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Autore: Diana LaFenice    06/09/2019    0 recensioni
Sean Lestrange è un giovane pittore di sedici anni.
Mentre la maggior parte dei suoi coetanei preferisce il sole e il mare della Florida, lui preferisce la fantasia e le immagini che trasporta nella realtà tramite i pennelli. La sua natura profonda e riflessiva lo porta a essere evitato.
Per questo quando il padre gli comunica che andranno a vivere ad Hay River, lui accoglie la notizia con un misto di speranza e timore.
Hay River è il paese natio della sua famiglia. Situato tra i Grandi Laghi, fin da subito sembra di entrare in una leggenda. Il motivo del trasferimento è legato al lavoro del padre: deve catturare Terrence Himelich.
Nonostante il divieto di entrare nei boschi, Sean riuscirà a cogliere la bellezza di questi luoghi incontaminati e riportare in auge la leggenda locale della Foresta.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Novembre

Occhi verdi, pelle candida, labbra rosse e capelli scuri decorati di foglie autunnali, semplicemente meravigliosa. Era sempre così che compariva nei suoi sogni. Era la nuova ossessione di Sean eppure non riusciva a rammentarsi con precisione i suoi tratti. Se si soffermava sui ricordi del ballo, gli tornavano alla mente sfumati come un sogno sbiadito. Una sensazione che nemmeno lui sapeva descrivere, ma che, se avesse potuto, avrebbe dipinto.

Era così bella che fosse quasi certo che lei non esistesse. Non esisteva nessuna così bella e misteriosa.

Profumava di foresta, le ricordava la boscaglia. Forse doveva vivere in una casa nella selva circostante, che sapeva che c’erano alcune case più esterne al paese. Si convinse che era così e si ripromise di andare a controllare. Anche solo per chiederle un ritratto. Le sarebbe bastato solo questo. Si sentì invadere dalla curiosità, perché adesso che ci pensava non aveva mai visto i boschi d’autunno. Chissà, avrebbe potuto trovare l’ispirazione che gli mancava. E forse, con un po’di fortuna, avrebbe potuto rivederla. 

Stava pensando a questo quando venne a sapere che era stato trovato il cadavere di uno studente qualche giorno fa nei pressi del parcheggio dell’autobus della scuola. Il corpo era stato trasportato via durante il ponte e solo Smoke, il figlio del custode, che portava fieramente il nome di Smoke on the water dei Deep Purple, ebbe il dispiacere e l’onore di identificarlo. Era Carine Money-Penny, la cugina di Eve Llewellyn, una diplomata dell’anno prima. In città ne parlavano tutti. E Sean si accorse per la prima volta che quella cittadina non era così tranquilla come sembrava. Il suo terrore pareva essere lo stesso che offuscava l’allegro vociare e lo sguardo di tutti gli studenti e dei professori. Conoscevano tutti quella ragazza, e anche se Sean era nuovo, si sentì profondamente turbato, dopotutto sarebbe potuto succedere a lui, che si sentiva quasi preso di striscio. Benché non riportasse ferite di alcun genere.

Quella fu la seconda volta che Jackie stette zitta e quieta tutto il tempo e solo i suoi occhi tradirono la sua inquietudine.

Il preside istituì un minuto di raccoglimento e la professoressa di ginnastica recitò due preghiere per la povera Carine e invitò gli studenti a recarsi al funerale. Cosa che sorprese Sean: nella sua vecchia scuola non si usava. Poi le lezioni iniziarono ufficialmente. Mattias gli sussurrò sotto voce chi fosse quella poveretta e poi, una volta nella classe di geografia ascoltarono la spiegazione del professor Clippert sul programma che avrebbero seguito e il motivo del ritardo del corso; gravi problemi di salute. Il giovane artista capì subito che i suoi problemi erano di altro tipo, a giudicare dalle fasciature che facevano capolino dalle maniche della camicia, ma per rispetto, decise di mantenere quel segreto.

Il professore quell’anno aveva deciso di integrare il suo corso con quello del professor Willard; l’insegnante di diritto ed economia. Il progetto aveva incontrato il favore del preside, che aveva dato il proprio benestare. Così avevano cominciato a studiare geografia umana. E questo aveva sorpreso non poco i loro allievi. Doveva essere una di quelle volte in cui i professori si ricordavano che non era questo il motivo per cui insegnavano, che non dovevano soltanto inculcare nozioni nelle loro teste. E che quei dannati voti non servivano per misurare il quoziente intellettivo dei ragazzi. O almeno, questa fu la voce che Sean & company raccolsero. Per Mattias avevano semplicemente dato di matto: «Evidentemente non sopportano più di dirsela e cantarsela da soli, ora hanno bisogno di un pubblico.» Sogghignò subito dopo. Sean curvò le labbra in un sorrisetto.

«Pensavo l’avessero già fatto da tempo.» Fece Jackie alzando le sopracciglia mentre si dirigevano agli armadietti.

«Non è la prima volta?» Domandò Sean, guardandoli, che aveva ancora il mal di testa.

«No, ogni anno quei due ne fanno una nuova». 

«Stavolta sembrano seri però.» Commentò poi Mattias, pensieroso.

«Ma va, avrai sicuramente preso un granchio.» Ribatté Jackie. Il moro sogghignò sotto i baffi.

Bastò la prima lezione per far capire agli studenti che non sarebbe stato un corso facile. Non solo per i contenuti e che, alla fine di ogni mese, i prof avrebbero istituito una sorta di dibattito ufficiale post test che avrebbe fatto media. Ciò fece impallidire il povero artista. Lui era una persona molto sensibile e timida, mettere insieme tante frasi per costruire un dialogo, non era esattamente il suo forte. Specialmente se si trattava di un argomento di cui sapeva così poco come l’ecologia. Se i prof si fossero accontentati del solito saggio sulla pena di morte, ci sarebbe riuscito senza problemi, ma quella era tutta un’altra storia. Il lato positivo era che avrebbero potuto usare Internet per le loro ricerche.

Come se non bastasse, i prof decisero di fare subito un dialogo di prova, e Willard scrisse sulla lavagna la parola ambiente a caratteri cubitali e disse loro di fare un brain storming. E subito i ragazzi cominciarono a tirare fuori le loro idee in merito. Il cervello di Sean si svuotò di colpo e li guardò tutti con lo sguardo del primitivo che ha appena scoperto una vena di splendidi diamanti e non ha la più pallida idea di cosa sia. Persino Mattias ebbe qualcosa di serio da dire sull’argomento. Ma nessuno si accorse che il cervello di Sean convertiva i loro discorsi in immagini. Quasi fosse una cinepresa interna alla sua testa che fece uno sgangherato filmato di quella prima lezione. Oh, se avessero potuto vedere ciò che stava accadendo nella sua testa in quel momento.

Quell’ora fu una tortura.

A fine lezione, quando lui sfilò dinanzi alla cattedra con tutti gli altri, i professori lo fermarono e lui li guardò con gli occhi completamente sgranati, come a giustificare una colpa. Il professor Clippert esordì dicendo: «Mi hanno detto che sei un ragazzo piuttosto intelligente, mi sbaglio?»

«Sì, credo.» fece il ragazzo, arrossendo. Era la prima volta che un professore gli faceva una domanda del genere. Di solito si limitavano a leggere i documenti di trasferimento e i loro fascicoli, per cui gli suonava strano sentirsi dire quelle parole. «Credi?» Domandò Clippert mentre l’altro prof inarcava un sopracciglio. Sean s’impappinò. Il professore gli disse di stare tranquillo, che lui non era uno dei suoi compagni. E gli spiegò che aveva sperato di poter sentire anche la sua opinione. Dopotutto, Sean aveva così tante domande sulla geografia e l’arte che era impossibile che non ne avesse anche per questa materia condivisa.

«E’che non ne so molto…» Si giustificò il ragazzo abbassando lo sguardo e Willard disse: «Bè, hai tutto un anno scolastico per riuscire a dire qualcosa, ti sembra?»

«Ma non so dove…»

«Buon Dio, ragazzo, sei giovane, con tutta questa tecnologia a disposizione se non lo sai tu».

Poi lo congedarono.

Quel pomeriggio dopo scuola si fermò alla libreria del paese. Gli erano sempre piaciute le librerie. Non solo a volte il profumo della carta e del legno di parquet gli ricordava quello delle tele, ma c’era altrettanta pace e silenzio come in una galleria d’arte. E al tempo stesso quell’allegro vociare di sottofondo che ti distraeva dal religioso silenzio contemplativo del luogo. Silenzio che nei musei era rotto dalla voce della guida vera e propria che illustrava le opere d’arte come se le avesse dipinte lei stessa. Come se, più che l’opera, presentasse dei vecchi amici. A quel pensiero alzò le sopracciglia e la sua bocca si curvò in un sorrisetto divertito: oddio, la maggior parte delle opere d’arte che conosceva e amava avevano un contenuto erotico. Ma solo perché sapeva che nelle epoche in cui erano stati dipinti, era l’unico modo per renderlo accettabile. «Una specie», aveva ironizzato, «di giornalino pornografico dell’epoca.» Per questo esistevano così tanti nudi nella storia dell’arte moderna.  

Una volta aveva pensato di fare la guida turistica nei musei e, se fossero rimasti a Miami, avrebbe fatto domanda di sicuro. Per un secondo pensò che magari avrebbe potuto fare la stessa cosa anche a Hay River. Ma Hay River non era Miami, non c’erano gallerie d’arte nel raggio di tre contee e il massimo grado d’arte cui si poteva aspirare erano i disegni nell’aula d’artistica delle scuole. Il ragazzo scosse il capo e tornò a concentrasi sulla libreria.

Sentiva di poterci quasi sparire e che nessuno se ne sarebbe mai accorto. Era passato davanti alla libreria di Hay River molte volte in quei mesi, ma non era mai entrato. La commessa alzò gli occhi dal libro nell’esatto momento in cui il ragazzo aprì la porta. «Buonasera.» Salutò cordiale da dietro le cornicette delle fotografie rivolte verso di lei. Lui ricambiò. E lei, un’allegra sessantenne in carne con i capelli tinti di castano scuro, si presentò: «Mi chiamo Roberta Prescott; spero di poter esserti utile.» Si strinsero la mano. Quando fu il turno del ragazzo a presentarsi, un lampo di riconoscimento passò nei piccoli occhi di quel viso che cominciava a mostrare i marcati segni del tempo, sotto il lieve strato di trucco: «Ah, i Lestrange, ho sentito parlare di voi e del vostro ritorno». Poi ritirò la mano e Sean la imitò inarcando le sopracciglia: «Pensavo che non lo sapessero proprio tutti.» Disse.

«Benvenuto a Hay River, ragazzo mio.» Fece a mo di risposta ma lui non l’ascoltò più. Era tutto intento a osservare il dipinto. Realizzato con colori molto luminosi, e vividi, raffigurava una ragazza dai capelli mossi e rossi come lamponi, lunghi dietro le spalle, terminanti in boccoli. Era abbigliata con un vestito del medesimo colore, decorato con delle foglie d’acero di varie sfumature vermiglie, dalla più carica alla porpora. Sulla varietà restò incerto tutto il tempo. La sua pelle bianca come il gesso assumeva delle lievi sfumature verdi nelle zone d’ombra, intensificandosi su labbra, guance, la zona sotto le sopracciglia e le palpebre. E anche i riflessi della sua chioma erano di quella sfumatura. Era seduta sul davanzale di una finestra e teneva in braccio una bambina di sei anni dai capelli legati in due trecce nere col fiocchetto. La piccola sembrava una bambola vestita di rosa dall’ampia gonna con le trine. I suoi occhi erano grandi e scuri e guardavano dritto verso l’osservatore mentre la ragazza che abbracciava la guardava sorridendole, quasi come una sorella maggiore. Alle loro spalle, oltre il vetro, si vedeva la foresta illuminata dai raggi dorati del sole. Si poteva quasi sentire lo stormire delle foglie nel vento e si aspettò che da un momento all’altro la ragazza dipinta alzasse il capo per guardarlo. Tanto era ben fatto. Roberta parve notarlo e disse, dopo essersi girata per un istante verso il quadro: «Oh, sì, davvero molto bello, non trovi?»

«Davvero... Le foglie, il vento, sembra quasi vivo. Il lavoro degno di un’impressionista.» Convenne Sean. Che poi era quello che voleva fare anche lui: dare suoni al paesaggio. Forse col tempo ci sarebbe riuscito. ‹‹Chi è l’artista?›› Domandò poi.

«Mia madre; lei era una vera artista dei pennelli.» Gli raccontò la signora con una punta d’orgoglio nella voce. Poi, dopo averci pensato su, tese un dito e indicò le due figure: «Queste siamo io e Vega.» Se lo studente fosse stato un ragazzo normale avrebbe ironizzato sul nome della seconda figura ritratta. Ma Sean non era come tutti gli altri, per cui non disse e non pensò niente. Si limitò a esaminare con gli occhi il dipinto. Nelle librerie che finora aveva visitato nella sua vita, non aveva mai visto niente del genere. Nemmeno le biblioteche erano così.

«Ti piace?» Domandò la signora sorridente. E, prima che ribattesse, aggiunse: «Perché non gli scatti una foto? Non guardarmi così, puoi farlo, non siamo mica in un museo. Non si rovina per una foto».

Il giovane restò un attimo interdetto e arrossì nell’ammettere: «E’che io non ho il cellulare, oggi». Infine riuscì a staccare gli occhi da quel quadro e disse che dava un’occhiata in giro. E s’inoltrò tra gli scaffali. Doveva leggere per scuola La lettera scarlatta di Hawtorne, e la trovò prima che il suo sguardo fosse attirato da un libro su una scansia adiacente. Era un libro di leggende da tutto il mondo. In realtà lui era andato avanti quasi senza leggere quei libri, perché riusciva sempre a trovarne i riassunti su Internet o a chiederli a prestito a chi l’aveva letto. Si era saltato persino quelli per le vacanze e nessuno se ne era mai accorto. Era la prima volta che si accingeva a comprare un libro per la scuola e uno per sé stesso. Controllò i soldi e scoprì che non bastavano. Quindi ripose il libro sulle leggende e si prese quello per scuola. «Oh, La lettera scarlatta, ottima scelta.» Fece Roberta quando lui pagò. Come se non avesse immaginato che fosse per la scuola.  

Il ragazzo la ringraziò, poi infilò la busta nello zaino, salutò e uscì.  

***

 

Dean Lestrange stava lavando i piatti quella mattina pensando alla conversazione da poco avuta con i figli. Li aveva accompagnati a scuola e, durante il tragitto, si era ricordato che erano andati alla festa. Perciò gli aveva chiesto se si fossero divertiti.

Erol inventò molti dettagli di sana pianta e Sean si limitò a infoltire quella versione, un po’di malavoglia. L’uomo si domandò che nuovo tipo di ricatto si fosse inventato il figlio per piegarlo, stavolta. Anche se smascherò la sua bugia senza darglielo a vedere, non comprese perché si ostinasse a mentirgli così. Cioè, in fondo era maggiorenne, e non era obbligatorio partecipare ai balli scolastici. Ma poi si disse che forse era solo una fase che sarebbe terminata con la fine delle tempeste ormonali. In ogni caso ringraziò il Cielo che il figlio maggiore badasse a quello sbadato del minore. Osservò Sean. Nonostante tutto era contento per lui. Da piccolo era sempre stato così introverso che l’avevano addirittura portato dall’analista, temendo che fosse autistico.  Ma la dottoressa li aveva rassicurati dicendo che era solo molto fantasioso e che la sua timidezza lo rendeva quasi vile, ma che col tempo, si sarebbe aperto. Aveva avuto ragione, per fortuna. E per sfortuna del piccolo, che era stato costretto a sorbirsi le partite di baseball della squadretta scolastica cui i genitori l’avevano iscritto nel tentativo di sbloccarlo.

E poi del lacrosse alle medie che aveva abbandonato a metà quadrimestre con gran dispiacere dei genitori. Loro credevano che fosse talentuoso, poiché quando si trattava di correre era piuttosto veloce. Ma non si erano mai accorti che quell’andatura somigliava più a una fuga che una corsa vera e propria. 

Ricordava ancora che all’inizio dell’adolescenza, notando che il figlio minore era tutto l’opposto del maggiore, come avevano pensato fosse gay. Non lo sentivano nemmeno masturbarsi quando si chiudeva in camera sua. Sempre lì a dipingere e dipingere. Ma sapere che adesso aveva un’amica con la quale usciva regolarmente li aveva fatti ricredere. Eppure era preoccupato, come se presentisse che di lì a poco sarebbe successa una disgrazia.

Sarah lo raggiunse in cucina: «Stai bene?» Gli chiese, cingendogli le spalle. Lui incrociò il suo sguardo e le sorrise: «Sì, amore». 

La moglie stava già molto meglio da quando erano tornati lì. L’aria fredda la rinvigoriva. Anche se era ancora un po’ debole, era felice, e si vedeva. «Sei sicuro?»
«Sì».

«Non me la racconti giusta; ormai lo capisco quando menti».

Lui si pose le mani sui fianchi, sospirò e distolse lo sguardo. Non voleva raccontarle niente: avrebbe potuto mandare all’aria le sue condizioni. Ma Sarah lo prese per le spalle e lo guidò verso la sedia e gli si sedette sulle ginocchia, cingendogli il collo con le braccia. «Avanti, racconta. Cosa c’è che non va?» Dean la guardò stupefatto: aveva dimenticato che sua moglie era più forte di quando non desse a vedere, e lo ricordò quando incrociò il suo sguardo serio, forte e deciso. E lei, per convincerlo ulteriormente gli disse: «Avanti, su. Non preoccuparti. Se fai così, starai solo male. Ed io sono tua moglie e voglio aiutarti in qualche modo».

Fu così che lui gli raccontò tutto. Lei lo ascoltò orripilata: aveva accettato il trasferimento solo per stare dietro a quel caso? Ma si rendeva conto dell’enorme pericolo in cui aveva cacciato la loro famiglia? La casa era vicina al bosco! E se Terrence Himelich si fosse avvicinato? E se avesse ammazzato i loro figli? Avrebbero dovuto tornarsene subito a Miami. Ma Dean si affrettò a rassicurarla dicendo che stavano già pattugliando la foresta alla ricerca del malvivente e che non avrebbe mai permesso ai ragazzi di andare per i boschi. Era troppo pericoloso. E poi i due ragazzi si erano ambientati, avevano stretto amicizia e Sean sembrava felice per la prima volta da tutta una vita. Non sarebbe stato giusto. Le promise che si sarebbe occupato di tutto e che avrebbe fatto in modo che i suoi figli sarebbero stati al sicuro. Ci vollero quattro ore per tranquillizzarla. E alla fine lei acconsentì a una condizione: «Se vuoi che io resti devi dirglielo».

 

***

Erol non si lamentava più della squallida cittadina in cui si erano trasferiti. Alla fin fine non era poi così squallida. Anche lì c’erano belle pupe, teppisti, turisti tiratardi, in un certo senso era come se non si fossero mai trasferiti. Bè, escluso il freddo e il ristretto ambiente circostante. Però non era vero che finite le stagioni turistiche quei posti chiudevano. Le persone lì ci vivevano comunque ed era interessante.

Inoltre la bella barteder dai capelli rossi aveva rimorchiato, della quale scordava puntualmente il nome, si era rivelata una dea del sesso. Erano solo i suoi nuovi amici a preoccuparlo: a volte, nel tentativo di emulare i “ragazzi di città” come lui, si facevano. E pure piuttosto frequentemente. Erol li guardava con occhi obliqui quando li vedeva farsi o fumare marijuana o canne. Lui non aveva questo eccessivo bisogno per sembrare figo. Quando succedeva, ai suoi occhi sembravano degli sfigati in piena regola, e Dio solo sapeva quanto gli facevano pena.

Intanto però, senza che se ne accorgessero, le dinamiche del gruppo erano cambiate. Adesso era lui il nuovo leader del gruppo. Keith - che aveva cominciato a farsi crescere la barba - sembrava addirittura felice di servirlo. Ovviamente se la spassavano, ma Erol non era stupido. Sapeva che niente gli avrebbe impedito di andare a giro per le strade come i Drughi di Arancia meccanica. Ma la verità era che finché sarebbe stato sotto l’egida di suo padre, non avrebbe mai avuto il coraggio di spingersi oltre le stupide marachelle adolescenziali che combinava. E non era poi così difficile trattenere i suoi compari. Eh, sì. Era proprio un leader nato. Niente lo terrorizzava. Eppure, quando quella sera a cena il padre annunciò che lui e la madre avevano una notizia da dargli, Erol si spaventò lo stesso. Oddio, che era successo? Non era colpa sua, vero? Ma il padre li avvertì soltanto che il bosco era pericoloso e che celava un assassino seriale. Sean alzò la testa di scatto, preoccupato, ma non disse niente. Ed Erol - un filino sollevato - ascoltò tutto: «Dovete stare attenti. Non avvicinatevi al bosco, potrebbe uccidervi.» Si raccomandò Dean. E i due promisero. Ma non lo fecero per lui, bensì per la loro povera fragile madre che stava dall’altra parte del tavolo. Anche se, Erol si accorse, Sean lo fece a malincuore.

 

***

 

Il tempo si stava raffreddando e Terrence lo sentiva. L’aveva visto così tante volte che adesso lo percepiva come se fosse stato lei. Si sedette su un masso a gambe incrociate e cominciò a liberare la mente con gli esercizi di respirazione. Poi si concentrò su ciò che i suoi sensi gli suggerivano.

L’udito gli portò i rumori e il tatto gli regalò il dolce bacio del freddo sulla pelle scoperta. L’olfatto invece si riempì degli odori portati dal vento. E la mente cominciò a viaggiare. La fauna andava diminuendo sempre di più. Pareva quasi un’estinzione, anche se gli animali sarebbero tornati al ritorno della primavera. Gli alberi andavano spogliandosi delle loro ultime foglie come pavoni che si spogliano dolcemente della loro bellissima coda. Solo che avrebbero finito per sembrare tante mani difformi dalle dita tese al cielo come elemosinieri. Mani che di notte assumevano i contorni di dita ghermitrici.

La brina cominciava ad attecchire e persino gli ultimi uccelli migratori avevano abbandonato quei luoghi in favore di paesi più caldi. Ormai le notti stavano diventando sempre più silenziose e cupe. E sicuramente lei aveva tanto sonno. Un sonno tremendo che avvolgeva completamente le sue membra e che sembrava trascinarla nelle tenebre dell’incoscienza più totale.  

Quasi se la vide davanti e sbadigliò per la centesima volta quasi per riflesso alla sua proiezione, mentre estraeva la freccia dall’occhio dello scoiattolo e lo cucinava.  Grazie alla sua capacità d’immedesimazione era capace di immaginarsi i dettagli più insignificanti di lei. Per esempio sapeva che lei avrebbe mangiato per l’ultima volta la carne che aveva cotto sul fuoco accompagnandola agli ultimi frutti di stagione cosciente che le forze la stavano gradatamente abbandonando. Come sapeva che lei aveva sempre odiato quel periodo dell’anno in cui i riflessi rallentavano e l’era sempre più difficile uscire dal sonno profondo nel quale sprofondava. Inoltre era sicuro che il suo battito stesse rallentando. Non stava morendo, era più come se fosse stata sveglia per troppo tempo e il corpo stesse cominciando a reclamare il suo meritato riposo.

Ma ancora di più odiava sentire il dolce sussurro del vento nella foresta che la esortava a coricarsi senza timore, come se dicesse che per quei mesi freddi se la sarebbe cavata anche senza di lei. Quando lei sapeva che non era così.

Sapeva che si rammaricava a lasciare quel cielo e quegli alberi che conosceva così bene per andare a dormire. Come conosceva il suo desiderio di vedere l’inverno, ma il suo corpo gliel’aveva sempre impedito.

Riposò per qualche minuto, lasciando che le braci si spegnessero completamente nella buca che aveva scavato per cuocere la carne.   

Poi si portò la mano alla bocca e notò che le sue unghie avevano cominciato a mutare colore. Come tutti gli anni si studiò e notò che anche le ultime foglie stavano staccandosi dal suo corpo. Non che non sapesse come fosse fatta: c’erano tanti specchi d’acqua in cui specchiarsi in quella foresta.

In un certo senso si sentiva più leggera. Poi si toccò le spalle e la testa, ma solo dopo si ricordò che aveva usato i suoi stessi rami morti e il suo arco per cuocere la carne e pensò: Ah, giusto. Questo era tutto ciò che vedeva e conosceva della fredda stagione. Ricordava ancora lo spavento della prima volta che si era sentita così. Erano passati tanti anni, ma a ripensare al terrore di suo padre e le rassicurazioni di sua madre trovava la situazione talmente comica che ogni volta scoppiava a ridere. Ma adesso non aveva più paura e, da Halloween, i suoi sentimenti erano pervasi da un serpeggiante senso di speranza che non sapeva spiegare neanche a sé stessa. Se avesse avuto un po’più d’energia avrebbe indagato, ma poiché era stanchissima non le importava.

Invece a lui sì e finora non aveva cavato un ragno dal buco, sapeva solo che doveva cancellare le sue tracce, onde evitare che i ranger o gli agenti le usassero per cercarlo. Per quanto riguardava l’odore, la cosa sarebbe stata un po’ più complicata.

In ogni caso si mise all’opera e dopo qualche ora si allontanò dal posto, completamente invisibile ai suoi cacciatori. E mentre camminava una parte del suo cervello riprese il suo lavoro di immedesimazione. Dove era rimasto? Ah, sì.

Era ora di dormire. Perciò si alzò e si avviò tranquillamente verso la grotta nel folto del bosco mentre una dolce brezza invernale le scompigliava i capelli sulla nuca. Una volta arrivata a destinazione, si guardò attorno per un’ultima volta. Scandagliò il luogo circostante con i suoi sensi alla ricerca di eventuali pericoli. Non essendocene, rinfrancata, entrò nella bocca buia mentre cadeva la prima vera neve della stagione. La stessa grotta dove ora si trovava lui. Che entrò usando una torcia per farsi luce. Anche se sapeva che non sarebbe bastata per mostrargliela, ammesso e non concesso che lei fosse già lì. Non sapeva proprio come faceva, ma ogni dannatissimo inverno lei riusciva a rifugiarsi lì ed essere contemporaneamente tanto vicina quanto lontana per lui. Chissà perché tornava sempre lì. Forse pensava che nessuno, neanche e soprattutto lui avesse scoperto quel posto. E non sempre lui riusciva a soggiornare in quella caverna. Poco importava, per lui sarebbe andato benissimo per la notte. 

   
 
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