Storie originali > Favola
Segui la storia  |       
Autore: Old Fashioned    07/09/2019    13 recensioni
Un’arma segreta del Reich, il dispositivo ombra, viene recuperata quasi casualmente dallo scanzonato pilota di un idrovolante ricognitore.
L’ufficiale inglese che si è visto sottrarre l’oggetto, però, giura vendetta al tedesco, anche perché nello scontro che c’è stato fra i due, egli ha perso una mano e ora è costretto a portare un uncino al posto dell’arto perduto.
I due si incontreranno nuovamente in una misteriosa e sconosciuta isola al centro del Mar dei Caraibi: Ypa'u Oiyva, l’isola che non c’è. Tra indigeni ostili, foreste impenetrabili e luoghi misteriosi, si contenderanno di nuovo il dispositivo ombra e il capitano inglese approfitterà dell’occasione per cercare di saldare vecchi conti rimasti in sospeso.
Seconda classificata al contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP. Vincitrice del premio speciale "Miglior Hero"
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Carissimi, continuano le improbabili avventure dei nostri eroi sull’isola che non c’è. Grazie a tutti quelli che sono passati di qui, mi hanno letto e magari si sono fatti due risate. Un grazie particolare va come sempre a chi mi ha anche commentato^^






VII - Incontri




Pankow si girò verso il suo radiotelegrafista: il caporale Schelle sedeva su una pietra a qualche metro di distanza, con le spalle ingobbite, girando rigorosamente la schiena al resto del gruppo.
Per un po' rimase semplicemente a scrutarlo in silenzio, poi stabilì che molto probabilmente il caporale aveva qualcosa che non andava.
Si alzò dunque premuroso, lo raggiunse e ostentando il tono allegro di un vecchio amico – uno di quelli che scherzano sempre ma al momento buono sanno anche ascoltare – gli chiese: “Qualcosa non va, Till?”
Schelle lo squadrò gelido. “Nossignore, è tutto a posto,” rispose lapidario. Tornò a girarsi con la faccia verso la vegetazione.
Pankow rimase interdetto. Aveva dato prova di empatia, si era dimostrato premuroso, aveva addirittura offerto una spalla sui cui eventualmente piangere. Cioè, non esplicitamente, ma nel caso non l'avrebbe certo negata. Perché allora Till non ne voleva approfittare?
Fece un altro tentativo: “Sicuro che sia tutto a posto?”
Questa volta Schelle non si girò nemmeno. “Non vedo perché le dovrebbe interessare, signore,” rispose.
Il tenente trasecolò. Per quanto si sforzasse, non riusciva a spiegarsi il suo strano atteggiamento, così diverso da quello che aveva di solito: forse aveva ricevuto brutte notizie da casa? La sua fidanzata lo aveva lasciato?
“A me interessa che tu stia bene,” gli assicurò con calore.
Fu come aver avvicinato un fiammifero a un fusto di benzina: Schelle si girò di scatto e lo fissò con occhi spiritati, poi in tono minacciosamente basso ringhiò: “Non si direbbe proprio, signore. Perché se le interessasse qualcosa del sottoscritto, forse adesso lo capirebbe da solo cosa c'è che non va.”
Pur con tutta la sua buona volontà, a quel punto Pankow alzò gli occhi al cielo e sbuffò: “Cosa fai, Till, la fidanzata acida?”
“Io non sono una fidanzata acida,” rispose Schelle con insospettata violenza, “però sono uno che ne ha piene le palle! Wendel di qua, Wendel di là, e com'è bravo Wendel, e com'è simpatico Wendel, e dagli le tue carte, e dagli il tuo posto di radiotelegrafista... io ho sudato sangue per avere quella qualifica, ho passato notti in bianco, ho trascorso intere domeniche chiuso nella mia stanza a studiare... E questo è il risultato?”
Pankow sbatté gli occhi come se gli fosse appena arrivato in faccia un secchio d'acqua. Fissò Till, che stava ansimando paonazzo d'ira, e gli chiese: “Ma non sarai mica geloso?”
“Strano, vero?” replicò sarcastico l'altro. “Vengo relegato in un angolo, costretto a subirmi i panegirici su quell'impiastro, costretto addirittura a cedergli le mie carte, che per inciso sono anche finite in cenere, e pensa un po': la cosa non mi fa piacere.” Scosse la testa e concluse: “Sono proprio strano, vero?”
A quel punto, anche l'allegro, svagato e noncurante Pankow aggrottò le sopracciglia e in tono duro replicò: “Beh, allora vedi di normalizzarti in fretta, Schelle, perché non hai proprio motivo di comportarti come un bambino!”
“Ah, adesso sarei io che mi comporto come un bambino?”
“Perché, sarebbe un comportamento da adulti stare seduto qui girandoci il culo come stai facendo? Hai qualcosa da dire? Dilla e facciamola finita!”
“Ma certo, visto che ci tiene tanto, facciamo gli uomini adulti, scommetto che sarà un'esperienza nuova anche per lei: io sono incazzato a morte perché ha fatto stare quel moccioso nel mio posto, perché gli ha concesso tutto quello che era mio e perché non si è nemmeno preoccupato di sapere se la cosa mi andava a genio o no. Vorrei tirargli il collo come si fa con i polli!”
A quel punto si fissarono ansimanti, scambiandosi occhiate di fuoco. Infine Pankow inspirò come per calmarsi, poi disse: “Va bene, Till, sai che ti dico? Che di fidanzate rompicoglioni ne ho già una in Germania e mi basta. Ora tu te ne stai qui con Hans e Michael e io vado con Wendel a fare una ricognizione nei dintorni.”
“Beh, sarà un piacere non avere fra i piedi quel moccioso.”
“E per me sarà un piacere maggiore non avere più dietro al culo un rompicoglioni acido che brontola in continuazione.”
Detto questo si girò: i fratelli Liefke, muti e immobili, si stavano fissando con estremo interesse la punta delle scarpe.
“Wendel, vieni qui,” ordinò.
“Sissignore.” Il chiamato si alzò in piedi e lo raggiunse. Schelle, che nel frattempo si era di nuovo girato con la faccia verso la macchia, mantenne ostinatamente la sua sdegnosa posizione.

Wendel faceva del suo meglio per tenere dietro al tenente Pankow, del quale però vedeva ormai solo la nuca di un vivido color carota che appariva e scompariva in mezzo al fogliame. “Aspetti, signore,” sussurrò.
“Cosa?”
“Aspetti, per favore. Non riesco a starle dietro se va così veloce.”
L'altro rallentò il passo lasciando che l'aviere lo raggiungesse, quindi gli domandò: “Perché ti sei messo a parlare come se fossimo in chiesa, Wendel?”
Il ragazzo si guardò intorno con circospezione poi, senza modificare il tono di voce, rispose: “Per precauzione, signore. Ormai cominciamo ad avvicinarci al relitto.”
Pankow corrugò la fronte, l'aviere si sentì in dovere di specificare: “Potrebbero esserci pattuglie nemiche alla ricerca di superstiti.”
A quelle parole, al tenente parve accendersi la metaforica lampadina sopra la testa. “Ah, certo,” approvò, “molto acuto. In effetti penso anch'io che sia meglio non attirare troppo l'attenzione.”
Ripresero la marcia con la silenziosa cautela di felini in cerca di preda.
Raggiunsero quel che rimaneva dell'aereo, ovvero qualche lamiera annerita al centro di un cratere fumigante. Wendel fissò il relitto, quindi in tono esitante chiese: “Immagino non ci sia speranza, vero, signore?”
Il tenente si voltò a guardarlo. “Per cosa?”
“Quelle carte, signore.”
Pankow fece un gesto di noncuranza. “Ah, lascia stare. Schelle abbaia come un vecchio cagnaccio bisbetico, ma vedrai che gli è già passata.”
Wendel non rispose. Pur concentrato nello sforzo di fissarsi le scarpe, aveva sentito tutta la lite – sarebbe stato difficile non sentirla, del resto – ma soprattutto aveva visto lo sguardo di Till, e non gli era affatto sembrato lo sguardo della persona a cui l'incazzatura sarebbe passata in fretta.
Proseguirono la marcia. Il terreno era in leggera ma costante salita, qua e là affioravano rocce. Seguendo una scia di rami rotti e foglie smosse cominciarono a un certo punto a intravedere attraverso l'intrico della vegetazione il baluginare azzurro del mare. Man mano che avanzavano, si udiva sempre più forte il rumore di frangenti.
Sbucarono dalle frasche alla sommità di una bassa scogliera. L'acqua era di un turchese intenso, che si faceva color smeraldo nei punti più profondi. Qua e là affioravano rocce che le onde coprivano e ricoprivano di schiuma candida.
Dal basso una voce urlò qualcosa, un'altra le rispose. Si udì il rumore di un corpo che si buttava in acqua.
I due si scambiarono un'occhiata e di comune accordo rincularono verso la foresta.
“Erano voci inglesi, signore,” sussurrò Wendel in tono appena udibile.
“Più inglesi del tè al bergamotto,” confermò Pankow. “Andiamo a vedere.”
L'altro lo fissò sgomento. “A vedere?” balbettò.
“Piano piano, strisciando.” Pankow mimò il gesto. “Ci affacciamo in silenzio e diamo un'occhiatina.”
Senza attendere risposta, il tenente si allungò su gomiti e ginocchia e cominciò a procedere verso il bordo della scogliera. Wendel dapprima si limitò a fissarlo da lontano mentre avanzava in un disinvolto passo del leopardo, poi di malavoglia lo raggiunse e si appiattì a terra accanto a lui.
Poco più in basso c'erano degli uomini con la muta di gomma e le pinne, che in continuazione si buttavano, stavano sott’acqua un po' e poi riemergevano.
L'aviere rimase a fissarli affascinato: sotto i raggi del sole, le lucide mute di gomma facevano pensare ai corpi di mostri mitologici e le lunghe pinne completavano l'illusione. Coperti dalle maschere, i volti perdevano ogni connotazione umana e diventavano qualcosa di deforme e spaventoso.
Pankow gli diede di gomito e a bassa voce disse: “Non gran che come sirene, vero?”
Il ragazzo annuì zelante, poi chiese: “Cosa staranno facendo, signore?”
L’ufficiale strisciò un po’ più avanti e rispose: “È quello che intendo scoprire.”
Uno degli uomini con la muta ripescò una cassetta di legno. La cosa sembrò generare negli altri una certa soddisfazione, tanto che tutti si riunirono intorno al reperto. A Wendel parve di sentire qualcosa a proposito di un’ombra.
Poi arrivò un altro uomo, al quale tutti gli altri sembravano rapportarsi con estremo rispetto. Questi esaminò la cassetta, quindi scosse la testa e se ne andò.
La cassetta fu ributtata in acqua, e lì rimase a galleggiare.
A quel punto, Wendel vide in faccia al tenente un’espressione che non gli piacque per nulla: era un misto di curiosità, audacia, sfida e noncuranza. Lo fissò sgomento e scosse la testa come per invitarlo a non muoversi dalla già esposta posizione che occupava, ma l’ufficiale gli fece cenno di non preoccuparsi. Strisciò un po’ più avanti, ma così facendo spinse un sasso giù dalla scogliera.
Immediatamente i sommozzatori si animarono, se lo indicarono l’un l’altro. Alcuni saltarono in acqua, altri raccolsero delle armi individuali che si trovavano su un telone in una zona asciutta e fecero fuoco nella loro direzione.
Wendel saltò indietro come una molla mentre schegge di pietra e forse proiettili gli fischiavano tutt’intorno, si girò, raggiunse di corsa la foresta e ci si buttò a pesce.
Poco dopo lo raggiunse Pankow, che lungi dal manifestare preoccupazione ridacchiava come il discolo del quartiere dopo aver suonato tutti i campanelli di una bottoniera.
“Gli abbiamo fatto prendere un accidente,” disse allegro.
“Veramente l’hanno fatto prendere loro a me, signore,” protestò Wendel. Rallentò per guardarsi alle spalle e chiese: “Ci inseguono, signore?”
Il tenente fece una risata. “Chi, le sirene? Prima che riescano a togliersi quella roba e a infilarsi un paio di scarponi, noi abbiamo già fatto il giro dell’isola tre volte!”
Continuarono a correre col ritmo della ginnastica mattutina di una caserma delle retrovie.

§

Hans si terse per l’ennesima volta il sudore dalla faccia, quindi chiese: “Qualcuno ha un orologio?”
Per tutta risposta, Michael gli fece vedere il polso sinistro nudo.
L’altro scosse la testa e indicò Schelle, ancora di spalle, con i gomiti puntati sulle cosce e il mento appoggiato alle mani. Ripeté con aria da nulla la domanda. “È un po’ che quei due sono via,” soggiunse poi.
Passò qualche secondo, poi il caporale grugnì: “Chi se ne frega. Per quanto mi riguarda, possono starsene via anche un mese. Non mi interessa minimamente.” Si girò a squadrare i due. “Io ho altro da fare che preoccuparmi di quello là, è chiaro?”
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi Michael rispose: “Certo, è chiaro. Però è un po’ che sono via, non vorrei che li avessero catturati.”
“E chi se ne...” cominciò Till, poi si immobilizzò in ascolto.
“Stanno tornando?” azzardò Hans.
Schelle gli fece segno di tacere.
I due si zittirono e dopo un po’ cominciarono a sentire il rumore di passi che si avvicinavano con circospezione. Erano decisamente più di due persone.
I tre si nascosero come meglio potevano nella vegetazione e rimasero in attesa degli eventi. Schelle, che era l’unico armato del gruppo, aprì la fondina della pistola e si tenne pronto a estrarre l’arma.
I passi si avvicinarono, comparvero delle gambe rivestite di panno blu scuro. Una voce chiese, in tedesco: “È qui che avevi sentito le voci?”
Un’altra rispose: “Sì.”
Intervenne una terza: “Signore, quello sente le voci perché è matto, non gli deve dare ascolto.”
“Non è vero!”
Rannicchiati sotto un cespuglio, i tre si scambiarono occhiate perplesse.
I nuovi arrivati frattanto avevano ripreso a parlare: “Ancora niente dalla Schütze, ormai sono… quanti giorni?”
“Con questo quattro, signore.”
“Sarà meglio che si sbrighino, giocare a nascondino con gli inglesi diventa sempre più difficile.”
A quel punto, Schelle richiuse la fondina, poi a voce alta disse: “Non sparate, siamo tedeschi.” Uscì tenendo le mani ben alzate.
Si trovò davanti un guardiamarina della Schütze, tre marinai e un paio di uomini di mezz’età con qualcosa che somigliava a un'uniforme ma non aveva né gradi né distintivi.
Ad ogni buon conto, si mise comunque sull’attenti.
L'ufficiale lo riconobbe: “Lei è quello dell'aereo.” Si guardò intorno. “Dov'è il pilota? Siete venuti a prenderci?”
Schelle si strinse nelle spalle. “Ecco, signore, è una faccenda un po' complicata...”
“Sarebbe a dire?”
Il radiotelegrafista riassunse brevemente gli ultimi avvenimenti. Man mano che il racconto procedeva, l'espressione del guardiamarina si faceva sempre più mesta. Alla fine l'ufficiale emise un sospiro e disse: “Quindi l'aereo è distrutto?”
“Temo di sì, signore.”
“Niente radio?”
“Nossignore.”
Il guardiamarina si rivolse a uno dei due uomini con gli abiti strani: “Professor Dachs, oltre a essere docente di dialetti caraibici all'Università di Heidelberg si intende per caso anche di segnali di fumo?”
L'altro si strinse nelle spalle. “Temo di no, signor Bär.”
L'ufficiale si rivolse al secondo. “E lei, signor Hase?”
“Sono solo un tecnico degli armamenti, signor Bär.”
Sul gruppo calò un consapevole silenzio.
E nel silenzio, d'un tratto, si udì il tramestio di decine di piedi: tra le fronde comparvero, armati di archi e rudimentali lance, degli uomini perlopiù nudi, dalla pelle color caramello, coi corpi dipinti e monili al collo e alle orecchie.
“Indios,” constatò il professore, “della zona mesoamericana, forse addirittura discendenti degli antichi arawak. Molto interessante.” Proferì qualcosa in una lingua incomprensibile e quello che sembrava il capo del gruppo indigeno aggrottò le sopracciglia e rispose in tono duro, verosimilmente nello stesso idioma. Agitò la lancia ornata di piume e quelli che erano con lui fecero lo stesso. Tutti dissero cose dal suono decisamente minaccioso.
Il guardiamarina fissò Dachs in una muta richiesta di spiegazioni.
L'altro si strinse nelle spalle e rispose: “Signore, in quanto bianchi, gli indios ci ritengono responsabili del rapimento della figlia del loro capotribù, Yvoty Jaguarete.”
“Cosa? Del rapimento di chi?”
“ Yvoty Jaguarete,” ripeté il professore, “Giglio Tigrato. Un nome molto poetico, in verità.”
Il guardiamarina aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma saranno stati gli inglesi! Glielo dica, professore, che sono stati gli inglesi.”
Il docente annuì grave, quindi chiese: “Lei conosce le cinque fondamentali differenze tra le pitture corporee di un arawak e quelle di un cuna, signor Bär?”
“Eh?”
“Allora come può pretendere che un selvaggio vissuto per tutta la vita nella foresta distingua un tedesco da un inglese?”
“Beh, glielo spieghi lei, professore,” rispose pronto il guardiamarina. “Faccia capire loro che anche noi siamo nemici degli inglesi.”
Gli indios frattanto apparivano sempre più innervositi dalla situazione. Uno di essi disse qualcosa che suonò piuttosto aspro, quindi tese l'arco puntando una freccia contro il gruppo di tedeschi. Il capo gli fece un cenno e l'arco si riabbassò, ma l'indio continuò a fissarli sospettoso.
Il professore scambiò qualche altra frase con gli indios, quindi disse: “Vogliono che andiamo al villaggio a parlare con il capo.”
Tra i tedeschi passò un mormorio di disappunto e occhiate a metà tra la preoccupazione e la rabbia dardeggiarono frenetiche.
“Io non ci...” cominciò uno dei marinai, ma lo scricchiolio di un arco che si tendeva lo convinse senz'altro a tacere.
“Prima il capo vorrà parlare con noi civilmente,” spiegò il professor Dachs con un tono che voleva essere rassicurante, “le torture cominceranno solo dopo.”

Appiattiti alla base di un cespuglio, Peter Pankow e Wendel osservavano muti la scena. L'indio più autorevole – quello che aveva piume più colorate sulla testa e monili più grandi – diede un ordine e gli altri spogliarono i tedeschi di tutte le armi, poi le raccolsero e se le spartirono. Successivamente si allontanarono nella boscaglia spingendo i prigionieri davanti a loro.
In breve, sulla piccola radura calò di nuovo il silenzio.
Pankow e Wendel si scambiarono uno sguardo, poi il primo disse: “Sembra che non ci abbiano visti.” Si alzò in piedi stiracchiandosi.
“Pare di no, signore,” rispose l'altro.
“Molto bene, allora seguiamoli.”
L'aviere trasecolò. “Cosa?”
“Hai sentito, no?” replicò Pankow, “Se non interveniamo, li tortureranno.”
“Ma signore... siamo solo in due, cosa possiamo fare?”
Il tenente alzò le spalle. “Boh, qualcosa mi inventerò.” Si incamminò risolutamente nella direzione che avevano preso gli indios.


   
 
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: Old Fashioned