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Autore: Rei Murai    06/09/2019    1 recensioni
Una volta sul pianerottolo si era fermato a riprendere fiato e aveva girato il volto verso l’appartamento numero 8.
La porta di casa era aperta ma non vedeva il corridoio o la porta che dava sul salotto con angolo cottura e il vecchio televisore a tubo catodico su cui guardava i cartoni animati.
La porta era luce e la luce era bianco.
Si era fatto forza, si era incamminato e ci si era immerso.
“Storia partecipante alla Ogham Challenge indetta dal gruppo Facebook Naruto Fanfiction Italia”
Genere: Angst, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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 “Storia partecipante alla Ogham Challenge indetta dal gruppo Naruto Fanfiction Italia

 


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IODHO - Tasso
Descrizione generale
Il tasso è l'albero dell'immortalità, così considerato a causa della sua estrema longevità e del legno molto resistente. Viene per questo molto spesso associato ai luoghi di sepoltura.
Iodho è però anche simbolo del passaggio dell'anima da una vita all'altra, o del passaggio di abilità innate da una generazione all'altra
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Tamashī

 
 
1
 
Si era svegliato in un ambiente estraneo.
Era steso su un letto di ospedale, le lenzuola bianche gli coprivano il corpo fino al petto e sopra di lui il soffitto era illuminato da una luce asettica e artificiale.
Gli doleva la testa.
Non ricordava come era finito lì (perché la flebo era collegata al suo braccio e gli dolevano le gambe a quel modo?) né perché ci fosse.
Si era tirato a sedere, un cerchio alla testa lo aveva costretto a rallentare i suoi movimenti e, subito dopo, si era dovuto sdraiare di nuovo attendendo che il malessere e la nausea generale che lo avevano colto passassero subito.
Non sembrava esserci nessuno a parte lui.
La stanza in cui si trovava aveva altri due letti, perfettamente rifatti. Lunghe tende bianche coprivano la finestra; dietro di esse, però, non sembrava passare alcuna luce.
Aveva cercato a tentoni il pulsante per chiamare gli infermieri, qualcosa che lo mettesse in contatto con il personale, invano.
Alla fine, dopo una lunga attesa, era riuscito ad alzarsi, finalmente, e mettere i piedi nudi sul pavimento.
Non aveva avvertito il tipico freddo che scuoteva le membra quando si entrava a contatto con la superficie. Solo in un secondo momento si era reso conto che non avvertiva nulla.
Si era toccato il braccio, con dita tremanti: aveva sfiorato la consistenza della propria carne, ne aveva saggiato la morbidezza… e si era riscoperto insensibile. Non avvertiva il proprio tocco così come non aveva avvertito il freddo.
Sobbalzando aveva rialzato i piedi dal pavimento, affondandoli tra le lenzuola candide: anche in quel momento non aveva sentito le lenzuola o la morbidezza del materasso.
Nulla.
Il suo corpo era insensibile a qualsiasi sensazione, a qualunque tocco.
Nel silenzio irreale di quella stanza era scoppiato a piangere ma, anche a quel modo, nessuno si era diretto da lui.
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2
 
Non sapeva quanto tempo era passato.
In quella stanza bianca, vuota, non c’era nemmeno un orologio a segnare lo scorrere delle ore.
Dopo aver pianto ininterrottamente per un po’ era crollato a dormire, ma nemmeno il sonno gli aveva dato un po’ di sollievo. Era stato un riposo senza alcun sogno. Quando si era svegliato si era sentito più stanco di quando si era addormentato.
Era rimasto immobile tra le lenzuola scomposte, il cuscino gettato a terra e la schiena poggiata contro le barre in ferro del letto.
Era nudo.
Quando si era svegliato nuovamente si era accorto di non avere alcun indumento addosso: dal busto in giù il suo corpo era privo di alcun carattere genitale, niente che potesse definirne il sesso.
La paura lo aveva costretto a scendere finalmente dal letto, almeno per cercare qualcosa da indossare; non c’era un armadio prima, solo letti e tendaggi e la luce al neon che era accecante e fastidiosa. Ora c’era un armadio. Dentro di esso un camice e un paio di pantaloni bianchi.
Iniziava a odiare il bianco ma indossò comunque gli indumenti e coprì le nudità e l’assenza di ciò che pensava fosse importante e essenziale.
Aveva girato la stanza ma non aveva trovato nessuna porta: poi si era appoggiato al muro, si era passato una mano tra i capelli ed era stato catapultato indietro: qualcosa lo aveva trascinato oltre il muro.
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3
 
Alti palazzi costeggiavano la strada alzandosi verso il cielo.
Aveva urlato in quella infinita caduta. Aveva chiuso gli occhi e spalancato la bocca e, quando era tornato a guardare, si era trovato steso sul marciapiede della via principale della città in cui era cresciuto.
Palazzi, palazzi e ancora palazzi.
Il cielo era terso ma non aveva lo stesso colore di quando era illuminato dal sole o quando le nuvole attraversavano la volta celeste.
Il cielo era pura luce e bianco e sembrava irreale.
Si era tirato in piedi e aveva osservato il marciapiede, il silenzio ancora lo avvolgeva in maniera soffocante.
Aveva mosso un passo, i palazzi si erano catapultati e si era trovato in un cortile: alle sue spalle il palazzo in cui aveva passato i primi 10 anni della sua vita.
C’era il cavallo a dondolo, lo scivolo e l’altalena. Ai suoi piedi era arrivato un pallone.
Improvvisamente aveva sentito l’impulso di correre: aveva attraversato il portone e l’atrio, aveva ignorato l’ascensore e si era fiondato sulle scale salendo a piedi quattro piani.
Una volta sul pianerottolo si era fermato a riprendere fiato e aveva girato il volto verso l’appartamento numero 8.
La porta di casa era aperta ma non vedeva il corridoio o la porta che dava sul salotto con angolo cottura e il vecchio televisore a tubo catodico su cui guardava i cartoni animati.
La porta era luce e la luce era bianco.
Si era fatto forza, si era incamminato e ci si era immerso.
L’appartamento era come lo ricordava: il lungo corridoio che dava sulla sala, una porta alla sua destra che celava il bagno e una libreria alla sua sinistra carica di libri e riviste.
Allungò una mano carezzando i libri e si affacciò alla sala; l’ombra di una donna si muoveva davanti ai fornelli, quella di un uomo sedeva sul divano leggendo il giornale.
Si spostò di lato quando quella di un bambino apparve dalla camera da letto: corse dalla donna e si aggrappò alla sua gonna, tirandola.
«Mamma! Mamma!».
Ma non riceveva alcuna risposta.
Mamma; pensò e allungò una mano verso l’ombra.
La luce lo invase di nuovo e tutto scomparve attorno a lui.
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4
 
Quando aveva iniziato le superiori lui e i suoi genitori si erano trasferiti in un altro quartiere: il ricordo lo aveva folgorato non appena aveva ripreso coscienza di sé.
Il bianco si era trasformato in una camera da letto e c’erano poster e foto appesi per tutte le zone libere delle pareti; cd sulle mensole affiancati a trofei sportivi.
Il suo letto occupava metà della stanza; al suo fianco c’era la scrivania e i libri su cui studiava e i quaderni su cui prendeva appunti. Il pianoforte digitale si trovava davanti ad essa, aperto come l’aveva lasciato.
Ci si avvicinò sfiorandone i tasti: premette il primo, delicatamente, non riuscendo a fare la giusta pressione per farlo suonare. Ci provò ancora e ancora; il rumore dei passi attirò la sua attenzione e osservò l’ennesima ombra entrare nella stanza poggiando dei vestiti sul letto.
La postura era un po’ incurvata, le spalle basse e il capo chino. Anche essa si avvicinò al pianoforte, si sedette sullo sgabello e poggiò entrambe le mani sui tasti.
La melodia si diffuse nell’aria come una nenia triste e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Si arrampicò sul letto, ci si raggomitolò sopra e chiuse gli occhi lasciandosi scivolare nel sonno;
c’era solo il suono distorto del piano e la stanza sospesa nel tempo. L’ombra non smetteva di suonare: ogni volta che il brano arrivava alla sua conclusione ricominciava da capo come un disco rotto.
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5
 
Fu il brusio a riportarlo allo stato di veglia.
Prima il rumore era leggero, distante: sembravano voci umane, rumore di passi e di risate.
Qualcosa urtò l’oggetto su cui era appoggiato e il contraccolpo lo fece scattare seduto come un giocattolo a molla. Quando mise a fuoco la situazione attorno a lui, era già troppo tardi.
Si trovava in un’aula scolastica; dormiva con le braccia incrociate sul banco. Per una frazione di secondo gli parve che i colori fossero tornati, che attorno a lui fosse pieno di ragazzi urlanti.
La luce attraversò la stanza come il flash di una macchina fotografica e quello che rimase fu solo un pugno di banchi e sedie perfettamente allineati e una grossa lavagna appesa alla parete.
Niente più voci.
Batté entrambi i pugni contro la superficie solida e il rumore invase lo spazio vuoto.
Ancora una volta non riusciva a sentire ciò che toccava e la situazione stava diventando davvero frustrante.
Prese un paio di respiri e osservò il paesaggio fuori dalla finestra ma ciò che i suoi occhi incontrarono fu solo l’immensa distesa di bianco.
«Bianco, bianco, bianco!».
«Allora eri qui».
Voltò la testa di colpo e si guardò attorno cercando la fonte di quella voce.
Le finestre a scorrimento si aprirono tutte assieme e una folata di vento si fece strada nell’aula vuota facendo tremare i banchi e la lavagna: sulla soglia della porta c’era una figura. Una persona dall’aspetto androgino; occhi dal taglio sottile e labbra arricciate in un’espressione infastidita.
Tac.
Ebbe un brivido lungo la schiena e sentì una sensazione di disagio stringergli lo stomaco.
Tic.
Tac.
Lentamente la luce si ritrasse lasciando spazio alle ombre che si allungavano sul pavimento bianco.
Bianco come i suoi capelli; bianco come i suoi occhi sottili; bianco come i vestiti che portava indosso.
«Ti cercavo».
Si portò una mano alla bocca e fece un passo indietro, le gambe che tremavano.
Tic.
«Chi…sei?».
La sua espressione mutò in un sorriso beffardo e mosse qualche passo verso di lui.
Ad ogni movimento della figura la luce sembrava ritrarsi e l’ombra avanzare. Il bianco veniva divorato dal nero.
«Dobbiamo andare» rispose soltanto.
Tic.
Tac.
Dietro la figura che stagliava la sua ombra lungo le mattonelle immacolate, la porta dava su uno spazio nero, denso. L’oscurità sembrava cercare di entrare nella stanza.
«Andare? Andare dove?» provò a chiedere di nuovo, ignorando il rumore e il nero e il bianco.
Il suo interlocutore arrestò il suo lento avanzare e infilò una mano nella tasca dei pantaloni estraendone un orologio.
Ebbe come la sensazione che tutto attorno a loro divenisse statico prima di iniziare a dissolversi.
A sgretolarsi come se non avesse consistenza.
«Devi lasciare i luoghi che hai percorso nella tua vita mortale. Il tuo viaggio deve continuare».
«Chi sei tu?!» balzò oltre il banco prima che questo svanisse e perse stabilità correndo nel vuoto.
L’altro non si muoveva: sorrideva e lo osservava tenendo in mano l’orologio.
«Dobbiamo andare, Naruto».
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6
 
«Coglione, non correre!».
Era una calda giornata primaverile; l’anno scolastico si avvicinava inesorabilmente alla sua conclusione e l’aria profumava di sole, di fiori e di mare.
La prima domenica di maggio tutta la classe aveva organizzato una gita fuori porta verso la costa. Ci aveva messo tanto a farsi dare il permesso dalla madre: aveva racimolato gli spicci per il treno dai nonni; si era preparato da solo il pranzo e si era fatto accompagnare alla stazione dal padre.
«Fai attenzione – gli aveva detto mentre toglieva lo zaino dal bagagliaio della macchina – non allontanarti dal resto del gruppo, guarda sempre quando attraversi e mandami un messaggio sia quando arrivi che quando stai per prendere il treno di ritorno».
Lo aveva lasciato fargli tutte quelle raccomandazioni, aveva annuito senza nemmeno dare peso alle sue parole e poi era corso verso i binari.
Sakura l’aveva acchiappato per il cappuccio prima che finisse addosso a qualcuno e aveva fatto casino per tutto il viaggio in treno.
Era stato impossibile per chiunque tenerlo fermo.
«Guarda quei gabbiani, Neji! Stanno mangiando la spazzatura che si riversa sulla riva!».
«Piantala di urla- il rumore era stato assordante, non aveva nemmeno avvertito dolore -re».
Un attimo prima stava camminando sul lungo mare, un attimo dopo il suo corpo era stato sbalzato a metri di distanza, oltre la ringhiera che costeggiava la spiaggia; giù vicino all’acqua.
 
«E così che sono morto?».
Davanti a lui il mare si apriva in tutta la sua maestosità: la luce si rifletteva sulle onde che si infrangevano sul bagnasciuga portando alla riva residui di conchiglie e sassi grossi quanto il suo pugno.
«Ma non ho potuto fare tutto quello che volevo. Non posso tornare indietro?».
La figura dagli occhi sottili stava ferma alle sue spalle, le mani affondate nei pantaloni bianchi.
A qualche metro di distanza le ombre cercavano di raggiungerli.
«Nessuno può tornare indietro dopo che ha superato la barriera».
La sua voce era profonda e calma. Non faceva così paura come aveva sempre pensato.
«E quindi…ora?» aveva chiesto sconsolato raccogliendo un sasso e l’aveva lanciato nell’acqua creando increspature sulla superficie liscia.
La figura gli si era avvicinata, si era seduta accanto a lui ed era rimasto a fissare il mare in silenzio.
«Ora devi andare avanti – aveva detto poi, senza la minima inflessione nella voce – devi passare alla vita successiva».
«E se non dovesse piacermi? – si era morso la lingua indeciso – se dovesse essere noiosa? Se non riuscissi a farmi degli amici? Se morissi di nuovo?».
«Morirai certamente – Naruto gli aveva riservato uno sguardo carico di frustrazione e l’altro aveva scrollato le spalle – tutti muoiono e poi rinascono a nuova vita, è il ciclo naturale degli eventi. Sarò sempre qui ad aspettarti ogni volta che metterai fine alla tua esistenza».
«Così non fa paura – si alzò in piedi, stiracchiandosi. Avrebbe voluto sentire la sensazione della sabbia tra le dita dei piedi, ma ora sapeva che non sarebbe stata l’ultima volta – non mi hai ancora detto come ti chiami».
Le ombre corsero verso di loro libere, il nero lo avvolse come un manto.
La figura gli sorrise beffarda un’ultima volta:
«Sasuke» disse poi, rispondendo alla sua domanda e scomparve inghiottito dal nero denso.
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7
 
«Complimenti signora! È un maschio».
La donna sorrise e lasciò che il medico le mettesse tra le mani il bambino; il frugoletto paffuto e con gli occhi chiusi emise un vagito, prima di iniziare a piangere disperato.
«Guarda Minato…è nostro figlio» sussurrò con voce tremante di emozione mentre l’uomo le si accostava.
«Ti assomiglia – le rispose prima di lasciarle un bacio sulla nuca – Beh, benvenuto al mondo: Naruto».
 
 
 
 
 
 
 
[1] Anima
   
 
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