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Autore: iron_spider    18/09/2019    5 recensioni
"Ho pensato di prendere Wasp, e tu Iron Man,” rivela Ned.
Sono delle spillette d’acciaio, una per ogni Vincitore del Distretto 12. A Peter non piace molto partecipare alla goliardia generale, considerando che Capitol sta letteralmente torturando e uccidendo delle persone rendendo la loro vita un inferno; ma, in segreto, ha un Vincitore preferito. È stato Tony Stark sin da quando ha memoria.
Vorrebbe avere la metà del coraggio che ha lui.
È un eroe. È un eroe.

[Traduzione // HungerGames!AU // Tony&Peter]
Genere: Azione, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 9: Conto alla rovescia



 
 
Peter è seduto nella doccia con l’acqua bollente che gli scivola sulla schiena, e pensa a dove sarà stasera, tra solo poche ore. In un qualche luogo solitario, remoto, come un ratto in una teca di vetro. L’intero paese seguirà ogni sua mossa – lo vedrà correre per salvarsi la vita, lo vedrà commettere errori, lo vedrà dormire. Sempre se riuscirà a farcela fino alla prima notte. May e Ned lo guarderanno. Tutto il Dodici. Tony e Janet. Tutti loro, colmi di paura.

Questa è l’ultima doccia che si farà per un bel pezzo. Forse per sempre.

No. Non pensarci.

Rivolge la testa verso l’alto e chiude gli occhi contro l’acqua.

Non si ripulirà mai abbastanza da tutto questo.

 
§
 
 

Non deve ancora mettersi qualunque abito vorranno che indossi nell’arena, e fissa il suo armadio straripante di vestiti per un tempo che sembra infinito. Non sono davvero i suoi vestiti. Non sa perché gliene abbiano dati così tanti, non sarebbe mai stato in grado di indossarli tutti. Si chiede cosa ne faranno, se dovesse morire nell’arena. Si chiede se sarebbe Tony ad occuparsene.

No, no. Non pensarci. Sa che non tornerà qui, comunque andrà. Piano o non piano.

Fa scivolare le dita sulla stoffa come sulle pagine di un libro.

Sceglie qualcosa di comodo, si veste e attraversa la stanza, lasciandosi cadere di faccia sul letto. Si sente così strano, come se il tempo non stesse scorrendo a dovere, e niente gli è mai sembrato più reale e più finto al contempo. Ha avuto cose da fare, ogni singolo giorno, e adesso non c’è nulla. Adesso c’è l’attesa.

Se pensa troppo intensamente, il panico finirà per farsi strada dentro il suo cuore. Diventerà isterico. E non è quello di cui ha bisogno ora. Deve tenerlo a bada, deve tenersi al sicuro, pensare razionalmente. Ma non ha idea di come riuscirà a guardare chiunque di loro in faccia senza scoppiare in lacrime. È l'ultimo, l'ultimo, l'ultimo. Non c'è ritorno. È la fine. C’è un bussare alla porta, e persino quello gli fa spuntare le lacrime agli occhi. Non è di buon auspicio per dopo. 

“Ehi, Pete,” dice la voce di Tony. “Ho la colazione. L’abbiamo preparata io e Janet, il che vuol dire che… è meglio del solito.”

Peter si tira su a sedere stropicciandosi gli occhi, tirando su col naso e sforzandosi di darsi una calmata, di trovare un senso di normalità. “Uh, entra,” dice, con una voce stridula e imbarazzante.

La porta si apre e Tony entra indietreggiando con un vassoio in mano; le sue sopracciglia si aggrottano quando si volta. “Oh, ehi, potevi rimanere in pigiama per un po’, non, uh… non dobbiamo essere pronti prima di un’oretta.”

“Oh,” dice Peter, guardandolo entrare. Ha già affrontato le cinque fasi del lutto del suo pigiama, sapendo che non l’avrebbe più rivisto. Sono quelle cose piccole, stupide.

“Avrei dovuto dirtelo,” mormora tra sé Tony, quasi imprecando.

“Non fa niente,” dice Peter. “Sto… sto comunque comodo.”

“Bene,” replica lui. Si avvicina, poggiando il vassoio tra le lenzuola e il piumino, e gli dà una pacca sulla spalla. “Avevo pensato di farti un margarita, poi mi sono ricordato del nostro patto.”

Peter ride, spostando lo sguardo sul vassoio. Pancake, toast alla francese, fragole, bacon e uova strapazzate. Ha fame, ma gli si sta comunque rivoltando lo stomaco. Ripensa a quando Tony gli ha detto come trovare cibo nell’arena, e che a volte lo mettono negli zaini sparsi in giro, se riesce a trovarli. Si sporge, addentando una fragola. “Grazie,” dice. “Sembra tutto buonissimo.”

“C’è altra roba, se vuoi,” dice Tony, là in piedi con le braccia incrociate sul petto. Sposta il peso da un piede all’altro per qualche istante, e Peter intuisce che deve dirgli qualcosa che non vuole dirgli.

“Cosa c’è che non va?” gli chiede. “A parte… l’ovvio.”

Tony schiocca la lingua, fissandolo. “Uh, hanno detto che nessuno dei regali che hai ricevuto sono permessi nell’arena. Niente spada, nessun vestito, niente ascia. Ti è concesso un portafortuna e, adesso, non voglio sembrare egocentrico, ma ho immaginato che volessi portare la spilla che ti ha dato Ned.”

“Oh, sì, sicuramente,” dice Peter, tra un boccone e l’altro, cercando di ricordare dove l’ha lasciata quando l’ha tolta, appena arrivato. Lancia un’occhiata al comodino, e vede che non è lì. “Neanche gli spara-ragnatele?”

“No,” risponde Tony, guardandosi i piedi. “Ma non per il loro giudizio. Possiamo inviarteli dopo che sarà cominciata, e puoi farne una versione più rozza nell’arena, quei materiali sono sempre disponibili. Spero solo che troverai quello che ti serve per il fluido.”

Peter annuisce, cercando di immaginarsi lì. Solo che non riesce a vedere nulla, perché non sa come sarà l’arena. Al momento, vede solo il vuoto. Si vede galleggiare, cadere, strozzarsi col suo stesso respiro. Inchiodato da mille frecce. Appeso a un cappio.

“Comunque, cerca… goditi la colazione, rilassati, per ora, io vado ad assicurarmi che tutto… proceda senza intoppi.” Tony lo guarda per un secondo, inclinando di lato la testa, e gli fa un cenno, uscendo dalla stanza.

Peter non è abbastanza forte per richiamarlo, dirgli che vuole passare più tempo possibile con lui finché può. Così rimane seduto lì, e dà un morso al suo toast.

 
§
 
 

Peter pensava che se la stesse cavando bene. Abbastanza bene, considerando che sta per scendere in un’arena mortale nel giro di poche ore. Ma bastano pochi tentativi infruttuosi nel cercare la sua spilla di Iron Man per farlo esplodere. Non è appuntata sui vestiti della Mietitura, non è sotto al letto, non è in nessuno dei cassetti, e lui precipita nel panico più totale. Sente il mondo che si chiude su di lui, si sente come quando era ubriaco, solo che adesso non è più divertente, cazzo, e riesce a malapena a respirare, lancia cose a destra e a manca con una sola e unica intenzione: trovare quella dannata spilla.

Non riesce a smettere di tremare.

Non sa quanto tempo passa a cercarla. Gli sembra un’eternità, e sa – lo sa – che sta per scadere. Il suo tempo qui, la sua vita al di fuori dell’arena, e continua a ripetersi che questo è importante, si ripete che ce la farà, che vivrà, in ogni caso. Avrà altri anni, avrà altri momenti. Ma è troppo cosciente del tempo che passa, così cosciente di stare mettendo a soqquadro la sua stanza quando potrebbe rilassarsi, passare quel tempo con gli altri.

“Dove diavolo è?” borbotta, ispezionando tutti i prodotti e le cavolate che gli hanno messo in bagno, la metà delle quali inutilizzata. “Non può essere sparita.”
Fa qualche passo indietro nella sua stanza, guardandosi attorno nel caos che ha creato, e prende finalmente nota dell’orario: gli rimane mezz’ora prima di dover andare.

Si sente sul punto di vomitare.

Esce in soggiorno, con le lacrime agli occhi, e vede Tony che parla con Hammer. Al primo muoiono le parole in bocca nel momento in cui vede la sua faccia, e gli si fa incontro prendendogli il braccio.

“Cosa–”

“Non trovo la mia spilla da nessuna parte,” sbotta Peter, scuotendo la testa. “Ho cercato davvero dappertutto, e devo– devo trovarla prima di andare, devo– devo trovarla, devo–”

“Va tutto bene,” dice Tony, gentilmente, con calma, esattamente quello di cui lui ha bisogno adesso. “Va tutto bene, la troveremo, d’accordo? La troviamo–”

“Aspetta, una spilla di Iron Man?” chiede Hammer, sollevando le sopracciglia.

“L’hai vista?” chiede Peter, con un balzo al cuore. Suona dannatamente patetico.

“Sì, era qui sul tappeto,” dice Hammer, dirigendosi verso la TV. “L’ho messa sul mobiletto della TV, perché so che a volte cenate sul tavolino da caffè.” Peter segue ogni sua mossa, e vede la spilla là sopra prima che Hammer la prenda, in un brillio di luce che filtra dalla finestra. Lo osserva mentre la solleva, passando il pollice sopra la maschera. Torna verso di lui, camminando più rapidamente di quanto faccia di solito, e lascia cadere la spilla nel suo palmo teso.

Il suo sollievo è palpabile, la fissa come se non fosse realmente lì, e ha un flash di Ned, in quell’istante prima che tutto cambiasse, nel Dodici. Le sue spalle si incurvano, e il dolore al petto si smorza appena.

“Ecco fatto, hai visto?” dice Tony, strizzandogli la spalla. “Eccola qua.”

“Grazie,” dice Peter, risucchiando un respiro stentato, e fa un passo avanti abbracciando Hammer. Chiude con forza gli occhi, cercando di calmarsi, di respirare.

“Ehi, ehi, ragazzo, va bene,” dice Hammer, dandogli delle impacciate pacche sulla schiena. “Va tutto bene, è tutto a posto. Hai la tua spilla, sei a posto, siamo a posto.”

Peter annuisce, ritraendosi e asciugandosi gli occhi, la spilla ancora stretta nel pugno.

“Che succede?” chiede Janet, sbucando dal corridoio adiacente con MJ. “Beh, a parte…”

“Stiamo bene,” dice Tony, avvicinandosi un poco a Peter. “Non è successo niente.”

Peter libera un respiro, alzando lo sguardo e incontrando gli occhi di MJ. Vede sul suo volto lo stesso dolore che sente lui ovunque, e adesso il piano sembra precario, a dir poco. Riesce a malapena a pensare lucidamente, figurarsi credere che riuscirà a evadere da quella maledetta arena.

“Mh, le partenze… scaglionate stanno cominciando,” dice Janet, abbassando lo sguardo.

“Vi hanno chiamate?” chiede Tony, a voce un po’ alta. “Vi fanno andare adesso?”

Janet annuisce, grave.

Peter si sente girare la testa. “Aspetta, aspetta,” dice. “Pensavo che saremmo andati insieme. Pensavo che andassimo tutti insieme, che tutti… tutti i Tributi e i Mentori, pensavo– pensavo–”

“Tutti separati, tesoro,” dice Janet, gentilmente. “Cercano di… separare tutti sin dall’inizio, cercano di alienarvi, ma non… non permetterglielo, va bene?”

Peter non riesce a smettere di tremare, a tenersi in equilibrio, e il mondo si inclina. Si pianta un palmo sulla nuca, e cerca di ripetersi: il piano, il piano. C’è un piano.

“Dammi un abbraccio, Peter,” dice Janet, entrando nel suo spazio. Lui annuisce, con la gola costretta, e si scioglie contro di lei quando le sue braccia lo avvolgono. L’abbraccio gli ricorda quelli di May, e quelli di quando era piccolo, caldi e amorevoli, che dovevano essere stati di sua madre. Janet è stata un pilastro di forza per tutto questo tempo, perfettamente in sintonia con qualcuno come MJ, e Peter sa che deve farcela per lei. Per lei, e per ciò che le hanno sottratto, per suo marito e sua figlia. Peter deve far crollare tutto questo.

Gli dà un bacio sulla guancia subito prima di lasciarlo, e si schiarisce la gola, guardandolo da capo a piedi un’ultima volta.

“Posso,” comincia MJ, con occhi agitati, “uh, posso… posso parlarti per… per un minuto, Peter?” chiede. “Di là, uh, in– in corridoio?”

“Certo,” gracida Peter, troppo terrorizzato e preso dal panico per imbarazzarsi, e la segue nel corridoio centrale, lo sguardo fisso sui loro passi che si sincronizzano con così tanta naturalezza.

Una volta nella penombra del corridoio si volta verso di lei, cercando di inventarsi qualcosa di giusto da dire, ma lei lo carica in un abbraccio che quasi lo fa cadere a terra. Si aggrappa a lei, coi suoi capelli ovunque, e chiude gli occhi inalando il suo profumo.

“Non dare di matto,” gli dice, vicino all’orecchio.

“Non sto dando di matto.”

“Invece sì, assolutamente.”

Lui sospira, facendo scorrere una mano sulla sua scapola. “Sì, ok, è vero.”

“Andrà tutto bene,” dice lei, stringendolo ancora. “Funzionerà. Deve. Non devi pensare che siano Giochi normali, so che… so che stai pensando a tutti gli altri, a quelli che sono venuti prima di noi, ma… non farlo, adesso è diverso. È diverso, noi siamo diversi.”

Peter annuisce, riuscendo a malapena a registrare quello che sta dicendo al di là della propria paura.

Lei si ritrae, poggiandogli le mani sulle spalle. “Niente grandi addii, perché ti… ti vedrò più tardi,” dice lei, annuendo, e i suoi occhi tentennano in basso prima di incontrare di nuovo i suoi.

“Va bene,” replica lui. Suona come un idiota, come un macchinario rotto.

“Dimmi qualcosa che faremo dopo,” dice lei, sorridendo. “Dopo, hai capito. Dopo.”

“Oh,” replica Peter, sorpreso, e riesce finalmente ad afferrare quel concetto. “Uhm. Uhm.” Riesce a malapena a pensare, perché è rimasto bloccato in un bizzarro limbo per tutta la mattina, ma lei è proprio qui di fronte a lui, ed è così vicina e sta parlando del Dopo. Qualcosa che faranno dopo. Suona come qualcosa che dovrebbero fare insieme, non ognuno per sé.

Vuole conoscere ogni singola cosa riguardo a lei.

“Voglio farti conoscere May,” dice. “Penso che le piaceresti, un sacco.”

Il suo sorriso si allarga. “Bene,” replica, alzando un po’ il mento. “Bene, voglio… voglio conoscerla.”

“E magari,” dice Peter, con uno sprazzo di speranza che si fa strada dentro di lui, “magari, uh, magari possiamo… andare a cena insieme, un giorno. Solo noi due.” Dovunque saranno. Qualunque cosa staranno facendo.

Lei lo fissa, abbastanza a lungo da fargli chiedere se quella fosse la cosa sbagliata da dire, nonostante gli stia ancora sorridendo. “È… un appuntamento,” conclude, con un cenno.

“Michelle,” la chiama Janet, mentre Peter cerca di comprendere quell’ultima frase. “Ci hanno appena chiamate, tesoro.”

“Okay,” dice MJ, e Peter la guarda, un’ultima volta tra l’Ora e il Poi.

Lei lo lascia andare.

Saluta Hammer, Tony, e ne giro di un minuto sia lei che Janet sono sparite. Peter si sente come se qualcuno gli avesse perforato un polmone. MJ è sempre stata qui, per tutto il tempo. Anche Janet. Parte di questo…di questo inferno. Parte della squadra. E adesso se ne sono andate. Adesso si stanno avviando verso i Giochi, esattamente come dovrà fare lui. Tra poco.

“Ottimo,” dice Hammer, battendo le mani con chiaro sconforto. “È tempo di terminare ufficialmente il mio compito di accompagnatore. Ci riuniscono tutti per la prima notte.”

Peter ripensa a ciò che gli ha detto Sam. Che Hammer è con loro. Peter è bloccato tra l’orrore di non aver detto addio a Sam, e l’urgenza di dover dire qualcosa ad Hammer. Ma non c’è abbastanza tempo.

“Fai quel che devi, ragazzo,” dice Hammer, abbracciandolo di nuovo. Gli dà una pacca sulla schiena. “Facciamo tutti il tifo per te.”

“Ci… ci proverò,” replica Peter, mentre si separano.

“Possiamo fare qualcosa di speciale, qui, stavolta,” dice Hammer, con uno sguardo intento verso Tony.

“Il mondo è pieno di sorprese,” replica lui.

Hammer solleva le sopracciglia nella sua direzione, sporgendosi per dargli un colpetto sul braccio. “Stai in gamba, Anthony,” dice.

Poi se ne va anche lui.

Peter stringe la spilla nel pugno fino a intaccarsi il palmo. Tutto ciò che sente è il battito del proprio cuore e il silenzio assordante della stanza, e Tony che gli prende di nuovo il braccio.

“Mi sento ubriaco,” dice, e la sua voce risuona in modo terribile, come se fosse sott’acqua.

“Prendi un paio di respiri profondi,” dice Tony, guidandolo verso il divano e facendolo mettere seduto.

Si siede proprio accanto a lui e Peter si ritrova a tremare, coi pensieri ridotti a una poltiglia di bene e male, orrore e speranza, e respira a stento. Ha di nuovo sei anni di fronte a sua zia e suo zio, con una nuova vita davanti. Ha tredici anni ed è sporco di fuliggine, aggrappato alla mano inerte di Ben. Ha sedici anni un mese fa, e vede Ned che viene mietuto. Una frase pericolosa che esce dalla sua stessa bocca.

“Prova solo a rilassarti,” dice Tony, stringendogli il polso. “So che è difficile. Mi dispiace, Pete.”

“Va tutto bene,” dice lui, anche se non è vero.

“Vorrei spiegarti cosa succederà dopo,” dice Tony.

Peter annuisce con un brivido. Ma non fa freddo, qui dentro.

“Mi manderanno un segnale,” dice Tony, chinandosi leggermente in avanti, “poi dovremo scendere. Non ci saranno fan, né niente, quindi non devi preoccuparti. C’è una pista d’atterraggio per l’elivelivolo sul retro, passeremo per il corridoio sud. Ci porteranno loro – ovunque ci porteranno–”

“Non lo sa nessuno?” chiede Peter, alzando lo sguardo su di lui. “Neanche la posizione geografica?”

“No,” risponde Tony. “Non finché non comincia.”

“Quindi come faranno a trovarmi?” chiede Peter, affannato. “Anche se scappiamo, e funziona tutto, come– come mi troverete?” Non sa neanche se sarà Tony ad arrivare, ma spera di sì. Lo spera. Ma arriverà qualcuno, in generale? Dovranno uscire dall’arena a piedi da soli, spostarsi in chissà quale area del paese a loro sconosciuta? Ondeggia appena, chiudendo con forza gli occhi. “Non solo me,” esala. “Tutti noi, tutti–”

“Hai il diritto di pensare prima a te stesso,” dice Tony. “D’accordo? Ne hai il diritto.”

Peter annuisce, mordicchiandosi il labbro inferiore.

“Avrai un localizzatore nel braccio,” spiega Tony. “Te lo inietteranno nell’elivelivolo. Quindi lo hackeriamo e lo seguiamo. E quando vi recupereremo qualcuno lo rimuoverà.”

“Mi apriranno il braccio per toglierlo,” dice Peter. “Capito.” Se mai avrà ancora un braccio.

“Thor mi ha detto che a bordo ci sono anche dei dottori,” dice Tony. “Non sarà un’operazione chirurgica arrangiata, andrà tutto bene.”

Peter annuisce, e tutto gli sembra buio, e ci sono troppe voci nella sua testa.

“Quindi, l’elivelivolo ci porterà lì,” dice Tony. “Niente finestrini, così non potremo vedere nulla. E il complesso dell’arena avrà una pista d’atterraggio sotterranea, saremo proprio là sotto. Usciremo, ci scorteranno all’interno, ci spediranno nella nostra stanza. Poi dovrai cambiarti, e avremo un paio di minuti prima di farti entrare nel tubo.”

“Tubo?” chiede Peter, incontrando di nuovo i suoi occhi e respirando forte dalla bocca. “Cos’è, cosa–”

“Ti fa salire nell’arena,” risponde Tony. Peter riesce a cogliere un guizzo di paura sul suo volto, e ciò quasi lo porta al punto di rottura. Poi, però, gli cinge le spalle col braccio, sfregandogli la schiena. “Cerca solo di rilassarti. Respira e basta.”

“Va bene,” dice Peter, cercando di ricordarsi come respirare correttamente. “Okay, okay, ci– ci sto provando.”
 

 
§
 

Peter si guarda intorno, prendendo le misure di questo posto, di tutto ciò che è accaduto mentre ci ha vissuto, di tutte le parole che sono state pronunciate tra queste mura. Gli sembra più di un mese, ha l’impressione di aver vissuto cinque vite in attesa del giorno che sta finalmente vivendo. Attesa, terrore, il panico che gli scuote le ossa proprio ora. Il suo stomaco è un groviglio di nodi.

Si rifà il letto. Fissa gli ologrammi nelle finestre e pensa di poter entrare in quel mondo e vivere lì come un fantasma, in mezzo al fruscio degli alberi.

“Peter,” lo chiama Tony, dalla soglia. “Ho, uh, ricevuto il segnale.”

Peter ha l’impulso di rompere i vetri, di saltare fuori. Ma non vorrebbe che Tony lo vedesse.

Speranza. Abbi speranza. Pensa al Dopo.

“Okay,” risponde, deglutendo a forza, col cuore che sfarfalla. Si guarda intorno, si sente sprofondare e deglutisce di nuovo. Addio, stanza. Fa scorrere la mano sulla parete mentre si dirige verso la porta, e preme l’interruttore della luce, senza guardarsi indietro.

“Hai la tua spilla, giusto?” chiede Tony, affiancandolo.

“In tasca,” risponde Peter, tastandola per assicurarsi che sia ancora lì. Alza lo sguardo ancora una volta quando sono nel soggiorno; pensa a come, solo ieri sera, stessero ridendo e condividendo storie, immaginandosi quello che potrebbe accadere se tutto funzionerà a dovere. Adesso c’è silenzio, adesso si sta lasciando tutto alle spalle. Non lo vedrà mai più.

Si figura Tony qui, l’anno prossimo, con dei nuovi Tributi. Ma poi ricorda il discorso di Tony, prima che svenisse, dopo la Festa in Giardino. Non un’altra volta, non un altro anno. Lo dico sempre, ma ci siamo, questa è l’ultima goccia.

Peter prega, e prega, e prega.

“Continua a respirare,” gli ricorda Tony, mentre spengono le luci in corridoio.

Escono fuori e Peter pensa ai vestiti della Mietitura: gli sembra strano aver lasciato indietro qualcosa che gli ha dato May. Il suo cuore batte più velocemente mentre si avviano all’ascensore e si accosta di più a Tony, con la mascella contratta. Si sente a pochi minuti da un collasso, a pochi secondi, ma viene ritardato quando le porte dell’ascensore si aprono e dentro c’è Sam, in attesa.

Peter rilascia un respiro tremante.

“Grazie a Dio,” dice Tony, tenendo aperte le porte.

“Vieni qua, ragazzo,” dice Sam.

Non deve ripeterlo, e Peter corre verso di lui, abbracciandolo. Lo stringe forte, ha avuto una paura folle di non riuscire a dirgli addio. Sam è una buona metà del motivo per cui è riuscito a formare un qualche tipo d’identità qui, e gli trasmette fiducia.

“So che hai una tabella di marcia,” dice Sam. “Ma dovevo essere certo di salutarti.”

“Vorrei poter indossare una delle tue tute di Spider-Man,” dice Peter, tra i denti serrati.

“Tu sei Spider-Man, Pete,” replica lui, e si scosta, sfiorandogli la guancia e sorridendogli tristemente. “Sei quello che vede la gente, capito? So che dubiti di te stesso tutto il tempo, ma sei tu l’eroe, non il costume. Sei tu. Capito?”

Peter deglutisce a forza, sforzandosi di credergli.

“Muovetevi,” dice una voce meccanica, e Peter guarda da sopra la propria spalla, vedendo il Pacificatore accanto a Tony.

“Sta dicendo addio al suo stilista,” scatta Tony, mentre Peter si volta di nuovo.

“Ce la puoi fare,” dice Sam, intercettando di nuovo lo sguardo di Peter. “Okay?”

“Sì,” risponde Peter, e ha la gola così costretta che riesce a malapena a forzar fuori le parole.

“Ti rivedrò,” dice ancora Sam. “D’accordo?”

“Sì,” ripete Peter, stolidamente, e ci spera, ci spera, ci spera.

Sam annuisce, con molta più sicurezza di quanta senta Peter, e gli prende la mano, passandogli qualcosa. “Non è molto, ma pensavo che ti sarebbe piaciuto per far compagnia a quella tua spilletta di Iron Man.”

Peter abbassa lo sguardo, si fissa il palmo e vede una nuova spilla: un piccolo ragno nero su uno sfondo di ragnatele rosse.

“Non premerla a meno che tu non ne abbia bisogno,” dice Sam, facendogli l’occhiolino quando lo guarda di nuovo.

Peter trattiene un respiro, chiedendosi che diavolo voglia dire. La fa scivolare rapidamente in tasca assieme a quella di Iron Man, sperando che il Pacificatore non stia prestando troppa attenzione. “Grazie,” sussurra Peter.

“È ora di andare,” dice il Pacificatore, come se sapesse che Peter stava pensando a lui.

“Mi faccio sentire, Sam,” dice Tony, e prende gentilmente Peter per il braccio, frapponendosi tra lui e il Pacificatore.

“Ci vediamo dopo,” replica Sam. Punta l’indice contro Peter. “Faccio il tifo per te, Spider-Man.”

Peter sorride, sull’orlo delle lacrime, e si volta quando Tony lo sospinge oltre il Pacificatore e verso l’uscita sul retro. “Sono… sono contento di averlo visto,” dice, di nuovo spalla a spalla con Tony. “Mi ero preoccupato.”

“Non ti avrebbe lasciato andare senza salutarti,” replica Tony.

Peter si sente dissociato per metà mentre camminano, rotto per metà, sta cadendo a pezzi ma tiene su la sua facciata: che sta bene, che questo è normale, che incamminarsi verso una probabile morte è la cosa più naturale del mondo. Non fanno vedere in TV i crolli emotivi, se qualcuno li ha, e Peter si chiede se può arginare quello che sente in arrivo. Si sente ogni secondo sul punto di vomitare, di svenire, è come se stesse perdendo tempo, gli sembra di mancare un gradino ad ogni passo, ad ogni secondo.

Tony gli tiene aperta la porta, e vede l’elivelivolo.

Si ferma incespicando, e una forte ondata di nausea lo investe. Non è mai salito su niente del genere. È salito solo sul treno. È stato in macchina dieci volte in vita sua, e sette sono state qui. Non è mai salito su un elivelivolo.

“Pete.”

Peter è paralizzato. Lo sguardo fisso. Quell’affare lo sta per portare nell’arena. Quell’affare lo sta per portare lì. Non può tornare indietro adesso, non può più fuggire, sta andando, lo stanno portando lì. Morte, tutto intorno a lui, ultimi respiri, orrore, sangue, violenza, teste che marciscono. Teste che marciscono, marciscono, la sua stessa testa, mozzata dal suo corpo. Che si decompone nell’ufficio di Stane.

Tony gli prende la mano, riportandolo sulla Terra. “Ehi, sono qui,” gli dice, piano. “È tutto a posto, è tutto a posto, vengo con te.”

Peter fa un cenno, sentendolo a malapena.

Sente la voce di un Pacificatore. “Dobbiamo–”

“Dammi un cazzo di secondo,” sibila Tony.

Peter sente a fatica e non riesce a muoversi, non riesce a costringersi. Sente l’impulso di ritrarsi, di rannicchiarsi in un bozzolo e cercare di nascondersi. Non sa più chi diavolo sia. Non vuole appartenere a loro. Non vuole. Non vuole che lo portino via. Non ce la fa, non ce la fa.

“Pete, non ti dirò che va tutto bene, perché non va tutto bene,” dice ancora Tony, tenendogli una mano e allungando quella libera a stringergli la spalla opposta. “Ma vengo con te, okay? Lo facciamo insieme. Capito? Segui i miei passi.”

Peter guarda la pista davanti a loro. Le ali lunghe, affilate. I Pacificatori ovunque.

“Uno alla volta, okay?” chiede Tony. “Sono qua. Siamo io e te. Non pensare a dove stiamo andando, stiamo solo facendo un giro, va bene?”

“Va bene,” esala Peter, senza pensare.

“Ho un panino in borsa, e non l’ho fatto io. L’ha fatto Janet, quindi è più buono di quanto pensi.”

“Va bene,” ripete Peter, con gli occhi che bruciano.

“D’accordo,” dice Tony. “Pronto a muoverti? Piano e con calma.”

“Va bene,” dice ancora Peter. Inspirare, espirare. Dentro e fuori. Non vanno da nessuna parte in particolare. Stanno solo facendo un giro. Si mangerà un panino. “Va bene,” ripete, aggrappandosi alla mano di Tony.

Il primo passo è esitante, ma lo compie. Il secondo è un po’ più normale, e poi prendono il ritmo. Tony gli lascia la mano, ma mantiene la presa sulla sua spalla mentre salgono le scalette. Sono dodici gradini, Peter li conta. Poi la porta si chiude alle sue spalle.

Ci sono due uomini dentro il velivolo e sono vestiti come Pacificatori, anche se può vedere i loro volti. Non c’è alcuna compassione nei loro occhi. Tony guida Peter verso due sedili al centro del lato destro; ce ne sono circa dodici per lato, e Peter si chiede perché li portino due alla volta. Forse per un effetto drammatico. Tony gli allaccia la cintura perché lui è troppo distratto per pensarci. Deglutisce a fatica, reclinandosi sul sedile.

Il battito del suo cuore. Boom. Boom boom. Boom boom. Rimbomba come il cannone nell’arena quando cade un Tributo.

Le due guardie li raggiungono e si sorreggono alle maniglie appese al soffitto, e Peter respira con più sforzo. Non vede i piloti, da qui, ma c’è rumore, e serra le mani in grembo.

“Puoi contare,” dice Tony. “Ci sarà un suono simile a un fruscio, lo sentiremo: sono le ali che si allargano–”

“Ancora di più?” chiede Peter, guardandolo.

“Solo un pochino,” replica Tony, mentre il rumore si fa più forte. “Sentirai quel suono, poi possiamo contare fino a dieci. Molto piano. E poi c’è il decollo.”

Peter annuisce, mordicchiando il punto dolorante all’interno della guancia. Poi sente quello che dovrebbe essere il fruscio, che sembra più una grande cascata, ma più impetuosa. Peter guarda Tony, e lui solleva una mano.

“Possiamo contare?” chiede Peter.

“Certo,” replica Tony. “Inizia.”

Contano fino a dieci, il che non sembra preannunciare un’esplosione come farebbe un conto alla rovescia, e Peter si adegua al ritmo di Tony, ripetendo piano i numeri, aggrappandosi a ognuno di essi prima di trovare il successivo.

“Nove…”

“Nove.”

“Dieci…”

“Dieci.”

Peter trattiene comunque il respiro quando il motore brontola e l’aria cambia, e si sente schiacciare contro il sedile mentre il velivolo si alza, decolla. Il suo stomaco sprofonda, e per un momento sembra che quella manovra stia per appiattirlo.

“Poi migliora,” dice Tony. “Stappati le orecchie.”

Peter apre la bocca, distendendo la mandibola. Non pensa, non si concentra, esce di nuovo da se stesso. Una forma di autoconservazione di cui adesso ha disperatamente bisogno, perché non può essere qui, non può respirare così. Si scollega a tratti dall’esistenza, dentro e fuori dalla propria coscienza, non pensa, non pensa. Affonda le unghie nei palmi.

Da qualche parte a metà del volo Tony gli porge un panino, e mentre lo mangia i pensieri riprendono. Ricorda le statistiche. Il 22% dei Tributi negli Hunger Games muore d’inedia. Il 37% muore assiderata. Vorrebbe poter fare una scorta di panini. Non gli importerebbe neanche se fosse stato Tony a farli.

È un sasso che affonda nel fondale di un lago. È coperto di detriti, di sabbia e piedi palmati. È coperto da ere, da millenni, e ha freddo. È dimenticato. Si sta decomponendo.

“Ehi,” lo riscuote Tony, e quando lo guarda, Peter si accorge che sta tremando. “Sono qui con te, va bene?”

Peter annuisce, ma riesce solo a pensare non per molto.

Uno degli uomini si muove, non più rigido come una statua, si avvicina a un pannello sul muro aprendolo con uno scatto e ne estrae qualcosa.

“Okay,” dice Tony, mentre si avvicina a loro. “Come ti ho detto–”

“Dammi il braccio,” dice l’uomo.

Peter deglutisce a forza.

“Il tuo localizzatore,” dice Tony, fissando l’altro con sguardo aguzzo.

Peter fa un cenno scattoso del capo e si tira su la manica, porgendo il braccio. L’uomo lo afferra, brusco, e lo gira col palmo verso l’alto. Rivela quello che ha in mano, che sembra una versione gigante della siringa che ha visto nello studio del dottore. Chiude gli occhi, sente la mano di Tony sulla spalla, e poi c’è un forte pizzico accompagnato da uno schiocco sonoro quando l’uomo gli inietta il localizzatore. Peter sobbalza, col braccio che pulsa, e quando riapre gli occhi l’uomo è di nuovo accostato al muro e sta riponendo il grosso ago.

“Hanno fatto un macello nel mio anno e me ne hanno messi due,” dice Tony, dandogli una stretta alla spalla prima di ritrarsi.

“Davvero?” chiede Peter, strofinando il punto in cui l’hanno punto, ancora sensibile.

“Già, mi hanno permesso di cavarmelo fuori dal braccio perché stava facendo impazzire tutto,” replica Tony.

Peter si chiede come diavolo gliel’hanno detta, una cosa del genere, e rilascia un respiro. Continua a passare le dita sul nuovo bozzo che ha sul braccio.

Sente che stanno atterrando circa dieci minuti dopo, e si odia per non aver prestato più attenzione per tutto il tempo, per aver ceduto all’isteria: avrebbe potuto tener traccia di quanto c’è voluto per arrivare qui, in quale direzione stessero volando… conosce la geografia di Panem, avrebbe potuto arrivarci. È arrabbiato, e si sfrega gli occhi, col sudore che già gli incolla la schiena.

L’elivelivolo si ferma, e Peter sta congelando.

“La cintura,” gli ricorda Tony, e quando lui lo guarda si è già tolto la sua ed è chinato verso di lui, controllando se è in grado di muoversi. È come se stesse perdendo un anno alla volta, uno dopo l’altro, regredendo all’infanzia, e le sue mani continuano a tremare mentre si slaccia. Si mette in piedi, ed è come se avesse qualcosa incastrato in gola che lo soffoca.

Tony gli rimane vicino, ed è l’unica consolazione. La rampa si riabbassa e si allunga, e tutto ciò che vede sono delle luci fluorescenti.

Non sente più il battito del proprio cuore. Si chiede se non sia morto durante il tragitto, se non sia ancora seduto là. Si chiede cosa farebbe Tony, se fosse davvero così. Sarebbe come fare il dito medio a Stane. Non potrebbe prendersi la sua testa, allora. Tony non glielo permetterebbe.

“Giù la testa,” ordina uno degli uomini dietro di loro. “C’è un Pacificatore che vi aspetta.”

“Proprio quello che volevamo,” commenta Tony. Guarda Peter, non fa un passo finché non lo fa lui, e il collasso sta arrivando, è imminente, tira Peter per le caviglie e minaccia di trascinarlo sul fondo.

“Non so cosa fare,” sussurra, timoroso di muoversi ancora. “Non so cosa fare.”

Potrebbe essere frainteso, ovvero che non sa come procedere, come continuare, anche se Tony gliel’ha spiegato, anche se il percorso è chiaro.

“Andiamo,” lo incoraggia Tony, di nuovo con una mano sulla sua spalla.

Peter deglutisce, lasciandosi guidare.

“So cosa stai passando,” mormora Tony, mentre scendono dalla rampa e dovunque cazzo siano finiti. “Lo so benissimo. E sei fin troppo bravo.”

“Ci sto provando,” esala Peter. “Ci– ci sto provando–”

“Peter Parker?” chiede una voce, da qualche parte sopra di loro. Peter continua a strofinarsi il braccio, e tutto ciò che voleva dire gli si disintegra in bocca, e continuano a camminare lungo il corridoio finché non vedono il Pacificatore di fronte a loro. Peter scatta, entra in modalità difensiva, e alla rabbia si somma la sua completa e totale disperazione, il suo terrore, il modo in cui l’idea di morire gli sta avviluppando la gola. Vorrebbe solo farsi largo tra loro, ma la sua vista è ancora distorta, la sua testa ancora confusa.

Vede rosso. Liquido.

“Sì,” risponde per lui Tony.

“Seguitemi,” risponde il Pacificatore, la mano sulla pistola.

Tutto è fatto d’acciaio, e i loro passi riecheggiano. Sembra una prigione, e… ed è esattamente ciò che è. Le porte si susseguono una dietro l’altra e Peter si chiede dove sia MJ, dove siano Steve e Natasha. Si chiede chi di loro due sia rimasto da solo, considerando che il loro Distretto ha un solo mentore. Peter continua a camminare, e se li immagina mentre costruiscono questo posto, immagina le persone costrette a costruirlo, ed è in quel momento che lo colpisce.

Lo colpisce, come un treno in corsa, e il mondo si inclina.

Sono sotto l’arena proprio ora. Ci stanno camminando sotto. Il posto in cui verrà intrappolato, dove combatterà per sopravvivere, ci sono proprio sotto. Sono così vicini, così vicini, e mancano pochi minuti. Minuti, solo minuti.

Gli sembra di camminare all’infinito, poi si fermano, e il Pacificatore apre una delle tante porte. Il corridoio continua a perdita d’occhio e Peter guarda fino in fondo, in cerca di qualcun altro.

“Non toccarlo,” sente ringhiare Tony, e lo vede fra lui e il Pacificatore. Tony incontra il suo sguardo e gli fa cenno di entrare nella stanza.

Peter obbedisce, Tony lo segue, e la porta si chiude dietro di loro.

La stanza è fredda e umida, con muri piastrellati, le tenui luci sul soffitto che ronzano e traballano. C’è una porta aperta nell’angolo, e Peter vede un completo appeso all’attaccapanni interno. Uno spogliatoio.

Tony sbircia da sopra la sua spalla, e lo osservano entrambi.

Una maglietta nera a maniche corte, con bande rosse che vanno dal colletto alle maniche. Pantaloni neri che sembrano troppo stretti per lui, un giacchetto con due strisce rosse lungo le spalle, e stivali marroni.

“Bene, direi che possiamo escludere l’acqua,” dice Tony. “Probabilmente è un’area urbana, o una foresta.”

Peter sente il cuore eruttare come un vulcano. Brucia. Si scheggia. Guarda Tony, cercando di mantenersi saldo sulle gambe, di non accasciarsi, di smettere di sudare, di tirare un respiro. “Ci stanno ascoltando, vero?”

Tony annuisce.

Peter manda giù un groppo, lieto di aver avuto la prontezza di chiedere, prima di dire qualcosa di stupido, tipo vorrei che fossimo scappati nei tunnel. Vorrei che fossimo scappati quando ne avevamo l’opportunità.

“Abbiamo dieci minuti buoni–”

“Dieci minuti?” dice Peter, troppo forte, col respiro che sputacchia.

L’espressione di Tony è mesta, e annuisce. “Cambiati più in fretta che puoi, okay?”

Peter trasalisce, e sente la bocca secca mentre si volta, entra nello spogliatoio e chiude la porta dietro di lui. Si vede allo specchio e rimane lì in piedi, si fissa, perché questo non può essere lui, non può essere lui, qui, non può stargli succedendo questo. Deve svegliarsi, e si pizzica con forza il braccio. Niente. Svegliati, svegliati. Lo fa di nuovo, e non succede nulla, e i suoi occhi si riempiono di lacrime frustrate. Svegliati, svegliati, scappa, scappa. Vuole ricominciare da capo. Vuole risvegliarsi a quattro anni, quando i suoi genitori erano ancora vivi. Anche Ben. Prima che Tony venisse mietuto, prima che prendessero Tony. Ha sbagliato tutto, ha fatto casino, ha fatto un casino terribile.

Si afferra i capelli e cade silenziosamente nel panico, premendo la fronte contro lo specchio. Si sente sul punto di svenire, con la vista chiazzata che si inclina, si inclina, ha continuato a inclinarsi per tutto il giorno, e cerca di dirsi che sta perdendo tempo a farsi sopraffare dal panico qui, da solo, quando potrebbe passare i suoi ultimi istanti con Tony. Sarà già abbastanza solo per tutto il tempo che passerà nell’arena finché non troverà gli altri. Finché il piano non funzionerà ed evaderanno. O finché non morirà di qualche morte atroce architettata dal Presidente in persona. La paura nel suo cuore è così spessa da aver costruito un muro gigantesco attorno a lui, ed è in trappola anche nella sua testa.

Non vuole morire. Ha sedici anni, ci sono così tante cose che deve ancora fare, e non ha alcuna fiducia nella sua capacità di guidare una nazione, un gruppo di ribelli, tutti coloro nei Distretti che sono stati oppressi così a lungo da non riuscire neanche a deviare dalla loro routine quotidiana senza esitare troppo. Come faranno a seguirlo? Come farà ad arrivare lì, prima di tutto? Non ci riuscirà, se muore. Non ne avrà mai la possibilità.

Non può morire, non può. Non può perché non può affrontare qualcosa del genere, qualcosa che lo terrorizza così tanto. Come può l’universo spingerlo in quella direzione? Come?

Peter prende un paio di respiri profondi, e guarda da sopra la spalla i vestiti che gli hanno fornito. Quelli che indosseranno tutti, tutti insieme.

Quelli in cui potrebbe morire.

 
§
 

Tony rimane fermo nella stanza in penombra e aspetta. Ha la testa leggera, e non si sta comportando nel modo giusto, niente di tutto questo è giusto, si stanno muovendo nella direzione sbagliata. Non sa come essere forte per Peter adesso, qui, alla fine, e non riesce a venire a patti col fatto di doverlo abbandonare. Mandarlo nell’arena. Tony non può fare affidamento sul piano, ma è la sua sola speranza di rivedere vivo il ragazzo.

La sua testa è in guerra con se stessa, e risulta distaccato. Risulta come una parte di tutto questo, una parte della loro “macchina ben oliata”. Esci dal Centro Tributi, Peter; sali sull’elivelivolo, Peter; preparati al decollo, Peter. È complice. Non è abbastanza intelligente. Avrebbe dovuto fare qualcosa, cazzo, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa, ma adesso ha l’ha trascinato qui. Sono qui. L’arena è qui.

Vede, con la coda dell’occhio, la scatoletta che aveva attirato la sua attenzione. Sospira, la raggiunge e ne estrae un braccialetto, passando un pollice sull’acciaio liscio. PETER PARKER, vi è inciso a chiare lettere, e Tony fa scivolare il bracciale sul polso, chiudendolo con uno scatto.

Si guarda alle spalle. Vede la pedana circolare. Vede l’apertura sul soffitto, ancora chiusa, ancora per poco. Non sa quanto tempo rimane. Il conto alla rovescia è imminente. Sente il suo intero corpo rattrappirsi e risucchia un grosso respiro, rilasciandolo lentamente. Non gli è permesso di cedere. Non adesso, non ancora. Non di fronte a Peter. Non quando il ragazzo ha bisogno di lui più che mai.

La porta dello spogliatoio si apre, e Peter esce fuori. I suoi capelli sono in disordine e tiene mollemente il giacchetto in mano, alzando subito lo sguardo come se avesse avuto paura di non vederlo ancora lì.

Amalo come se fosse tuo dice la voce di Pepper, di nuovo, ed è come la cosa più importante che abbia mai sentito, le parole sono impresse nel suo cuore. Tony si chiede perché debba essere proprio lui, proprio il bambino che ha cambiato tutto così tanto tempo fa, perché si è dovuto offrire volontario per una morte quasi certa. Ma, a dispetto di tutto, Tony lo fa. Lo ama come se fosse suo. Non può farne a meno. Non c’è posto per nient’altro.

Si avvicina a lui e gli toglie il giacchetto di mano, appendendolo allo schienale della sedia di legno più vicina.

“Tony, ho– ho paura,” dice Peter, con le labbra che formano una linea sottile mentre cerca di combattere le lacrime. “Non so perché, ma avevo continuato a pensare che non sarebbe mai arrivato, che lo avremmo evitato in qualche modo, ma adesso siamo qui e io– io non– non respiro–”

Tony sente il cuore spezzarsi. Si sta spezzando da tempo, perché Peter è buono, è gentile, è la persona più pura che abbia mai incontrato ed è così pieno di dolore, di sofferenza e sfortuna e destini inevitabili e, comunque, continua ad andare avanti. Pensa agli altri. Ogni pensiero per se stesso lo considera egoista, anche quando si tratta del suo benessere. Tony glielo legge negli occhi anche ora.

Si avvicina e gli prende entrambe le mani nelle proprie. “Non sono stato abbastanza bravo– no, non contraddirmi, intendo oggi. Avrei dovuto fare di meglio, avrei dovuto dire a tutti di levarsi di torno. So che siamo in trappola, ma dovrei fare di tutto per proteggerti, per starti accanto. Qualunque cosa.”

“Anche il solo fatto di averti qui aiuta,” dice Peter, stringendogli con forza le mani.

Tony si sforza di non piangere. “Sai come funziona,” dice, con voce incrinata. “Stai sulla pedana finché non finisce il conto alla rovescia. Ci saranno zaini ovunque, prendi il primo che vedi. Evita gli scontri, evita i gruppi numerosi. Trova un palmare, se puoi, con quello puoi creare illusioni, sai quanto sono potenti e sei bravo ad usarle. Non appena ti riunisci coi tuoi alleati, fate gruppo e trovate un punto di vantaggio. Sai come nasconderti, sai come sopravvivere. Trova quello che ti serve per fare il fluido e ti farò arrivare gli spara-ragnatele. Stanotte o domani.”

Peter annuisce e, anche se è così abbattuto, i suoi occhi sono ancora colmi di fiducia. Si aggrappa a ogni parola che dice.

“Vedi questo bracciale che ho?” chiede Tony, alzando appena il polso. Peter annuisce. “Sarà connesso a te non appena i Giochi cominceranno, così sarò in grado di monitorare la tua pressione sanguigna, le variazioni dei tuoi battiti. Saprò sempre cosa sta succedendo.”

“Mi guarderai, vero?” chiede Peter.

“Ma certo,” dice Tony. “Non dormirò nemmeno.”

“Devi dormire.”

“Dormirò quando dormirai tu,” replica Tony, tirando appena su col naso. “E questo affare mi sveglia se qualcosa sveglia te. Non mi perderò nulla.”

“Va bene,” dice Peter, con voce piccola, come se fosse riuscito a spingere fuori le parole a fatica.

“Ascolta,” sussurra Tony, incontrando i suoi occhi. “Ascoltami. Tornerai. Va bene? Non esiste che tu non torni. Attieniti al piano.”

“Il piano.”

Il piano,” ripete Tony, e gli fa dannatamente male la gola mentre tenta di sopprimere il panico. “Va bene? Tu tornerai. Faremo tutte le cose di cui abbiamo parlato.”

Una lacrima scivola lungo la guancia di Peter, e Tony lascia andare la sua mano per asciugarla.

C’è un annuncio crepitante. “CINQUE MINUTI AL LANCIO.”

“Oddio,” esala Peter, col volto che si deforma.

“Ehi, ehi,” lo richiama Tony, sfiorandogli il viso, cercando di catturare la sua attenzione. Sente il proprio cuore cedere, sa che è sul punto di farlo, e se non avrà un infarto alla fine di tutto questo si considererà fortunato. “Ehi, vieni qui,” dice, attirandolo a sé. “Vieni qui, vieni qui.”

Peter crolla contro di lui, e sta tremando così violentemente che riesce a malapena a tenerlo.

“Sarò con te per tutto il tempo,” dice Tony, stringendo con forza gli occhi perché il dolore è inimmaginabile, gli invia scosse ovunque. “Se vedi una telecamera, se la senti, guarda dritto nell’obiettivo e guarderai me, capito?”

“Capito,” balbetta Peter. “Tony, io– credi davvero… credi davvero che possa farcela? Fare tutto? Farcela– sopravvivere a tutto questo?” Nasconde il volto nella sua spalla.

“Ci credo,” risponde Tony. “Sei così coraggioso, ragazzo–”

“Non sono–”

“Lo sei,” ribatte lui, sfregandogli la schiena. “Sei dannatamente forte, reagisci alla svelta, e sei intelligente, se assurdamente intelligente, Pete, va bene? Ricordatelo. Non dimenticarlo, puoi usare tutto quello che c’è lì dentro–”

“Oddio,” esala Peter. “Oddio. Ricordi– ricordi cosa ha detto– cosa ci ha detto–”

“No,” lo interrompe Tony. Si scosta da lui, stringendogli le braccia. “Non pensare a quel cazzo di stronzo, intesi? Non è nulla. È fango sulle tue scarpe. E vedrà tutto, capito? Gliela faremo vedere.”

Peter risucchia un respiro tremante, e ha gli occhi iniettati di sangue, la paura dipinta ovunque.

Tony scuote la testa, e deve dire la cosa giusta. “Non ho mai– insomma, lo sai, ma io... ho sempre voluto un figlio. Pepper e io ne avevamo parlato a lungo, avevamo dei progetti, e loro… loro hanno distrutto quei progetti, e non ho mai– non ho più pensato di averne uno perché non… non troverò mai nessun’altra. Lei era l’amore della mia vita. Ma tu… Peter, tu per me sei come un figlio. So che lo sei. Ti amo come amerei un figlio, ragazzo, davvero, e mi dispiace. Mi dispiace così tanto.” Le lacrime lo sopraffanno e scuote di nuovo la testa, guardando a terra.

“Tony,” riesce a dire Peter, prima di tornare ad abbracciarlo.

Tony posa un lungo bacio sulla sua tempia, e prega. Prega di avere la forza, prega di avere fortuna, prega per la salvezza di Peter. Prega per il momento in cui lo vedrà di nuovo. Dopo. Non prega da tanto tempo, non davvero, mai così. Ma adesso deve. Qualcosa deve pur funzionare.

“Rimani con Steve,” dice Tony, con le lacrime che adesso scorrono libere. “Stagli dietro, sempre. Sei troppo importante, capito?”

“Capito,” dice Peter, con voce smorzata.

“DUE MINUTI AL LANCIO.”

Peter torce la mano nella giacca di Tony, stringendosi di più a lui.

“Shh, shh, sono qui,” lo calma, e ondeggia sul posto, tirandogli indietro i capelli.

“Puoi… tenerti in contatto… con May?” chiede Peter.

“Lo farò, non m’importa delle regole,” dice Tony, già progettando un’altra chiamata. Deve fare così tante cose, per tenerlo al sicuro. Deve rimanere in contatto con tutti i suoi sponsor. Deve osservarlo da vicino, vedere di cosa avrà bisogno.

Questa è l’ultima volta che stringe il ragazzo. No, dannazione. Questa è l’ultima volta che lo vede di persona. No, no. Questa è l’ultima volta che sente la sua voce non attraverso uno schermo. Ti prego, no. Ti prego, no. Non può morire. Non può. Non come tutti gli altri. Non posso guardarlo morire.

“Voglio solo… dirti grazie,” sussurra Peter. “Per tutto.”

“Ehi, no… grazie a te,” replica Tony. “Per essere te. Mi sono ubriacato con molte persone e tu sei stato la più divertente.”

Peter ride, affondando la fronte nella sua spalla, e a Tony sentire quel suono sembra una vittoria.

“UN MINUTO AL LANCIO.”

“Maledizione,” dice Tony, e vuole fermare il tempo, congelare tutto, e farebbe saltare in aria tutto il dannato paese per far uscire Peter da tutto questo. Vuole entrare là dentro di persona, vuole andarci con lui, perché è difficile trovare abbastanza fiducia in qualcun altro perché lo tenga al sicuro.

Peter si scosta da lui, con occhi enormi. “Le mie spille,” dice, tremando. “Le ho qui, devo, devo–”

“Okay, mettiamole,” dice Tony, ed è terrorizzato, con gli occhi che scattano all’orologio sul muro. Ogni secondo. Ogni secondo. Un altro sprecato.

Peter infila una mano tremante nella tasca e ne estrae entrambe le spille, quella di Iron Man di da parte di Ned, e quella di Spider-Man da parte di Sam. Tony gliele appunta vicino al colletto, assicurandole strettamente, così non dovrà preoccuparsi di poterle perderle, poi allunga una mano per recuperare il giacchetto dalla sedia, aiutandolo a indossarlo.

Tony percepisce una morsa stringente attorno al petto, e riesce a malapena a respirare.

Il tubo emerge da sotto il pavimento, connettendosi rapido all’apertura sul soffitto. Peter allunga una mano verso di lui e Tony la stringe. La porta di vetro si apre finché non è abbastanza alta per permettere a una persona di entrarvi. Rimane in attesa.

Tony strizza la mano di Peter, un ultimo istante, l’ultima connessione con questo ragazzo. Peter la strizza di rimando, e poi si separano.

“TRENTA SECONDI AL LANCIO.”

“Rimani sulla pedana finché non termina il conto alla rovescia,” ripete Tony, col respiro che lascia in brevi sbuffi la sua bocca.

Non vuole dire ad alta voce perché. Perché lo ridurranno a brandelli se prova a partire in anticipo. E verranno qui alla svelta se non entra per tempo nel tubo.

Tony vuole fermarlo di nuovo, vuole abbracciarlo di nuovo, non lasciarlo andare, vuole trascinarlo via attraverso i condotti d'aerazione e portarlo al sicuro, ma il loro tempo è scaduto, niente è più sicuro, è finita, e il suo stomaco è un abisso, ha l’orrore in gola, e rimane a guardare mentre il ragazzo lo fissa con così tante domande negli occhi. Così tanto dolore, così tanta confusione, e Tony non può aggiustare niente di tutto questo.

“Va bene,” dice Peter, con un cenno, e suona comunque come una domanda.

“Va bene,” ripete Tony.

Non ti meriti questo. Non te lo meriti. Mi dispiace. Mi dispiace.

Peter è a un passo dall’iperventilare, e si muove più vicino, più vicino – lontano, così lontano – finché non entra nel tubo. Si volta e la porta si chiude, con l’ultima occasione che sfuma via. Poi si sigilla.

Tony quasi perde il controllo nel vederlo lì, il suo incubo, il suo maledetto incubo, e si copre la bocca per impedirsi di implorare, di urlare che accada tutto, ma non questo.

Peter sembra quasi rassegnato, col labbro inferiore che freme, e Tony vede la luce che lo scansiona e conferma che stanno portando via proprio la persona che vogliono portare via. Peter preme la mano contro il vetro, vi poggia la fronte, e Tony scatta in avanti, congiungendo le loro mani e posando la fronte contro quella di Peter.

Non è questo che fanno i padri. Non lasciano che i loro figli vadano incontro al pericolo. Richard Parker lo pesterebbe a sangue. Anche Ben Parker.

“DIECI SECONDI AL LANCIO.”

“Ti voglio bene, ragazzo,” dice Tony, e non sa se può sentirlo, non lo saprà mai, perché Janet non aveva detto nulla mentre lui era nel tubo. Era rimasta solo lì, incrollabile. “Dio, torna da me. Ti prego.”

Alza lo sguardo e vede Peter sillabare qualcosa che sembra un ti voglio bene anch’io.

Tony conta, e fa male, ad ogni battito del suo cuore. Poi Peter inizia a muoversi, col tubo che lo solleva in alto, in alto, in alto. Lui si piega verso il basso, con lo sconcerto e l’agitazione che distorcono il suo volto, e sembra più spaventato di quanto Tony l’abbia mai visto.

“Sono qui,” dice Tony, premendo con forza la mano contro il vetro. “Sono con te, ragazzo, sono con te.”

Peter mima la parola Tony e poi il tubo lo spinge del tutto verso l’alto.

È andato.

Tony barcolla all’indietro sotto il peso del proprio fallimento, si copre la bocca con entrambe le mani. Fissa il tubo e spera, spera che sia un incubo, spera che torni, ti prego, Dio ti prego, riportalo indietro, ma ormai è iniziata, e indietreggia finché non urta con la schiena contro il muro accanto alla porta.

“Oddio,” singhiozza, con la gola che brucia, le gambe che tremano, un dolore atroce che lo squarcia in ogni direzione. “Oddio,” ripete, artigliandosi il collo, perché è andato, è andato, è andato, Peter è andato.

Il braccialetto si anima con una vibrazione, e Tony sente il battito del cuore di Peter. Una raffica. Tony strizza gli occhi, premendo il polso contro il centro del petto.

“Dio, Pete, mi dispiace,” sussurra, una preghiera, una promessa. “Mi dispiace.”

 
§
 

“Tony!” grida Peter, piegandosi sulle ginocchia molli mentre il tubo lo trasporta fuori, e l’ultima immagine che ha di lui è la sua mano compressa contro il vetro mentre pronuncia parole che Peter non riesce a leggere. È andato, sono divisi, il momento su cui ha avuto incubi sin dalla Mietitura è qui: è solo, è solo.

Sta per svenire. Sta per svenire, sta per svenire.

La luce lo colpisce mentre emerge dal tubo nell’aria aperta, e non riesce a vedere, è troppo luminoso, strizza gli occhi contro questo nuovo mondo con troppi contrasti e troppa luce. Si scherma il volto dal sole, o la versione fasulla del sole, perché adesso è nella loro gabbia per criceti. Tutti stanno guardando.

Molto lentamente, riesce a mettere a fuoco i dintorni.

È in mezzo a una strada che sembra esplosa, ci sono macerie ovunque, macchine rovesciate, scarpe abbandonate, pezzi di edifici sparpagliati ovunque. Delle porzioni del terreno sono fratturate, sprofondate, c’è qualche piccolo incendio e molti pennacchi di fumo che si levano nel cielo, ed è circondato da alti palazzi. Un’area urbana, proprio come pensava Tony.

In tutti gli altri anni c’è sempre stato un piccolo cerchio con tutti i Tributi a fronteggiarsi, una Cornucopia nel mezzo colma di oggetti per adescarli, trappole per ucciderli. Ma quest’anno è diverso. Peter è praticamente solo. Scorge un unico altro Tributo, ad almeno un paio di isolati lungo la strada, e non riesce neanche a capire chi sia.

Respira a fondo, guardandosi attorno, e vede il conto alla rovescia su un tabellone di fronte a lui. Cinquanta secondi.

Peter si prepara. Il suo cuore batte troppo forte. Deve farlo. Non c’è una via d’uscita. È terrorizzato, ha più paura di quanta ne abbia mai avuta, ma adesso non può più fuggire. Non c’è modo di salvarsi, se non il piano. Deve smetterla di tremare, e l’orologio continua a ticchettare.

Guarda alla sua sinistra, e vede che la strada dove è posizionato si trasforma in un ponte, poi passa sopra un’altra strada orizzontale che va ad abbracciare un edificio largo e squadrato, con lunghe finestre e un orologio decorato con statue sul tetto. Dietro di esso c’è un altro edificio, un grattacielo, più grande del Centro Tributi, che si erge nel cielo come un faro. Ha una forma bizzarra, dissimile da qualunque cosa abbia mai visto, e si curva formando quella che sembra una pista d’atterraggio per elicotteri prima di continuare a slanciarsi al di sopra di essa.

Trova un punto di vantaggio, gli dice la voce di Tony, e sa che deve entrare in quella torre.

Ha le mani sudate, e le sfrega sui pantaloni. Cerca di respirare, cerca di respirare. Lancia un’altra occhiata lungo la strada, socchiudendo gli occhi verso il Tributo più vicino, e potrebbe essere la ragazza del Tre. Non ne è certo. Non vede l’ora di incontrare un volto familiare.

Respira. Respira.
Avrò la sua testa, Tony.
Guardala marcire.
A fine mese staremo tutti tentando di ammazzarci a vicenda.
Mi accerterò che le vostre strade si incrocino.
Guardala marcire.
Guardala marcire.

Peter barcolla sul posto e quasi cade dalla pedana, ma recupera rapidamente l’equilibrio mentre il conto alla rovescia arriva a quindici.

“BENVENUTI AI SESSANTESIMI HUNGER GAMES!” annuncia una voce dall’alto, echeggiando ovunque. “I GIOCHI STANNO PER COMINCIARE. CHE LA FORTUNA SIA SEMPRE A VOSTRO FAVORE.”

Peter si passa una mano sul volto, cercando di smettere di sudare. Ci siamo, ci siamo, ora o mai più, e sposta di nuovo lo sguardo verso la torre, con gli occhi che perlustrano il terreno per trovare uno zaino, un palmare, qualunque cosa. C’è roba ovunque, non riesce a vedere chiaramente, ma sa che deve andare in quella direzione, e basta. Deve esserci un altro Tributo nei paraggi, da quella parte. Spera che non sia Beck, o qualcuno dell’Uno o del Due.

“DIECI. NOVE. OTTO.”

“Oddio,” sussurra Peter, e ha davvero l’impressione che morirà qui, proprio qui, proprio qui, cazzo, ma deve rivederli, deve rivederli, deve sopravvivere, per loro. Deve trovare MJ. Deve trovare gli altri.

“SETTE. SEI. CINQUE.”

I suoi occhi scattano qua e là, e vede un uccello che si libra sopra di lui, planando basso prima di riprendere quota. Peter lo segue e per un momento è di nuovo nel Dodici, prima di tutto questo. Ma solo per un momento.

“QUATTRO. TRE.”

“Okay,” esala. “Okay, ce la puoi fare. Ce la puoi fare. Forza, Spider-Man. Forza, Spider-Man.”

“DUE. UNO.”

Sente un gong e senza un solo altro pensiero scatta con un balzo giù dalla pedana e aggira una macchina gialla rovesciata, cercando di non inciampare nei suoi stessi piedi. Non si guarda indietro e si dirige verso la torre.




 
*




 Tradotto da: ever in your favor: countdown, di iron_spider da _Lightning_



Note della traduttrice:

Cari Lettori,
se avete avuto il patema d'animo o la tachicardia nel corso di questo capitolo, sappiate che vi capisco e che lo considero come un successo di traduzione, perché alla prima lettura mi sono sentita esattamente così :')
Vi informo che gli avvertimenti Contenuti forti e Violenza valgono, com'è prevedibile, soprattutto per il prossimo capitolo e ancor più per quello successivo.

Ringrazio infinitamente Eeva, Paola Malfoy, T612 e ericaron per aver commentato lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Grazie davvero, aumentate a vista d'occhio e come sempre vi invito a lasciare kudos e commenti sulla storia originale <3

Al prossimo capitolo,

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