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Autore: Narwain_Phoenix    22/09/2019    4 recensioni
Dal testo: Ancora bruciava.
Ogni volta che stringevo i palmi delle mani sentivo il fuoco penetrare nella ferita aperta.
Ancora bruciava.
Nelle notti in cui solo la pioggia aveva il diritto di urlare, scrosciando da una nuvola alta al suolo.
Bruciava quando i miei occhi erano chiusi e l’eco divampante di fiamme che si spengono scivolava via dai ricordi fino a diventare silenzio.
Non sarei dovuto cadere.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti. Mi sono iscritta come Writer ma è la prima volta che pubblico.
Ho deciso di scrivere tre storie che accompagneranno Aziraphale e Crowley, come unici personaggi, in questo prequel dal titolo ''Piume Nere'' (il loro reale primo incontro, sotto il mio punto di vista), durante il midquel ''Il corso dell'acqua'' (ambientato nel XIX secolo, che ci trasporterà verso la relazione dei due fatta anche di parole e non solo di fatti) e il sequel intitolato ''Il nostro tempo'' (quel che potrebbe accadere dopo la Non-Apocalisse).
Le tre storie sono state pensate come metafora della nascita, la vita e la morte.
Soltanto la prima è una One shot vista dalla prospettiva di un Crowley malinconico che ricorda chi era stato. Le altre due che seguiranno avranno più capitoli e saranno raccontate in terza persona.

Spero vi piaccia questa prima storia! Fatemi sapere, se vi va. Essendo nuova sono felice di conoscere altri appassionati! :D

 

Piume nere

 
Ancora bruciava.
Ogni volta che stringevo i palmi delle mani sentivo il fuoco penetrare nella ferita aperta.
Ancora bruciava.
Nelle notti in cui solo la pioggia aveva il diritto di urlare, scrosciando da una nuvola alta al suolo.
Bruciava quando i miei occhi erano chiusi e l’eco divampante di fiamme che si spengono scivolava via dai ricordi fino a diventare silenzio.
 
Non sarei dovuto cadere.
Non quella notte, non prima di aver capito perché.
 
Quel luogo era carico di colori che sembravano abbracciarsi in modo così intenso da divenirne uno solo. Indistinguibile.
Quando i fari delle auto mi abbagliarono e le mie palpebre si chiusero, ricordai quelle chiazze d’acquarelli sparse qua e là su condensazioni di nubi e polvere.
L’acqua rifletteva le loro ombre e gli sguardi sempre si ancoravano alla magia che incantava noi povere anime cresciute senza mai poter rivedere le meraviglie di quel mondo.
Erano pochi gli eletti. Pochi tra miliardi di stelle che ogni minuto nascevano e morivano in un universo creato da Dio.
La loro sorte era prendere fuoco alla fine di un’esistenza luminosa.


Eravamo tutti necessari all'equilibrio di questa galassia e di quella dopo e quella dopo ancora.
Tutti uniti per bilanciare i destini.

Io guardavo, ascoltando cori di voci eleganti che si tramutavano ogni volta in suoni di arpe, violini e leggere note di pianoforte. Le uniche che mi facevano scorrere lacrime.
A quei tempi il mio pianto era composto da un chiarore intenso e ghiaccio. Mi accecava. A volte faceva male. Cercavo di non raggiungerlo mai.

Imparai a usare le ali che mi furono concesse troppo tardi.
sentivo un peso sulle mie scapole a cui non sapevo dare un nome.
Una parte nascosta di me imparò a farle spostare di un millimetro come soffi, come ritmi di un tempo perduto in una danza contro l’aria.
C’era qualcosa di soffice in me. Qualcosa di etereo e incantevole. Voltavo spesso il capo per osservare le piume bianche.
Muovevo lento le spalle per librarmi in volo, dopo essermi rialzato da una caduta. Impiegai secoli per dimenticare la gravità. Forse millenni per arrivare così vicino alla luna.


Mi diedero un compito, a cause del mio spirito incontrollabile. Irrequieto, dicevano, per non ostentare parole che l’Onnipotente non potesse ascoltare: avrei dovuto occuparmi delle stelle.
Sarei stato io a farle nascere, a illuminarle, a renderle visibili nei cieli di mondi lontani, a salvare le meteore che precipitavano nel buio. Ad aiutarle a morire.
 
Questo era il ciclo che fu deciso all'alba dei tempi e che durerà fino ai suoi tramonti.
 
Anni. Passarono soltanto degli anni. Spiccioli, molliche, battiti di ciglia di esseri umani. Un secondo, un attimo. Cercavo di trovare quante più parole avessi imparato per definire quanto durò il mio sorriso.
Le vedevo morire. Una ad una. Sempre.
Io non sarei mai morto. Nessun cuore avrebbe smesso di battere. Il mio viso – a immagine e somiglianza di Dio – non sarebbe invecchiato. Nessuna ruga, nessun capello bianco. Nessuna fine.
 
Le mie ali mi trasportavano da una meteora a un sole. Da un satellite a un altro. Chiudevo sempre gli occhi argentei e con le mie stesse mani bruciavo, chiedendo perdono. Le stelle implodevano e io, lì, scrutavo quei miliardi di colori che si disperdevano nell'universo, senza alcun suono.
 
Anni. Cominciai a sentire un peso che non apparteneva alle ali. Fu la prima volta che dissi no.
Non avrei più spento una stella.
Nessuna di esse sarebbe scomparsa dal cielo mentre un essere umano la guardava imperterrito chiedendole la risposta a una sua domanda, la realizzazione di un suo sogno.

Mi catturarono. Mi tennero fermo su una nube e mi spinsero, come se quello fosse un gesto così naturale da non essere neanche percepito.
Non chiesi di parlare con Dio perché sapevo che c’erano regole prefissate e noi non avremmo dovuto modificare i nostri pensieri sulle fasi che erano state ormai decise.
Sapevo anche che il compito che mi era stato dato era qualcosa di giusto, ma ero nato senza forza, senza voglia di vedere quell'esplosione di silenzio per l’eternità.

Caddi.

il capo reclinato all'indietro, le labbra socchiuse in un’improvvisa sensazione di paura. Le braccia tese in alto, come per afferrare delle nuvole, ormai inconsistenti e futili.
Ciò che mi fece più male, però, furono le ali.
S’infiammarono.
Riesco ancora a sentire l’odore delle vampate e di bruciato: le piume luminose circondate dal fuoco. Il dolore. Il dolore incessante che mi arrestò.
Poi piovve. Non capirò mai se fu un gesto clemente di Dio o solo acqua che sciolse le fiamme appena in tempo da non rendere tutto cenere.
Riuscii a muoverle con fatica finché la mia schiena urtò con violenza sul fango che una volta era stato un terreno pieno d’erba e fiori.
Provai ad alzarmi mettendomi in ginocchio e facendo peso sulla gamba destra, quella indolenzita meno.
Mi guardai intorno: sul fondo della foresta vidi esseri umani. Due.
In alto solo il cielo scuro, sembrava quasi fosse triste. Ho imparato, qui sulla Terra, che gli uomini credono sempre sia così quando piove. Nessun cielo sta realmente piangendo per te. Ero solo.


Non riuscii a rialzarmi del tutto. Con i palmi delle mani toccai il terreno fangoso e mi avvicinai a gattoni alle figure che giacevano tranquille ai piedi di un grande albero di mele. Sembravano incuriosite da quelle gocce d’acqua che cadevano dall'alto.
Usavano l’albero soltanto per ripararsi e mi chiedevo come mai non si sfamavano con quel frutto. Avanzai per parlar loro, per raccontargli la mia storia – semmai mi avessero creduto – e per mangiare.
Ero sulla terra da pochi minuti e sentivo il mio nuovo corpo desideroso di cibo. Provavo freddo e, chiudendo gli occhi, sentivo ancora i tasti di quel pianoforte che echeggiavano nella raduna per me.
Le lacrime che corsero via, notai, erano composte da semplice acqua e sale. Niente più bagliori, luci, arpe e canti.

Mi nascosi dietro il melo. Riuscivo a vedere le spalle nude dei due umani. Cominciai a provare un bisogno incontrollabile di strisciare contro l’albero senza poter essere visto per rubarne i frutti. Non avevo più nulla da perdere, ormai.

Sentii dell’acqua scorrere vicina, sempre più vicina. Non proveniva dall'alto, era quasi una piccola cascata, un ruscello che si muoveva.
Qualcosa – o qualcuno – si era appena fermato dietro di me, zuppo.
Mi voltai senza alcuna aspettativa. Forse era un animale di quelle foreste.
Il mio sguardo divenne di pietra. Alzai le pupille così tanto da poter provare dolore: era un angelo.
Anche lui mi osservava con paziente dubbio. Sentivo le sue private domande, le sue paure. Ci guardammo per un’eternità – o così mi parse – senza mai comunicare. Ancora fradici di quell'acquazzone frustrante.
Esaminai i suoi capelli corti biondi, il completo color crema che aderiva al suo corpo umano e non riuscii a fare a meno di notare la sua apertura alare.
Nella mia mente un rivolo di profonda nostalgia mi accolse.
Guardai in maniera istintiva le mie ali, certo di non trovare più nulla.
Un tuono carico mi fece sobbalzare – o almeno questa è la scusa che mi prese i pensieri per nascondere lo sgomento – erano ancora lì. Le piume bianche erano state annerite dalle fiamme, ma non erano scomparse, non erano cenere.
L’angelo sembrò capire che la mia sorpresa non era dovuta al rombo di quel tuono e sorrise. «Sei caduto». La voce acuta cercò di ridursi in un bisbiglio, forse per fare in modo che i due umani non sentissero.
Cercai a lungo di capire se quella fosse stata un’affermazione o una domanda. Capii, dopo secoli, che era pura compassione.
Non risposi. L’angelo mi porse una mano come per aiutarmi a riprendere la postura di un uomo. O per salvarmi.
«Sono Aziraphale». Fu il primo nome che sentii in quel mondo e – oggi – credo che sarà anche l’ultimo che mi accompagnerà.
«Io...»
Ero confuso. Uno stormo di pensieri ed emozioni cominciò a venire a galla appena ascoltai il mio timbro vocale: era rauco. Diverso.
Provai rabbia e rancore. Vedevo ancora fiamme a ogni battito di ciglia, anche in mezzo a tutta quell’acqua. Vampate feroci che incendiavano la tempesta.
Non ricordavo più il mio nome. Non ricordavo neanche la forma del Paradiso. Le memorie mi stavano sfuggendo una a una, come se non mi fosse più concesso custodirle.
«…Non volevo cadere», finii.
Gli occhi dell’angelo continuarono a guardarmi con dolcezza. La mano ancora tesa verso di me. «Nessuno lo vorrebbe».


Sono successe molte cose da allora. Ho capito di non essere più un angelo dal primo tocco di quella mela, nel giardino dell’Eden. Così Aziraphale mi aveva spiegato si chiamasse.
Mi chiese anche di non rivelare mai che una pioggia c’era già stata, perché il piano ineffabile di Dio prevedeva che nessun essere umano avrebbe dovuto guardare quell’acqua che proveniva dal cielo. Non allora.
“Demone”, cominciarono a chiamarmi quando – curioso – scesi le scale per l’inferno.
Ora, però, il mio nome è solo Crowley. È quello che ho deciso per me stesso, quello che ho imparato ad accettare, oltre le tentazioni e i peccati. Oltre la voglia di diventare umano.
 
Ancora bruciava.
Nelle notti in cui restavo sveglio a osservare il cielo e una stella moriva, sentivo le ali ricoperte dalla luce del fuoco.
Ancora bruciava la ferita nei ricordi in cui è nascosto il mio vero nome.
Il fuoco, la mela, la pioggia, i miei occhi diventati gialli come il sole, l’immagine dell’angelo che non sarei potuto essere: tutto si riduceva in fiamme che assumevano il suono di un sibilo, come quello di un serpente.

 

   
 
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