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Autore: steffirah    22/09/2019    1 recensioni
Un'altra possibilità? O l'eterno ripetersi della stessa storia...?
Una maledizione? Una colpa da scontare? Una speranza? Un futuro in cui vivere, in cui sopravvivere?
"Da quel momento in poi, cantammo del nostro immenso ed eterno amore."
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Raccolta di one-shot dedicate alla "2B9S week" indetta su tumblr dal primo al sette dicembre 2017.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
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5. [M]odern (Human) Au



 
■■■□■ 2B's Story



“La vincitrice è 2B!”
Guardai verso il display sulla parete, mantenendomi inespressiva. Come al solito, ero arrivata prima.
Accettai la medaglia d’oro, accennando appena ad un sorriso, vedendo a malapena il pubblico che mi applaudiva ed elogiava.
Come al solito, mi chiesi inevitabilmente lui cosa stesse facendo in quel momento.
Fissai dritto nello schermo di una telecamera, domandandoglielo con gli occhi: “Mi stai guardando adesso, in tv? Forse su internet? Hai almeno idea di chi io sia? Mi riconosci?”
Automaticamente scesi dal podio, avvicinandomi alla mia fiera allenatrice, Madame White, e alla mia migliore amica, Sybil, che entusiasta correva a porgermi dei fiori.
“2B, sei stata meravigliosa!”
“Grazie.”
Accettai quel bouquet variopinto, rivolgendomi a Madame White, che pure mi sorrideva con orgoglio.
Venne a darmi un flebile abbraccio, prima di allontanarsi di poco, lasciandomi soltanto una mano su una spalla mentre tornavamo verso gli spogliatoi.
Prima che potessi andare a cambiarmi mi trattenne, esordendo con: “C'è una notizia che devo darti.”
La fissai in attesa e lei cacciò fuori la sua cartellina, osservandone il foglio che aveva davanti.
“Considerando i tuoi risultati, pensavo di mandarti a Tokyo.”
“A Tokyo?” ripetei stupita. Addirittura in un altro Paese?
“Esatto. Lì c'è una delle mie migliori allieve, Iris, che forse conosci come A2.”
Annuii a quel nome e rievocai tutte le sue vittorie. La consideravo, da bambina, come la mia più grande rivale; poi, a lungo andare, divenne un modello da seguire e raggiungere, se non persino superare. C'era una sorta di tacita competizione tra di noi, sebbene non ci fossimo mai trovate faccia a faccia come avversarie. Forse dipendeva anche dal fatto che lei fosse mia sorella; ma questo era un segreto che conoscevamo soltanto noi due.
“Io stessa sono stata istruita da un sensei lì e, vista tutta la strada che hai fatto, vorrei raccomandarti.”
“È una vostra decisione” ribattei noncurante. “Per me è indifferente.”
Dentro di me, tuttavia, ne gioii. Per quanto il nostro non fosse il migliore dei rapporti, sarebbe stato bello rivederci. E, forse, in quel luogo tanto distante, sarei riuscita a trovare anche lui.



 
■■■□■



Mi fermai dinanzi alla mia nuova casa. Si trattava, in realtà, di un dormitorio associato ad una facoltosa università, cui ero stata iscritta. La mia allenatrice, che per lungo tempo era stata una madre per me, ci teneva che oltre alle mie capacità motorie sviluppassi e sfruttassi anche quelle cognitive. Non che fossi molto portata negli studi, la mia qualità principale era la forza fisica, non mentale; anzi, la mia mente era decisamente debole. Tuttavia ci teneva a vedere brillanti risultati anche in quel campo e, per rincorrere quell'obiettivo, ce l'avrei messa tutta, al fine di non deluderla.
L'aspetto positivo era che Sybil mi aveva seguita in questa impresa. Non che non me l'aspettassi. Da quando avevo cominciato il liceo, quindi quattro anni fa, eravamo diventate amiche e da allora non ci eravamo mai separate. Meglio dire che lei mi si avvicinò, lei si interessò di me, lei provò a farmi uscire dal mio guscio e scoprì - facendolo scoprire anche a me stessa - che dietro quella mia freddezza, quel mio essere scorbutica e talvolta persino aggressiva nel modo di pormi, si celava una fragile timidezza che mi rendeva insicura. A sua detta, quella facciata era uno scudo che avevo innalzato attorno a me per impedire a chiunque di vedere quanto invece mi sentissi sola, abbandonata, triste e nostalgica.
Fu la prima e fortunatamente unica persona nella mia vita che tentò e riuscì a psicoanalizzarmi, capendo così tanto di me, persino più di quanto mi ci raccapezzassi io stessa.
Ero chiusa in me, un lupo solitario; preferivo vivere da sola, lavorare da sola, perché così m’ero abituata a fare, crescendo. Tuttavia, qualcosa, o meglio, qualcuno mi mancava.
In realtà, si trattava di più di una persona. E una, quella legata a me dal sangue, stavo per incontrarla.
Lasciai alla voce allegra di Sybil riempirmi i pensieri, mentre parlava della nuova facoltà che aveva scelto. Ovviamente aveva optato per biologia e non c’era da sorprendersi, considerando la sua grande passione per la botanica; il suo sogno era occuparsi di una serra che avrebbe ospitato ogni tipologia esistente di fiore e prendersene cura, insieme a qualcuno che amava, nella sua bella casetta immersa nel verde, con un enorme giardino e tanti gatti.
Per quanto mi riguardava, non avevo un sogno. Non c’era nulla di particolare che volessi fare, se non continuare a lottare e a vincere, facendomi riconoscere sempre di più. Volevo che tutto il mondo parlasse di me, così da essere certa che, ovunque lui si trovasse, sapesse di me. Sapesse che ancora esistevo. Sapesse che lo aspettavo.
Forse era quello il mio sogno: incontrarlo e dirgli, per una buona volta, quel che provavo per lui, per non dover più vivere di rimpianti. Scoprire come stava conducendo la sua vita, senza più dovermi interrogare e preoccupare a riguardo. Essere certa che anche lui fosse vivo, da qualche parte nel mondo.
Notando che si fosse fatta ora, lasciai perdere il continuare a disfare la valigia e salutai Sybil, spettinandole quei capelli color grano abilmente divisi in due spesse trecce, ricevendomi un mini rimprovero, ma anche un “In bocca al lupo”.
Annuii ringraziandola e uscii, dirigendomi al dōjō indicatomi da Madame. Non distava molto da lì, per raggiungerlo mi bastava camminare per una quindicina di minuti.
Una volta arrivata cominciai a sentire l'ansia salire, quasi come prima di una gara, se non peggio. Come al solito me la tenni dentro ed entrai, guardandomi intorno. Avanzai verso la palestra, seguendo quella voce ferma così distante che dava indicazioni, facendo le veci dell’anziano sensei. Mi affacciai in quella sala con specchi, notando che stesse allenando dei ragazzi più giovani di noi. Attesi accanto all'ingresso finché non li lasciò riscaldarsi e, notandomi, mi si avvicinò, ponendosi alla mia destra.
Entrambe fissavamo dinanzi a noi, il suo unico saluto fu: “Erika, ti trovo bene.”
Mormorai una sorta di risposta, aggiungendo: “Congratulazioni per l’avanzamento di grado.”
Mugugnò un ringraziamento, al che non resistetti più alla tentazione di guardarla. Come avevo già appurato dallo schermo, rispetto a quando eravamo bambine s'era fatta allungare i capelli, talmente tanto che, pur tenendoli legati in un’alta coda, essi le sfioravano il fondoschiena. In questo modo, nonostante i nostri visi praticamente uguali, poteva essere più facile distinguerci; in passato, quando portavamo lo stesso taglio, gli unici che ci riuscivano erano i nostri genitori e lui…
“Sei cambiata” osservai, leggermente risollevata.
Si voltò a scrutarmi, a braccia conserte.
“Tu, invece, sei rimasta identica.”
Feci spallucce insieme ad un piccolo sorriso, incapace di dare spiegazioni. D'altronde, era fatto apposta. Nonostante lo sviluppo, avevo cercato di mantenere sempre il mio viso pulito da eccessivo trucco e i capelli con lo stesso taglio corto, da 15 anni. Per essere riconoscibile.
“È per lui, vero?”
Colta in flagrante, chinai di poco la testa, stringendo i pugni ai lati del corpo.
“Lo trovi stupido?” mormorai appena, vergognandomi di me stessa.
“Sì e no.” La guardai sorpresa, aspettandomi soltanto la prima. “È che…” Sviò lo sguardo, osservandosi una ciocca più corta che si arrotolava su un dito. “Me ne andai prima di voi, quindi non so effettivamente come s'è sviluppato il vostro rapporto. Ma ho sentito dell'incidente e non vorrei che ti stessi riempiendo di false speranze.”
“Non importa” ribattei prontamente, guardandola determinata, per quanto dentro di me una simile ipotesi fosse insostenibile. “Lo troverò, ad ogni costo, che sia anche la sua tomba. Fino ad allora, resterò come sono.”
Mi fissò a lungo, il suo sguardo un misto di apprensione e disapprovazione. Sospirò, dicendo: “Fa’ come ti pare, ma non pentirtene.”
Dopodiché mi fece segno con una mano di seguirla e quando lo feci e restammo sole mi cinse tra le sue braccia, stringendomi fortissimo. Non c'era bisogno che lo dicesse perché lo sentii nel suo gesto tanto inusuale. “Mi sei mancata tantissimo.”
Anche a me sei mancata tantissimo, sorellona, pensai, lasciando a qualche lacrima scivolare sul mio viso e bagnare la sua spalla.
Almeno noi due, ci eravamo ritrovate.



 
■■■□■



Il lunedì successivo ebbe inizio la mia nuova vita accademica.
Nel cortile di quell'incommensurabile istituto che brulicava di studenti le strade mia e di Sybil si separarono. Augurandomi una piacevole giornata - e facendomi segno col telefono che quanto prima mi avrebbe contattata (già prevedevo la carrellata di messaggi che mi avrebbe mandato) - si allontanò. Senza essere chiassosa come lei mi limitai a salutarla con una mano, prima di seguire la mappa e dirigermi verso la mia facoltà.
Da quanto mi avevano detto al momento dell'iscrizione, sarei stata assegnata a uno dei migliori studenti, che mi avrebbe funto da tutor. Presunsi che dovesse essere un senpai, ossia uno studente più grande di me, ma mi fu spiegato che lo avrebbero scelto a sorteggio tra quelli coi risultati più alti nei test di ammissione. Sembrava avere il suo senso che fosse del primo anno e, d'altro canto, sentivo che quella fosse una richiesta implicita di Madame, per assicurarsi che ci fossero effettivamente dei miglioramenti nei miei voti - ed eventualmente continuare a tenermi d'occhio. A Paesi di distanza, neppure mi aveva totalmente abbandonata.
Mi sentii sollevata nel comprendere che, nonostante la lontananza, c'era qualcuno, una figura più grande, una figura materna, che avrebbe continuato a vegliare su di me e su cui, eventualmente, avrei potuto contare.
Mi incamminai verso i sentieri fioriti, attraversando un vialone pieno di ciliegi (qui chiamati ‘sakura’), spostando lo sguardo dalla strada alla mappa e viceversa. Ad un certo punto, tuttavia, mi arrestai. Mi voltai indietro, colta da una strana sensazione. Era come se fossi stata appena attraversata da un fulmine, ma non doloroso, anzi più… più roseo, più piacevole, composto da scintille di speranza.
Guardai col cuore in gola oltre delle siepi dai fiori bianchi, affacciandomi appena, scoprendo così che accanto ad un albero era seduto un ragazzo. Un ragazzo dai capelli lisci e candidi, che sembrava totalmente immerso nella lettura di un libro, finché non sobbalzò al suono del suo telefono - probabilmente una sveglia che lui stesso aveva impostato - e borbottando tra sé qualcosa in giapponese - se avevo capito bene, doveva esserci la parola ‘ritardo’ in mezzo - si sollevò di scatto, filando via mentre metteva trafelato tutto in borsa.
Rimasi lì pietrificata, osservandolo scomparire proprio nell'edificio di management verso cui ero diretta. Risi tristemente tra me, sentendomi un'idiota.
Che sciocca, non poteva essere lui. Tra tanti Paesi, perché avrebbe dovuto finire proprio in Giappone? Se così fosse stato, allora forse era scritto nel suo nome…
Non dovevo illudermi. Avevo visto unicamente la sua schiena e, anche se mi sembrava lui, non doveva necessariamente essere lui.
Presi un respiro, incamminandomi, portandomi una mano sul cuore sperando decelerasse finché, lanciando un’occhiata all'orologio, non mi accorsi di quanto si stesse facendo tardi.
Accelerai, raggiungendo in pochi lunghi passi la segreteria per prendere le mie cose e farmi poi dare indicazioni sul luogo in cui mi sarei riunita al mio tutor. Non era lontano, mi bastava uscire dalla stanza, superare il corridoio, e una volta giunta in fondo attenderlo nel cortile sul retro.
Quando arrivai lì lui mi aveva anticipata. Fissava con aria assorta il cielo, prima di guardare il terreno calciando qualche sassolino.
Pensavo che quella di pochi attimi prima fosse stata una mia impressione, soltanto perché sembrava così simile al nostro primo incontro. A quel giorno in cui io e Iris eravamo state assegnate a quell'orfanotrofio ed esplorando quell'aeroso giardino insieme a Zinnia, il nostro unico vero padre, lo trovammo seduto a ridosso di un albero con un libro tra le gambe.
Zinnia, che in qualità di genitore aveva scelto i nostri nomi, prendendoli dai fiori che, secondo lui, più ci rappresentavano, ce lo introdusse a distanza. Lo aveva battezzato Kiku, che in giapponese significava ‘crisantemo’, per quel simbolo di vita che portava con sé, essendo sopravvissuto a molte difficoltà, nonostante la sua giovane età.
Lo ammiravo, colpita da quanto sembrasse rapito dalla lettura di un testo che, tutt'oggi ne ero convinta, non sembrava rivolto ad un bambino di quattro anni. Doveva essere una specie di genio, possedere un qualche talento. E mentre pensavo a tutto questo lui sollevò lo sguardo, incontrando direttamente i miei occhi, incatenandomi sul posto con quelle profonde iridi blu. Mi dedicò un piccolo sorriso cortese, prima che venisse approcciato da altri bambini che gli chiesero di giocare a nascondino.
Fummo poi introdotti dopo poco, in casa, quando c’erano tutti. Inizialmente io e Iris eravamo un po’ diffidenti, ma Kiku non si lasciò scoraggiare. Insieme a Zinnia, lui fu la prima persona cui concedemmo l'accesso al nostro gelido cuore. E anche dopo che mia sorella se ne andò, nonostante avessi una nuova famiglia, lui aveva sempre rappresentato qualcosa in più per me. Occupava nel mio cuore un posto che scavalcava tutti e che non sarebbe mai stato superabile da alcuno.
E ora, un ragazzo presumibilmente della nostra età, con quegli stessi capelli che sembravano fili di cotone, quelle stesse iridi incorniciate da ciglia nerissime, e quella stessa bocca larga e sottile che soleva chiamare costantemente il mio nome, mi guardava pieno di sorpresa.




■■■□■ 9S’ Story



In un caldo giorno di primavera mi fu annunciato che mi era stata assegnata una nuova studentessa. Non sapevo ancora molto di lei, se non che veniva dall'America, dove era campionessa di aikido e lotta libera. Aveva persino partecipato alle Olimpiadi un anno, ottenendo la medaglia d’oro. Il suo nome da atleta era 2B, un nome che, proprio come la nostra campionessa in Giappone, A2, mi apportava una certa nostalgia.
Spinto dalla mia incessante ed inguaribile curiosità avevo cercato qualche informazione su di loro, leggendo tutte le riviste che ne parlavano, in entrambe le lingue. Non trovai molto in realtà, soprattutto per quanto concerneva le loro vite private. L’unica cosa che sapevo per certo, osservando il loro comportamento tramite un monitor, era che i loro atteggiamenti fossero simili. Così come lo erano in maniera eccezionale anche i loro lineamenti. Chissà se si prendevano a modello a vicenda, sebbene nessuna avesse mai fatto alcun riferimento pubblico all'altra. Chissà se erano in qualche modo imparentate. Oppure, chissà se si trattava di una mera coincidenza e semplicemente, come è credenza, erano due delle sette sosia che si dice ci siano nel mondo per ciascuno di noi. In tal caso, non vedevo l'ora di trovare anche il mio.
Ma era una coincidenza anche il fatto che i loro nomi fossero nomi di fiori, come il mio, e neppure a farlo apposta rispecchiassero i miei preferiti? Soprattutto l’erica, aveva sempre avuto un impatto calmante su di me, che fosse per la visione di tanti fragili fiorellini bianchi e rosati che, uniti, si facevano forza l'un l'altro, elevandosi verso il cielo, o che fosse col loro buon profumo, che sapeva d'un passato obliato. Spesso trovavo piacere e giovamento nell’addormentarmi all'ombra di quegli arbusti, e allora facevo sempre sogni malinconici. Di solito vedevo riflessi argentei o indaco, ghiaccio e lillà, bambole di porcellana in abiti gotici e quant'altro. Non sembravano avere molto senso, erano mere impressioni, visioni astratte, mentre quel che più mi colpiva erano le mie sensazioni, perché sembravano così vere. Come se non li stessi sognando, come se quell’assurda realtà la stessi vivendo.
Col passare del tempo, tuttavia, in questi sogni cominciò a comparirmi anche ‘2B’. Forse mi stavo impegnando troppo in quella ricerca, talmente a fondo che le avevo permesso di accedere al mio inconscio e riportare a galla qualcosa di sopito in me, che ancora non ero riuscito del tutto a decifrare.
C’era una cosa che avevo capito di me, ed era che non fossi in grado di amare. Affezionarmi, sì, voler bene anche, come lo si voleva ad amici e ad una famiglia, ma niente di più. Mia sorella, Tamae, una ragazza seria - molto più di me -, talvolta piuttosto severa e legatissima alla famiglia, ci aveva provato più volte a farmi aprire da quel punto di vista. Mi aveva punzecchiato, mi aveva presentato sue amiche, mi aveva mostrato film e fatto leggere libri che parlassero di quel sentimento, ma non riuscivo proprio a provare nulla di simile.
Capivo che la sua fosse una preoccupazione da sorella maggiore. Una sorta di senso di responsabilità, un “devo vegliare su di te, assicurarmi che sarai in grado di fare le scelte giuste, e che troverai qualcuno con cui trascorrere il resto della tua vita”.
La ringraziavo per tutto questo impegno, per quanto fosse vano. Quasi dieci anni insieme e lei neppure una volta mi aveva visto né innamorato né invaghito di qualcuno. Soltanto interessato per piccole cose, ma per il resto c'era stata completa apatia, e lei non se n’era mai fatta capace.
Mi aveva presentato così tante ragazze, alcune oggettivamente bellissime, ma a parte trattarle con gentilezza e rifiutarle al momento opportuno non riuscivo a fare di più. Non riuscivo ad apprezzarle davvero. C'era sempre qualcosa che mi disturbava e non capivo mai se provenisse da loro o da me, anche perché spesso si mescolava ad un inspiegabile senso di colpa. Mi convincevo che fosse il fatto che, seppure non volontariamente, le ferissi; ma sentivo che c’era qualcosa di più, una muta accusa priva di voce e parole che mi portavo dietro sin da bambino.
Forse, avevo anche paura. Paura del futuro, paura di quello che ne sarebbe stato di me e di un ipotetico ‘noi’.
Paura di essere preso in giro, di essere ingannato, pugnalato alle spalle e abbandonato. Paura di poter essere io stesso a farlo con la persona che avrei amato. Paura che tale ignominia, tale peccato, fosse intrecciato al mio DNA e non me ne sarei mai liberato. Paura di ferire e rimanere ferito.
Tali timori, uniti a quel senso di colpa opprimente, erano ciò che mi bloccavano.
Tutto derivava dalla scoperta del mio passato: dopo che mi fu rivelato che i miei genitori non fossero miei consanguinei - cosa che già sospettavo, quindi la presi abbastanza bene - cominciai ad indagare sulle mie vere origini.
Le ragioni per cui mi avevano mentito a riguardo erano le seguenti: avendo perso la memoria al momento dell'adozione, mio padre e mia madre preferirono evitare che subissi ulteriori danni dandomi notizie che avrebbero potuto rivelarsi traumatiche, anche a costo di riempirmi di false illusioni di felicità. Tamae se la prese più di me per quell'inganno, in realtà, mentre io, sebbene mi sentissi un tantino risentito, non ne feci un dramma. Piuttosto, cominciai a domandarmi sempre di più sul cosa avessi fatto in passato. Cosa ne era di me. Chi fossi davvero.
Quello che scoprii non fece che rievocare brutti ricordi che, con molta fatica, dovevo ammetterlo, ero riuscito a rigettare nel dimenticatoio. Talvolta sembravano voler tornare a galla, ma riuscivo a sopprimerli. Con un po’ di sforzo, riuscivo a respingerli, a fingere che non esistessero.
Non potevo accettarli, perché non sembrava esserci stato niente di bello nella mia vita.
La mia madre naturale mi aveva dato alla luce quando ancora era una ragazzina, dopo un rapporto finito male. Lui era stato arrestato per aver accoltellato un uomo, lei non sapeva più che fare e, non potendosi assumere da sola quel peso che rappresentavo, decise di gettarmi via.
E ancora oggi avevo il terrore che questa violenza, che questa perfidia, facessero parte di me. D'altronde, esse scorrevano nel mio sangue. Ma noi eravamo frutto di ciò che ci metteva al mondo o di ciò che ci cresceva nel mondo? In cuor mio, rispondevo e mi convincevo che la risposta giusta fosse la seconda. Così ci sarebbe stata speranza anche per un individuo non voluto, come me.
Fortunatamente fui trovato da un passante, il quale mi portò ad un orfanotrofio gestito dal signor Zinnia. Si diceva che fosse un uomo amorevole, giusto e corretto con tutti i bambini che accoglieva, cresceva ed educava, insieme a sua moglie. Pareva che avessero l'abitudine di chiamare i loro figli con nomi di fiori e da qui Kiku, ‘crisantemo’, che in America, dove ero cresciuto, portava con sé un nefasto messaggio di morte. Era una mera consolazione che fossi poi finito in Giappone, dove aveva un significato più positivo.
In ogni caso, di quell'orfanotrofio non v'erano più tracce. I proprietari erano morti in un incendio, così come anche molti dei bambini, mentre io fui uno dei pochi sopravvissuti. Dai documenti ufficiali delle indagini, scoprii che il fuoco s’era sviluppato dall'interno, partendo dal camino. Lessi che c’era la possibilità che non si fosse trattato di un incidente e un po’ considerando i miei natali, un po’ tenendo conto del fatto che io sembrassi essere in uno stato delirante dopo aver visto i miei genitori ardere vivi, e anche che, in quei pochi ricordi che si destarono, i bambini parevano rivolgermi tutti sguardi d'accusa, mi convinsi che fossi stato io il colpevole.
Secondo il resoconto di uno psicologo mi trovavo in uno stato alterato in cui non riuscivo più a distinguere la realtà dalla finzione, probabilmente come conseguenza del trauma vissuto; suggerì pertanto che venissi ricoverato per un certo periodo e poi, una volta che mi fossi sentito meglio, che cambiassi aria e fosse trovata per me una famiglia vera, che potesse farmi sentire realmente a casa.
Tutta quella fortuna, tutta quella felicità, tutto quell’affetto, io… li meritavo davvero?



 
■■■□■



Giunse finalmente il giorno in cui avrei conosciuto 2B. Ero intrepido di poterla incontrare sul serio, dal vivo. Talmente elevati erano i miei gradi di eccitazione che la notte prima non ero riuscito a chiudere occhio.
Eppure, nonostante non vedessi l'ora di trovarmi faccia a faccia con lei, di poterla finalmente guardare in viso a tu per tu, quella mattina finii col perdere tempo. Arrivai in realtà in anticipo, per cui mi tenni impegnato con la lettura di un testo di Tolstoj - ultimamente mi stavo avvicinando anche ad altre lingue, sperando di impararne il più possibile. Cosa che, in ogni caso, sembrava riuscirmi senza molta difficoltà. Purtroppo però, al solito, ero talmente concentrato da perdere la cognizione del tempo e fu una fortuna che, prevedendolo, avessi programmato una sveglia sul cellulare, per invogliarmi a darmi una mossa.
Così mi alzai in fretta, con una vaga sensazione di essere osservato, ma lasciai perdere, correndo verso il luogo d'incontro scelto dal polo didattico. Non volevo di certo far aspettare una ragazza, sarebbe stato poco cavalleresco da parte mia, e ci avrei fatto una figuraccia. Almeno il nostro primo incontro doveva essere ‘decente’.
D'altronde, 2B era una persona che ammiravo e rispettavo. Nonostante fosse sempre breve e concisa nelle sue interviste, ero colpito da quel suo essere diretta. Guardava sempre dritto nella telecamera, senza mostrare alcuna vergogna. Sembrava così sicura di sé, eppure non era presuntuosa e non si dava delle arie. Avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per vantarsi, vista la sua bravura, ma mostrava invece un'umiltà senza pari. Quando riceveva complimenti non rispondeva niente, talvolta accennava ad un “grazie”, e in quel suo modo di fare leggevo una timidezza che le impediva di essere totalmente spavalda. Non aveva un temperamento energico e pimpante, come le altre atlete. Lei era calma, silenziosa, pacata, e anche mentre lottava, per quanto fosse combattiva, non si faceva sfuggire nulla. La sua espressione restava impassibile, concentrata su quel che faceva, i suoi respiri erano controllati, i suoi movimenti erano puliti e leggiadri, simili a quelli di A2, e contemporaneamente completamente diversi. Perché nonostante sembrassero due gocce d'acqua c'era qualcosa in 2B: che fosse una sottile dolcezza nel suo sguardo, che fosse quella lieve malinconia mista a determinazione che bruciava in quelle iridi quasi trasparenti, che fosse la delicatezza con cui si poneva e muoveva, non sapevo dirlo. A2, semplicemente era più… più algida, più enigmatica, più aggressiva nel combattimento, più disinteressata. Neppure lei riuscivo bene a delinearla, ma qualcosa le mancava che potesse richiamare il mio interesse come invece riusciva a fare 2B. Forse, dipendeva anche dal fatto che avrei avuto l’occasione di parlarci, nella vita di tutti i giorni, e anche per un periodo lunghissimo.
Cominciai a sudare freddo, sperando di essere degno di quel ruolo. Di poterle tornare utile, di essere d'aiuto, di riuscire a supportarla, di renderle la vita all'estero più semplice, di farla sentire a suo agio, di riuscire a sostenerla in qualsiasi campo.
Mi aggiustai la borsa a tracolla, irrequieto, notando che ormai mancava poco. Spostai lo sguardo dalle nuvole al suolo, temporeggiando, finché con la coda dell'occhio non mi accorsi di una sagoma a poca distanza da me. Presi un respiro, internamente divertito dal fatto che non avesse fatto neppure il minimo rumore, quatta come un gatto, e mi voltai, mostrandomi cordiale.
Così, finalmente incontrai i suoi occhi, e mi sentii folgorato. Erano veramente chiarissimi, un miscuglio di un pallido celeste e glicine, un colore mai visto prima su nessuno. I suoi corti capelli avevano dei riflessi argentei, più brillanti di quanto apparissero in televisione; quello era un altro colore inconsueto, eppure, come i miei rari capelli tanto biondi da sembrare bianchi come la neve, sembravano naturali. Per la prima volta li portava sciolti, accompagnati unicamente da un frontino nero, per cui potei notare quanto le incorniciassero il viso in una maniera mozzafiato, impeccabile, adorabile, carezzandole quei tratti che, improvvisamente, divennero più morbidi e gentili di quanto ricordassi dall'immagine che ne avevo indirettamente visto.
Per un attimo ad essa si frappose una visione di lei più piccola, che mi lasciò spaesato. Sbattei le palpebre, sentendomele pizzicare, con un'inspiegabile nostalgia che quanto più la guardavo tanto più si acuiva.
Mi accorsi, intanto, che il suo sguardo sembrava un misto di incredulità e shock, come se avesse appena visto un fantasma, oppure una persona che cercava da tempo. Sgranò occhi e labbra, e mi parve di vedere persino delle lacrime bagnarle le iridi.
Per quanto la sua reazione mi sembrasse incomprensibile, dentro di me una qualche corda si tese. Per la prima volta, alla presenza di qualcuno, i miei battiti cardiaci accelerarono. Per la prima volta il sangue mi confluì alle guance, facendomi arrossire. Forse dipendeva dal modo in cui mi guardava, come se ci credesse e non ci credesse, come se volesse gettarsi tra le mie braccia e se lo avesse davvero fatto, per una ragione che andava ben oltre la mia stessa ragione, l'avrei accolta volentieri e non l'avrei più lasciata.
Mi resi conto, tuttavia, che a parte fissarci ed essere investiti entrambi da assurde emozioni non ci eravamo ancora scambiati neppure una parola, per cui mi schiarii la gola prima di rivolgermi a lei in inglese, dedicandole un sorriso che sembrava nascermi direttamente da quel cuore impazzito.
“Ciao! Come avrai immaginato, sono lo studente che ti è stato assegnato come tutor per quest’anno. Mi chiamo Kiku, ma gli amici mi chiamano Nines, quindi puoi farlo anche tu.”
“Nine...z” sussurrò con un filo di voce, suscitandomi una minuscola risata per come suonava. Nessuno lo aveva mai pronunciato a quel modo, eppure anche in esso trovai un vago senso di familiarità.
“Va bene anche Ninez.”
In realtà non avevo idea delle origini di quello strano soprannome, del chi me lo avesse affibbiato e per quale ragione lo avesse fatto. Ciononostante, mi veniva automatico pronunciare quella frase, ogni volta che mi presentavo a qualcuno.
“È un piacere conoscerti, Erika-san” ripresi, prendendola in giro senza che neppure me ne accorgessi. “O preferisci che ti chiami 2B-san?”
Mi stupii di me stesso: la stavo punzecchiando, stavo ammiccando e, così facendo, era come se stessi flirtando con lei. Cosa che non avevo mai fatto con nessuno prima.
Lei tuttavia, non ne parve per niente scalfita. Fece qualche passo in avanti, giungendomi perfettamente di fronte, e in tal modo mi accorsi che mi superava di poco in altezza.
Fu poi lei a sorprendermi, replicando “Per te sono 2B, solo 2B” prima di prendere il mio viso tra le mani e posare le labbra sulle mie, lasciandomi senza fiato, in preda ad un batticuore che temevo potesse farmi esplodere da un momento all'altro.
Pensai che in quell'istante lei avesse rubato tutto di me, ma in effetti, lei aveva rubato tutto di me già al nostro primo vero incontro.










 
Angolino autrice:
Buonasera! Era da un po' che volevo aggiornare, ma non ho mai trovato tempo. *gonfia le guance* Ciononostante oggi me lo sono ritagliata apposta, anche perché è il 22/09. Poteva esserci data migliore per pubblicare?
Su questo day avrei così tanto da dire, ma mi limiterò alle informazioni principali. Prima di tutto devo avvisarvi che è diviso in tre parti, quindi se volete sapere come finisce questa storia dovete portare pazienza e sperare che riesca ad aggiungere gli altri due capitoli quanto prima. Tuttavia, sappiate che non è necessario e se volete potete anche ignorare o saltare i prossimi due - solo che così facendo vi perdete alcune spiegazioni e chiarimenti.
Per quanto riguarda la trama e l'ambientazione, ho cercato di essere abbastanza fedele all'opera originaria (nella scelta dei luoghi, i Paesi in cui hanno vissuto, le lingue che parlano, le esperienze, le scelte lavorative, gli studi, gli hobby e così via). Ciò vale anche per i nomi: naturalmente quello di Zinnia è rimasto tale e, come sarà palese, Mme. White è il Comandante. Credo sia chiaro il fatto che ho preso tantissimo dallo script "Project YoRHa", tra cui i nomi dei fiori (Erika, Iris - da leggere alla inglese, "airis" - e Kiku) e l'incendio. I nomi del gioco li ho lasciati attraverso degli escamotage (successivamente capirete anche il perché di Ninez) e voglio condividere con voi una mia piccola intenzione, con l'ultima dichiarazione di 2B: pensandola in inglese, sarebbe "For you I'm 2B, just 2B". Quel "Just to be", "solo essere", è piuttosto importante.
Poi, altri nomi che appaiono sono Sybil (6O) e Tamae (21O). Ammetto che volevo inserire più personaggi (Pod compresi), ma poi non sarei più riuscita a risolverla solo in tre capitoli.... Sappiate però che proprio perché è una storia molto ampia, ci sono un po' tutti. E voi che leggete siete liberi di immaginare quello che desiderate. 
Detto ciò, spero che questa AU vi piaccia :3 
Au revoir!
  
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