce era dotata della stessa durezza di sempre.
“Sono andato a trovare Josephine e la bambina.”
Si era aspettato un sorriso, una vaga dimostrazione di gioia per l'unica figlia femmina e, tuttavia, sua madre rimase a guardarlo come se nulla fosse accaduto; pallida in volto, con il vestito nero del lutto, priva della più semplice delle emozioni.
“Molto bene, hai deciso che era il momento di dimostrare gratitudine.”
Rossignol strinse i pugni.
“Sono ancora qui perchè vi sono grato, maman. Non solo a Josephine o a suo marito, o alla gioia che ha portato in questa famiglia.”
La donna emise una risata grottesca, breve, come evocata dal nulla. Era un suono di gola, privo di allegria.
La nascita la angosciava sin dalla morte di Trophine; i primi figli di Guy Tholomeis, il maggiore dei fratelli di Rossignol, l'avevano lasciata senza fiato dalla gioia. Aveva riso, deliziandosi dei piccoli passi di quei nipoti che tanto aveva voluto, s'era presa cura di loro facendoli giocare con la loro stessa zia, non così lontana in età.
Ora due di quei bambini dormivano in minuscole bare buone forse per delle bambole e maman non era più la stessa. I suoi figli non le presentavano più i nipoti e le nuore si risentivano di una reazione depressa al coronamento del loro dovere.
Rossignol, ch'era solo, tentava invano di allietarla quando se ne ricordava.
“Forse questa bambina – è una femmina, c'est non?-  verrà danneggiata dalla tua reputazione, Jehan Henri.” replicò la madre, con ancora lo spettro di una risata sul viso rugoso, “come tutti noi.”
Com'era penoso udire quelle parole.
Ancora una volta, Rossignol sentì il desiderio di voler essere amato, non biasimato; voleva poterle raccontare le sue pene ed i suoi desideri, i suoi peccati e i vizi senza essere deriso ed allontanato. Desiderava una madre come quella che sapeva che sarebbe stata Jospehine.
Per la prima volta, vedeva cosa gli era mancato. Dunque non rispose, inghiottendo con difficoltà la moltitudine di risposte caustiche che gli erano salite alle labbra ancor prima che la madre potesse finire la frase. Il cuore di martellava nel petto, ma non sapeva nemmeno lui perchè, se per la vergogna o se per il fervente desiderio di dirle che, nonostante tutto, le voleva bene. La biasimava per tutte le sue mancanze, ma sospettava di volerle bene anche il quel momento.
“Non rispondi, Jean Henri?” lo incalzò lei, lanciandogli un'occhiata, “e non dovresti essere a corte, ora?”
“No, maman. Sono venuto a parlarvi nell'interesse di Jospehine.”
“Ah. E cos'ha fatto ora, quella benedetta ragazza?”
Rossignol sospirò, sollevato nel percepire un seppur minimo interesse da parte della donna. Non lo amava in particolare, ma aveva sempre preferito le figlie: le aveva amate e le aveva coltivate come piccoli fiori in una serra, personalmente, amorevolmente, mentre i figli venivano delegati a tutori ed insegnanti.
Non le avrebbe negato nulla, pensò.
“Si sente sola e non ha esperienza con i bambini, maman. Vorrebbe tanto che...”
“Che cosa?” lo interruppe lei, con uno sbuffo irritato. Allora Rossignol sentì lo stomaco annodarsi in una spiacevole sensazione di nausea: c’era davvero stato un tempo in cui quella donna che li aveva partoriti li aveva anche amati?  “Vuole dunque che prenda una carrozza a noleggio e vada a trovarla? Perchè non può venire lei? La bambina è già grande a sufficienza.”
“Potete chiedere a mio padre di arrangiare i preparativi per un breve soggiorno. Non dovreste nemmeno affaticarvi.”
Sua madre scosse la testa e la retina nera le rimbalzò su occhi e fronte, oscurando per un attimo il suo sguardo.
“Jehan Henri, sono troppo vecchia per queste cose e non ho intenzione di mettere a repentaglio la mia salute,” una pausa, impercettibile, e Rossignol potè notare il guizzo di malizia negli occhi scuri di sua madre, “o forse è esattamente ciò che vuoi.”
Allora sì che avrebbe voluto piangere, Rossignol. Aveva già visto quel guizzo nello sguardo di qualcuno a lui molto caro, un dettaglio che l'aveva colpito troppo di recente per passare inosservato.

"A lui non interessa."
E dire che si era sentito così potente, così intoccabile nel riferire a Orestes che, semmai l'avesse chiesto, il principe doveva assolutamente sapere che Rossignol non avrebbe pianto la sua morte e non sarebbe stato intenerito da minacce di quel genere. Non gli importava, perchè certe porte una volta chiuse non si possono più - più, mai più - riaprire.
Dovrei parlare con T. 
Forse, forse mi sono lasciato trasportare dall’offesa che mi ha arrecato; forse ho esagerato.

Forse.
Il giorno dopo, una volta aiutata Josephine.
“Maman, vi prego,” mormorò, mestamente, azzardando un passo in avanti.
Istantaneamente, sua madre arretrò, affondando ancor più nella stoffa cremisi della poltrona.
“No. Non lo farò,” dichiarò “Sono troppo vecchia.”
L'ultima parola venne pronunciata con un filo di voce, con reverenza e paura tali da rendere l'intero viso della donna grottesco e più rovinato di quanto non fosse. Rossignol notò che la sua figura aveva perso l'annoiato languore di prima: ora le sue spalle si ergevano rigide e incurvate, e le mani stringevano i braccioli febbrilmente.  
Annuì, allora, sapendo che non ci sarebbe stato nulla da fare.
“Va bene, dunque. Come volete.”
“Parla a tuo padre e predisponi che le siano spedito del denaro,” la donna guardò il caminetto, ma come se non lo vedesse. La retina nera, calata sul viso come un'ombra, non nascondeva sufficientemente bene la tristezza in quegli occhi neri. “Ed una casa di bambole per la bambina. Scrivi a Guy Tholomeis, la sua figlia bastarda è troppo grande per giocare ancora con quella che le abbiamo regalato; la presterà alla cugina.”
“Come desiderate, maman.
La donna annuì specularmente a Rossignol. Il ragazzo stava già pensando di regalare un nuovo giocattolo alla nipote, senza obbligarla ad usare gli avanzi di qualcun altro.Lui era stato cresciuto così, con i vestiti smessi di François e i libri di testo di Guy, e ricordava di non essere stato affatto felice; voleva che la bambina di Josephine, almeno, godesse del lusso di sentirsi una piccola regina.
Proprio allora, dopo qualche istante di silenzio pensieroso, Rossignol vide che la madre gli stava facendo cenno con la mano.
“Ed ora vattene, Jehan Henri. Tra poco tornerà tuo padre e non ha alcun desiderio di vederti in questa casa.”
Rossignol annuì e si inchinò a denti stretti, ma non disse nulla. Non una parola di commiato, non un saluto.
Invidiava enormemente la bambina di Jospehine.

Si diresse a Versailles con la carrozza che aveva fatto aspettare fuori dal palazzo dei suoi genitori senza attendere oltre, sperando invano di arrivare a destinazione prima di sera inoltrata. Forse, non sarebbe mai nemmeno dovuto passare a casa, in quel luogo che aveva amato nell'infanzia e che ora non era altro che un ammasso di pietre ostili.
Si aspettava d'essere accolto dal silenzio dei suoi appartamenti e, al più, da un invito a cena, invece erano gli occhi d'oro brunito di d’Artois, grandi e liquidi, che lo fissavano da svariati secondi; immobili, illuminati dalla luce fioca delle candele oramai quasi spente. Erano pervasi da quella fiamma che capita che arda nell'animo delle persone nei momenti difficili, quando hanno perso qualcuno e ne danno la colpa ad altri, biasimandoli per aver fatto poco— o troppo.
In quelle fiaccole feroci, tuttavia, Rossignol non scorgeva alcun motivo perchè D'Artois dovesse avercela proprio con lui in particolare: era appena tornato e non poteva aver fatto nulla di male.
“Prima di tutto cosa ci fate nel mio salotto senza il minimo preavviso, Monsieur?” esordì Rossignol con un sogghigno, facendosi scivolare  di dosso la redingote di broccato rosso che usava per i viaggi. Un servo la afferrò prima che spalle e colletto lavorato in taffettà raggiungessero i gomiti e la stoffa rischiasse d’essere rovinata, e se la drappeggiò con attenzione su un braccio.  
Non che Rossignol non fosse contento di vedere d’Artois; al contrario, era sempre benvenuto nelle sue stanze. Ma non gli piaceva quello sguardo fosco, quell'aria come se fosse crollato il paradiso intero e Rossignol ne fosse responsabile.
“Non puoi immaginarlo?” rimarcò lui, ogni parola scandita con una lentezza esasperante.
Il giovane conte brioso che conosceva era sparito dietro una patina che lo rendeva quasi un estraneo agli occhi di Rossignol. Il ragazzo, nel frattempo, si stava sfilando i guanti e sorrideva.
Era uno scherzo ben congegnato, non c'era che dire.
“Oh, naturalmente, è facile.” replicò, ridacchiando tra sé e sé mentre tirava una ad una le dita dei guanti in pelle e, una volta sfilati, li riponeva in un piattino d'argento. “Volete un prestito.”
D'Artois scosse la testa.
“Vi sembra il momento di scherzare?”
Non lo urlò, ma sortì forse un effetto ancora peggiore. Quelle parole avevano una profondità tale, un tale rimorso, che Rossignol si pentì di aver pensato ad uno scherzo senza immaginare a qualcosa di reale e terribile.
Si voltò, lentamente, per confrontare d'Artois. Il ragazzo biondo e il principe con gli occhi allegri, entrambi mortalmente seri, entrambi pallidi. Rossignol prese fiato, ma si interruppe prima di espirare come se avesse avuto paura di fare rumore.
“Cos'è accaduto?” mormorò.
Forse una parte di lui lo sapeva.
Non pensò alla moglie di Charles, la laconica Maria, né al loro primogenito; le donne e i bambini morivano spesso, in silenzio com'erano venuti al mondo. Non si chiese se fosse un problema di stato o una malattia del Sovrano, che pure erano scenari che incombevano sulla corte in ogni istante del regno del fragile Louis Auguste e dei forti moti Illuministi; eppure, Rossignol non pensò a nessuno di loro.
Si voltò verso i due domestici che attendevano ordini, diritti come fusi ed impettiti vicino alla porta principale, e fece loro cenno con il mento.
“Lasciateci.” ordinò.
D'Artois, per dare il proprio sostegno, annuì; l'ultima parola, in quanto principe di quell'enorme palazzo che era Versailles, spettava a lui. Anche se solitamente non avevano nulla da nascondere, sapevano entrambi che ciò che stava per accadere non era consono ad orecchie indiscrete.
I domestici se ne andarono lasciandosi dietro solo il cigolio della porta e un vociare sommesso, ma a Rossignol non importava. Si sentiva in trappola e sofferente, tenuto crudelmente sulle spine ma allo stesso tempo nient'affatto desideroso di conoscere i fatti.
D'Artois si portò una mano al viso per stropicciarsi gli occhi, ed apparve stanco — scosso, avrebbe detto, tormentato da un mal di testa di cui non conosceva la fonte.
“Dunque non sapete,” disse, ma a sé stesso più che a Rossignol. Non lo guardava più e, per un istante, il ragazzo sospettò che Charles avesse mormorato un’insulto irripetibile, “credevo che ne avreste avuto quantomeno il sospetto. Vi avevo detto di lasciar perdere, non? Eravate stato avvertito.”
Il ragazzo scosse la testa.
Sapeva, sì, ne era sicuro.
“Di cosa state parlando?” chiese, cercando di scrutare il viso di D'Artois: non era poi così diverso da quello di sua madre, così provato.
“Dove eravate, Rossignol?”
“Sono stato da mia sorella.”
Le labbra pallide di D'Artois si stiracchiarono in un ghigno sardonico.
“Buon per voi.”  sbottò, spalancando le braccia in modo così teatrale che Rossignol si aspettò, per un attimo, di sentire una folla di spettatori alle loro spalle. “E chi altro era lì, lo sapete? Dovete averlo incontrato per forza, o avete dimenticato?”
“Io—”
“Vi avevo detto o no, sciocco ragazzino, che v’erano cose che non dovevate fare? Non tutti sanno giocare bene come voi al vostro stesso gioco, Rossignol.”
“Che è accaduto?” ripetè Rossignol, con foga, e anche se ne aveva la certezza voleva sentirsi dire che non era vero.
Voleva che D'Artois gli dicesse che il re era malato; vaiolo, lebbra, peste, polmonite, qualsiasi cosa. Voleva che gli comunicasse che c'era una crisi, l'ennesima. Chiudendo la distanza fra loro con solo il suono dei suoi tacchi sul legno e del sangue che gli ribolliva nelle tempie come un fiume impazzito, Rossignol si aggrappò al giustacorpo di velluto di D'Artois, scrollandolo con forza. Pareva quasi che agitandosi un po' la verità sarebbe venuta fuori da sé, meno dolorosa di quel che si prospettava.
Tutto ciò non poteva essere vero, quindi perchè preoccuparsi di reagire con grazia? Nei sogni si ha la possibilità di essere violenti, ma negli incubi è una reazione espressamente richiesta.
“Dovete dirmelo."
“Stamani 'Toinette ha annunciato il decesso del Principe,” esordì il conte, con un filo di voce.
Rossignol sentì che tutte le sue speranze di spezzavano con un suono fragoroso come di cristalli in frantumi e si stupì che D'Artois non lo potesse sentire. Che non si fermasse lì. Doveva capire che Rossignol non voleva più sentire nulla, ma il conte lo guardò negli occhi. Erano arrossati.
“Mi dispiace, cheri. Che cosa hai fatto?”
Rossignol boccheggiò.

L’hai ucciso.

Lo sapevano entrambi, dunque. Nessuno in quella stanza, in quei due uomini che si conoscevano da troppo, troppo tempo, era abbastanza ipocrita da negare che Rossignol stesso gli avrebbe potuto legare il cappio attorno al collo e sarebbe stato lo stesso. Di certo, in un certo senso, l'aveva fatto.
“No.”
Era una supplica quasi muta, quella, frutto dell'ultimo filo d'aria rimasto nei polmoni di Rossignol. Aveva la bocca secca, la lingua pesante, le membra ch'erano improvvisamente schiacciate con forza al suolo ma lui rimaneva in piedi, incapace d'accasciarsi a terra, incapace di distogliere lo sguardo ma sentendo la vergogna arrossargli il viso fino alle orecchie.
“Rossignol...”
“No,” disse, con nuova e rinvigorita forza, stringendosi ora all'intera figura dell'amico. “Non intendevo niente di ciò che ho detto.” 
Che ho fatto dire ad altri; se glielo avessi detto io, forse avrebbe visto.
Non si aggrappava più ai suoi vestiti ma alla sua mente, alla sua vicinanza, alla sua mera presenza fisica. Rossignol sentì le dita del conte accarezzargli i capelli. E mentre D'Artois, con infinita gentilezza che non meritava in alcun modo, guidava la sua testa contro il proprio petto e lo cullava, Rossignol sentì le prime lacrime scorrergli lungo le guance: due uomini che si consolavano a vicenda, entrambi un colpevoli in quella triste storia, e nessuna parola rimasta da dire.
D'Artois strinse Rossignol a sé come avrebbe fatto un padre e il ragazzo si chiese se, sotto il velluto e la seta della camicia, Charles potesse percepire il suo pianto silenzioso.

A lui non importa.

Come aveva potuto lasciargli credere che fosse vero? Gli tornarono in mente quegli occhi azzurro scuro, come un cielo che si avvia verso la notte, e le mani perfette che lo guidavano verso una delle tante terrazze della corte.

Se io sono il diavolo, monsieur, voi sarete il mio confessore.

L'aveva toccato così poche volte, così formalmente. Credeva di aver sempre tempo per ripensarci, per giocare e tirarsi indietro, credeva che avrebbe avuto tempo per ferirlo come lui era stato ferito prima di cedere alle sue attenzioni.
Quasi senza pensare, strinse più forte la stoffa delle vesti di d'Artois.
“Non l'ho mai abbracciato.” sussurrò, con le labbra premute contro il petto dell’uomo. Lo sentì annuire, lentamente, dopo molti secondi.
“Lo so, cheri. Lo so.”

 

Com'era da aspettarsi, dati tutti i coinvolgimenti del caso di cui la Sovrana era stata messa a parte, Rossignol era stato richiamato da Antoinette per un'udienza privata. Si aspettava una regina che già aveva dimostrato il proprio cordoglio per il cugino in tutte le formalità richieste, ma fu un'altra Antonietta quella che lo accolse, seduta su un divanetto di stoffa azzurra. Fresca anche nel nero del lutto, con l'acconciatura alta ma priva delle solite piume e degli ingranaggi preziosi che ornavano i boccoli candidi; aveva le guance rosate solcate dalle lacrime versate nell'intimità ma gli occhi erano asciutti. Una donna che aveva perso un parente: così la vide nel momento in cui gli furono aperte le porte del salotto privato di Marie Antoinette.
Rossignol si inchinò profondamente, a sua volta con un nodo allo stomaco che quasi gli impediva di respirare.
Da giorni ormai riviveva nella sua mente ogni istante del corteo funebre riservato al Principe T. del non poi così lontano principato di Waldeck-Pyrmont come se fosse intrappolato in un incubo, senza via d'uscita e popolato da figure incappucciate e velate di nero. Sentiva la voce del vescovo, i canti delle donne, i sussurri. Gli girava la testa da giorni, non aveva appetito e tutto quello che sentiva era l'odore dell'incenso che bruciava nella sua prigione d'oro.
“Si è tolto la vita, sapete.” mormorava la folla, appena più indietro delle tre file che reggevano la bara. Un pesante scrigno di legno, muto e cupo. “Non meriterebbe un funerale del genere, non trovate? Ma le apparenze...”
Rossignol, che udiva tutto nel suo distacco, ingoiava amari bocconi d'indignazione, mordendosi le guance e stringendo ferocemente i pugni. Non c'era nessuno che meritasse la gloria di Dio più di quel principe idiota e idealista, tanto pio da suscitare nell'uomo comune una certa sensazione di pena mista a terrore ed ossessione che ricordava così tanto l’estasi religiosa.
Avrebbe voluto urlarlo.
Marie Antoinette sembrava rivivere le stesse scene con i begli occhi azzurri, solitamente vispi ed ora cerchiati di rosso.
“Rossignol, mi dispiace molto,”  mormorò, facendogli cenno di avvicinarsi al divanetto.
La stanza attorno a lei era grandiosa, sulle tinte dell'oro e del verde, ma alla luce degli eventi appariva ventosa e spoglia: con l'unica eccezione d'uno scrittoio e di un grosso mappamondo d'avorio, oltre al divano della regina, non v'era nulla al centro della sala. In fondo, alla parete, si ergevano un grosso caminetto ed uno specchio con la cornice di foglie dorate, ma nulla di più.
“Maestà, sono io quello addolorato per la vostra perdita,” replicò Rossignol, inchinandosi ancora una volta. Sperava di dissimulare la propria disperazione, il pallore delle guance e la voce incrinata, ma dubitava d'essere tanto abile. “Vi porgo ancora una volta le mie più umili e sentite condoglianze, con quelle della mia famiglia. Abbiamo presenziato al funerale del Principe con grande afflizione.”
Nascosto dietro le più crude formalità, Rossignol si era sempre sentito al sicuro. Ora, però, poggiando le mani sulla fredda superficie delle espressioni ufficiali, non sentiva il solito, solido senso di protezione; si sentiva senz’aria.
Marie Antoinette, con il collo sottile appesantito da un doppio giro di perle ed ornato da un cammeo che le si posava sul petto, scosse la testa. La capigliatura oscillò, ma non un solo ricciolo cadde sulle sue spalle.
“Non dite così, Rossignol. So cosa avete perduto.”
Il ragazzo, preda di una sensazione di capogiro, piantò i tacchetti a terra per non cedere all'istinto e fuggire.
“Maestà, io...”
La donna lo interruppe mostrandogli il palmo della mano.
Cinque dita guantate, nere, inframezzate dal luccichio dei gioielli e un braccio coperto di taffettà e velluti del colore della notte. A Rossignol, quello, parve il gesto più regale che Marie Antoinette gli avesse mai rivolto.
“Sono addolorata per mio cugino, ma non dovete addossarvene la colpa. Charles mi ha parlato.” Per un attimo, le ciglia bionde di Marie Antoinette si abbassarono, e la donna sorrise come fra sé e sé, senza la presenza di Rossignol. Quando tornò a parlare, lo fece con il tono con cui, a volte, si rivolgeva ai suoi stessi figli. “L'amore spezza il cuore di chi lo prova, temo. Porta infelicità e annientamento. Questo lo so io, e lo sapete voi.”
Rossignol inspirò piano.
“Posso chiedervi se avete mai sofferto così?”

Ah, Rossignol.
Non hai ancora imparato qual è il tuo posto?

“Una volta, con un uomo che ho amato sin dal primo momento,” mormorò Marie Antoinette, portandosi le mani in grembo. Non più una ragazza, ma una donna adulta e con figli, la regina di Francia aveva spesso l'abilità di far dimenticare come gli anni fossero passati anche per lei. “ho avuto la fortuna di poter tornare sui miei passi, Rossignol. Voi non l'avrete.”
“Ne sono consapevole.” biascicò, con una difficoltà che parve ridicola persino a lui. Non aveva mai sperato che il principe T. potesse aprirsi un varco nella terra e tornare fra i vivi come il frutto d'un miracolo: era un pensiero da bambini, lo stesso che si era concesso alla morte di Trophine quando era indicibilmente più giovane e più speranzoso.
No, non desiderava che T. tornasse per rinfacciargli la crudeltà con cui l’aveva trattato per un solo gesto offensivo, e di cui s’era pentito. Non voleva che tornasse a dirgli che era indegno d’essere chiamato essere umano e che l’aveva ucciso.
“Vi ha lasciato un biglietto, prima di morire. Lo sospettavate?”
Rossignol deglutì a vuoto, il terrore che lo congelava sul posto.
La consapevolezza di aver cercato di spaventarlo servendosi della complicità di Orestes lo colpì come uno schiaffo in pieno viso, insieme al sospetto d'essere accusato di omicidio. Ecco, infine, la giustizia: presentata dal fantasma dell'uomo a cui era — che senso aveva negarlo ora? — affezionato.
“No, mia regina,” si sporse in avanti, come per poterlo vedere, ma Marie Antoinette non aveva nulla fra le mani. “Posso chiedervi se ne siete in possesso e se potrò leggerlo?”

Voleva leggerlo.

Cosa poteva dire a lui, il principe T., in quel momento disperato?
"É stato portato nelle vostre stanze appena siete uscito, consegnata da un uomo fedele. Non ho potuto fare a meno di leggere, spero mi perdonerete,” la regina gli lanciò un lungo sguardo nel quale, sorprendentemente, Rossignol non percepì né accusa né odio. Solo una grande compassione. “Credete che vi siano state rivolte parole ignominiose, Rossignol?”
“Vostra maestà, non ne ho idea. Spero nel contrario,” rispose lui, con tutta l’accortezza possibile, ancor prima di pensarci su.
Marie Antoinette, impercettibilmente, sorrise.
“Vi corrispondevate.”
“In un certo senso, maestà. Credo, almeno.”
“Dunque, capite che mi dispiace molto per voi, Rossignol. Accettate le mie più sincere scuse per non aver saputo comprendere i vostri trascorsi ed intervenire prima.”
Per un attimo, complice l'intimità e la recente perdita, Rossignol desiderò accasciarsi ai piedi di Marie Antoinette e piangere tra le sue braccia come aveva fatto con d'Artois e come non avrebbe potuto permettersi con nessun altro.
Invece, rimase in silenzio.

 

#

 

“Rossignol.”
Il ragazzo, che conosceva sin troppo bene quella voce, si voltò lentamente. Alain era affannato e appariva stanco, ma la sua figura era possente come sempre; i suoi occhi chiari, quasi d'un verde glaciale sotto la luce delle candele e dei vetri colorati, lo scrutavano con una profondità che pareva potesse leggergli dentro.
“Alain,” rispose, con un filo di voce.
Un brivido lo scosse violentemente nel ricordare l'ultima circostanza del loro incontro.
Com'era ingiusto; più lo guardava e più ricordava di esser stato felice tra le sue braccia. Ricordava la bruciante sensazione di non potersi fermare, di esser preda di un feroce senso di onnipotenza nel vedere il duca spezzarsi sotto le sue labbra e chiedere di più con ogni gesto e respiro spezzato. Forse, mentre le dita di Alain si posavano sui fianchi di Rossignol, il Principe T. stava già meditando di compiere l'inevitabile?  
Tale pensiero, così crudele, costrinse Rossignol a distogliere lo sguardo.
“Avete sentito?”  
D'Ovigny annuì, con le sopracciglia aggrottate e un turbamento che gli scuriva il volto.
“Certo. É una vera disgrazia, per tutti noi. Non meritava affatto...”
“No, era una brava persona.”
“Sì, lo era.”
Parlare del principe con Alain, tra tutti, era penoso e ridicolo. Come si sentiva sciocco ad aver portati entrambi a quel punto, quando erano stati amici, parte dello stesso tavolo ai giochi ed ai balli. Ora ne parlavano tutti come se non l'avessero mai conosciuto davvero, come se fosse solo un altro corpo sottoterra. Quando si erano seduti tutti ad ascoltare l'arpa della regina, mai avrebbe sospettato un risvolto tanto disgraziato, un così rapido crollo degli eventi ma, se lui era dannato per ciò che aveva fatto, l'intera corte doveva esserlo per il distaccato affetto con cui dipingeva T. ora.
Allora, però, vide Alain drizzare le spalle e dichiarare, con una voce profonda che mai gli aveva sentito:
“Prendo commiato anche io, sebbene in maniera più felice.”
Rossignol per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Aveva una gran voglia di piangere ancora, nonostante dubitasse di avere lacrime rimaste in corpo, eppure l'unico impulso che sentì fu quello di gettare la testa indietro e liberare una risata di cuore.
Non voleva sentirlo. Non poteva succedere tutto quel giorno.
“Vi sembra il caso di...?” replicò, con ancora l'eco delle proprie risate nelle orecchie.
La morte di T. non era un commiato, era praticamente un omicidio; Rossignol ne aveva la piena responsabilità. Ed ora Alain ci scherzava sopra! Tuttavia l'uomo scosse la testa, alzando le mani come ad informarlo che non aveva alcuna intenzione di offenderlo.
Aveva un biglietto nella destra, un bel pezzo di carta marmorizzata ripiegato su sé stesso più volte.
“Avete ragione, sono stato indelicato. Intendevo dire che devo partire.”
Nel momento in cui si rese conto della realtà di quelle parole, il mondo parve girare di nuovo, vorticosamente, in direzione opposta.
Non poteva essere vero.
“Cosa? Quando?”
“Immediatamente, per quanto mi sia possibile.”
“Ma non potete!”
Alain lo guardò a lungo, scrutando il viso di Rossignol come ad imprimerselo nella mente. I suoi occhi accarezzarono gli zigomi, il naso, la fronte del ragazzo, indugiando sulla linea delicata della mandibola e delle sue labbra. Assottigliò lo sguardo per un istante, difficoltà e rimorso che spillavano da ogni parola che non diceva, e solo allora gli tese il bigliettino.
“Temo di dovere, invece. Credetemi, non vorrei lasciarvi solo in questo momento di lutto, ma non ho scelta. Tenete, per ora... Non posso spiegarvi ora come vorrei, ma spero di poterlo fare in futuro.”
Rossignol annuì, e prese il messaggio con mani tremanti.
C'era della lavanda, su quel biglietto: la stessa lavanda che T. non aveva mai menzionato o mostrato di notare. La lavanda che era rimasta impigliata fra i vestiti di Alain e il cui profumo aveva pervaso le sue stanze per giorni dopo il loro ultimo incontro.
La lavanda che il duca aveva detto di adorare, mentre si portava i capelli di Rossignol alle labbra per baciarne le ciocche.
Negli occhi di Alain c'era lo stesso amore incondizionato di sempre; la stessa solidità alla quale il ragazzo s'era aggrappato per fuggire dal lunatico affetto di T., che era profondo come l'inferno e altrettanto bruciante. La solidità dalla quale ora sentiva di dover rifuggire, incapace di fingere come aveva fatto quando ancora quando il cadavere dell'uomo che realmente amava era ancora scosso da spasmi, appeso nelle sue stanze per il collo.
L'idea gli spinse un conato lungo la gola, ma era diventato piuttosto bravo a tenerli a bada.
“La leggerò.” disse e questo, almeno, poteva prometterlo. “Starete via molto?”
Alain si strinse nelle spalle.
“Non lo so con precisione, ancora, ma penso qualche mese al massimo.”
Indossava un vestito scuro, da viaggio, ma Rossignol dubitava che fosse un esplicito omaggio al principe T.
Erano stati amici, ma non così tanto da dover addirittura partire per farsene una ragione. Oltretutto, il vestito era d'un nero profondo, un velluto così pregiato da nascondere quasi perfettamente il passare degli anni... Quasi. Rossignol aveva il dubbio che Alain l'avesse già indossato in passato, per piangere qualcun altro di molto importante e parte della sua famiglia; qualcuno collegato alla sua nuova perdita, poiché ogni pezzo di stoffa racchiude un ricordo preciso e Rossignol ricordò distrattamente che D'Ovigny aveva una madre malata e svariate responsabilità.
“Posso baciarvi, Rossignol?”
Il ragazzo si irrigidì.
Aveva ucciso un uomo e ora si prendeva gioco di un altro.
Lentamente, scosse la testa.
“Meglio di no.” 

 

#

 

Solo il giorno dopo ebbe la forza di aprire  la lettera di Alain, e gli ci vollero molte interruzioni per finirla. Gli sembrava di udire la voce d'un morto, alle sue spalle, un filo di vento: non puoi leggere queste parole così presto, Rossignol. 
Perchè dai voce a loro quando io rimango chiuso in quello stupido cassetto?

Rossignol non s'era mai sentito così in colpa prima d'allora. Di fatto, tuttavia, gli risultava meno penso leggere le parole di Alain che quelle di T.
Per quelle, le ultime che si sarebbero scambiati e alle quali non aveva senso rispondere, non era certo che sarebbe mai stato pronto. La lettera era piegata frettolosamente, così come di fretta Alain era partito senza quasi prendere commiato dagli amici e dai sovrani, ma la calligrafia era quella di sempre, solida e precisa.
Rossignol poteva ricordarlo passeggiare nei giardini con il suo bastone dal manico a forma di serpente, laccato di nero, e lo rivedeva in quelle parole.
Le stesse che T. gli aveva lasciato, negandogli l'ultima consolazione di non sapere nulla. D'un amante non gli restava che carta manoscritta e la promessa che sarebbe tornato, un ricordo flebile ma che poteva pur sempre stringere al petto e reso gentile dalla certezza che non sarebbe stato per sempre, dell'altro niente più che una tomba e una corda. 

 

Rossignol, 

 Mi dispiace dover partire così in fretta.
Mia madre non si sente bene da anni ed è per questo che m'ero ripromesso di prendere un lungo commiato da lei e far tesoro dell'esperienza di vita che ogni uomo dovrebbe vantare per meglio adempiere al mio dovere una volta necessario.
Ho viaggiato per tutta l'Europa, accompagnandomi ad un gruppo di nobili di cui di certo conoscereste il nome, se ve lo rivelassi, ma non ho intenzione di fomentare inutili gelosie. Lasciatemi rassicurarvi che nulla accadde tra nessuno di noi, non nel modo in cui è accaduto tra me e voi.
Viaggiammo per la Germania, la Danimarca, l'Italia. Incontrammo persone sincere ed altre meno, intellettuali, maestri, scribi e letterati; diventammo uomini quando eravamo partiti dalla Francia come ragazzi. Decisi, dunque, di trasferirmi per un altro breve periodo a Corte per completare la mia formazione.
Mi sono trovato meglio di quanto potessi mai aspettarmi e avevo in animo di rimanere ancora a lungo: riallacciando vecchie amicizie e trovandone altre lungo il cammino, mi ero dimenticato di quanto fosse triste la vita nella Bretagna. Desidero che sappiate che ogni giorno tra queste mura è stato prezioso, ma che gli attimi nascosti alla vista, i giardini, le confessioni, sono oltre qualsiasi possibilità di definizione.
Forse vi amo. Di certo vi ho amato.
Credo con tutto il mio cuore che vi amerò in futuro e che ciò mi costringerà tornare a corte quanto prima.
Mia madre, come vi dicevo, ora sta molto male. L'inverno dalle nostre parti non risparmia neanche gli animi più forti e temo che sia venuto per lei il tempo di rimettersi a Dio e dire addio a questo nostro mondo. Coloro che ho lasciato a vegliare su di lei mi hanno scritto pregandomi di tornare prima che sia troppo tardi, ed è ciò che intendo fare.

Non è un addio, ma un arrivederci.
Tornerò non appena saranno sistemate le faccende della successione e quando avrò preso completo ed effettivo controllo dei miei possedimenti a nord, ora sotto la tutela di mia sorella e che per anni sono stati scientemente gestiti da mia madre.
Avrei desiderato che poteste incontrarla, Rossignol. Vi sarebbe piaciuta.
Siete entrambe creature forti ed orgogliose, ma con la stessa fragilità dei fiori appena sbocciati; spero di poter vedere la vostra trasformazione da bocciolo a fiore, presto, ed essere nuovamente a Versailles.
Sarò di ritorno al più presto, ma prima prenderò commiato come si conviene da tutti, voi compreso. Solo, con questa lettera, desideravo lasciarvi qualcosa di tangibile; non voglio che dimentichiate il nostro saluto, ma purtroppo il tempo getta acqua sui ricordi finchè essi non risultano sbiaditi come il riflesso del cielo su un lago smosso dal vento, dunque vi scriverò ciò che provo in modo che possiate rileggerlo.
Vi sono debitore della più grande delle scoperte e non potrò mai dirvi abbastanza quanto io vi ammiri, vi adori e sia pronto a tornare da voi presto, molto presto. Perchè siete diventato la mia aria, la mia acqua, la stessa luce che mi permette di vivere, io che sono la vostra ombra, il vostro più fedele servo.
Ci rivedremo presto, mon coeur.

Eternamente vostro,
Alain 

 

Rossignol strinse la carta fra le mani, ne fece una palla che gracchiava e scricchiolava sotto le sue dita. Com'erano insensibili quelle righe. Scagliò con forza la lettera nel camino -spento, ma non importava, non voleva vederla e l'avrebbe bruciata alla prima occasione.
Non era Alain il suo fedele servo, ma era ciò che Rossignol gli aveva fatto credere.
Ora si pentiva di aver sprecato così tanto tempo con quell'uomo.
Non l'avrebbe mai ammesso ad alcuno, ma dentro di sé non poteva negare che avrebbe dato qualsiasi cosa per invertire gli eventi. Che quelle parole fossero il frutto di ben altra mano e che il biglietto sgualcito, chiuso in un cassetto, fosse di D'Ovigny.




Note:

RAGA SIAMO ALLA FINE <3
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo e sì, ci saranno un po' di closures ma alla fine, il triangolo non esiste più ❤️
Volevo ringraziare davvero di cuore tutti coloro che hanno seguito/preferito/commentato questa brutta roba, vi voglio davvero tanto bene e scusate per tutto l'angst :<
E ci rivediamo con la vera fine!

 

   
 
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