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Autore: Ellie_x3    23/09/2019    2 recensioni
“Oh, qualcuno qui è stupido~?”
“Hah!? Chi stai chiamando stupido?!”
“Non è colpa di chibikko, dopotutto non c’è tanto spazio per i neuroni in una testa così piccola...”
Chuuya trattenne il respiro.
“...E poi tutti sanno che le baby gang non sono particolarmente intelligenti!”

[5+1 Volte in cui Dazai ha deluso Chuuya, e una in cui (incredibilmente) ha superato le aspettative; Questa storia partecipa alla Teen! Challenge indetta sul gruppo facebook Il Giardino di Efp]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chuuya Nakahara, Michizou Tachihara, Osamu Dazai
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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Fumare di nascosto



 

Chuuya aveva fumato la sua ultima sigaretta su una panchina spazzata dal vento sulle rive della Senna, la testa gettata all’indietro per guardare il cielo e i raggi di un sole morente che gli ferivano gli occhi, un riflesso aranciato che si perdeva nelle onde del fiume.
Michizou doveva essere arrivato in aeroporto da poco, pronto a partire per tornare a casa dopo un mese — scortato da Kouyou-nee, che era stata così gentile da accompagnare il "nuovo" ragazzo di Chuuya lungo il tragitto, dato che entrambi dovevano tornare in Giappone con la fine delle vacanze estive. 
Tornare.
Dopo tutto questo tempo, hm?

Quella sera, sulle rive del fiume con l’odore del primo autunno nella testa e il chiacchiericcio dei turisti nelle orecchie, Chuuya aveva abbracciato il potere calmante della nicotina per occupare il vuoto lasciato da Michizou, lo spiraglio di vita che gli aveva ricordato e che entrambi non sapevano come riallacciare al loro presente. Doveva essere apparso più stanco ed irritabile del solito, forse (probabilmente) era dovuto al fatto che Arthur avesse accettato di tornare alla sua vecchia cattedra di letteratura occidentale all'università Nazionale di Yokohama, ma aveva la sensazione che l’odore del fumo impregnasse i vestiti, l’aria, la città intera.
Il pacchetto successivo che Chuuya comprò fu in aeroporto.


“Dunque è vero, chibikko è tornato.”
Prendendo una boccata di fumo, Chuuya si preparò mentalmente alla sfortuna di avere di nuovo a che fare con la persona peggiore che conoscesse. Non lo sorprese che un Atsushi-kun cresciuto di una mezza testa rispetto a quasi due anni prima tallonasse Dazai, che invece lo fissava con le mani affondate nelle tasche dell’uniforme blu scuro -- la stessa che lui stesso non aveva ancora avuto modo di procurarsi, costringendolo ad utilizzare l'uniforme dell'istituto privato che aveva frequentato fino a pochi mesi prima. Chuuya gli scoccò un’occhiata laterale.
“Hm. Vedo che sei la solita macchina spreca bende, Dazai. Nakajima.”
“Se Kunikida ti vedesse avrebbe un infarto,” mormorò Dazai, chinando il capo e ignorando il commento.
Chuuya sogghignó, la sigaretta che bruciava tra indice e medio. Shirase non gli parlava più e Yuan si era trasferita, ma certe cose in quell’inferno di complesso scolastico non cambiavano mai: Kunikida-senpai aveva ereditato la poltrona di presidente del consiglio studentesco lasciata vacante da Ango l’anno prima, una dittatura consolidata negli anni e giunta finalmente al termine.
“Per la sigaretta?”
“E per i pantaloni e la divisa,” lo corresse Dazai, lanciando uno sguardo alla parte di divisa che Chuuya non aveva avuto modo di cambiare. Il tartan verde dei pantaloni ed il rosso della giacca spiccavano in mezzo al blu delle altre divise. Paul aveva quasi pianto dalla gioia, “vedo che trasferirti non ha aiutato il tuo senso della moda.”
Senza rispondere, Chuuya aveva fissato Dazai per un lungo momento.
Quasi due anni.

La tua cotta per me stava diventando imbarazzante.

Stringendo i pugni, il ragazzo si obbligò a sorridere come se non gli importasse e guardare altrove — qualunque cosa era meno pericolosa del vuoto dipinto sul volto del ragazzo che aveva conosciuto. Era rimasta la stessa pietosa imitazione di spensieratezza dove Chuuya distingueva una mancanza d'emozione a cui non sapeva ancora dare nome: una punta dell’essere umano stanco e vuoto che Dazai pretendeva di non essere, ed era una mancanza che Chuuya aveva sperato di veder colmata al suo ritorno.
Anche se fosse stata preoccupazione quella che gli bloccava la gola, comunque, aveva la sensazione che non sarebbe stata apprezzata.
Fu Atsushi a rompere il silenzio con un sorriso incoraggiante. Il tentativo di raffreddare gli spiriti più maldestro che Chuuya avesse mai visto, ma il modo in cui Dazai guardava il ragazzo lo costrinse a fermarsi; ah, pensò, si è fatto degli amici finalmente.
“Chuuya-san, in che classe sei?”
“Hm? La stessa di Tanizaki-kun e sua sorella, a quanto pare. Sarà un’esperienza.”
Atsushi ridacchiò, grattandosi la nuca; l’imbarazzo era visibile sul suo volto come attraverso il cristallo, e anche quello non era mai cambiato.
“Di sicuro.”
“Non ti preoccupare, Atsushi-kun, credo che gli anticorpi di chibi contro le stranezze di Naomi siano ancora quelli di un tempo.”
Proprio malgrado Chuuya sorrise, liberando una boccata di fumo verso il cielo.
“Grazie di esserti preoccupato, Nakajima-kun, è bello essere tornati a casa,” rispose.


- - -

 

Molte cose erano cambiate.
Chuuya era venuto a sapere che Oda-sensei aveva adottato i fratelli Akutagawa, invitandoli a dormire sotto il suo tetto come tutore legale nel momento in cui aveva scoperto che i ragazzi avevano incontrato una serie di difficoltà a trovare una soluzione stabile. Si era persino occupato di Atsushi, assicurandosi che trovasse una buona sistemazione nel dormitorio maschile.
“Aah?! Ha adottato Ryūnosuke? Ma può farlo?” aveva chiesto Chuuya, sbattendo una mano sul banco per la sorpresa.
“In teoria no,” era stata la replica di Tanizaki, intrecciando le braccia dietro la testa e stiracchiandosi; a volte ricordava un gatto, un timido gatto rosso costantemente tallonato da quella pantera di sua sorella, “ma dovrebbe essere tutto okay finché Akutagawa-kun e gli altri sono ancora alle medie.”
“O l’anno prossimo finiranno semplicemente in una classe dove Oda-sensei non insegna,” aveva aggiunto Tachihara, con il capo posato fra le braccia conserte ed il pranzo ancora aperto abbandonato sul banco.
“Comunque, non credo che possa semplicemente prenderli e portarseli a casa.”
“Non sono randagi, sono persone.”
“E chissene importa, Oda-Sensei è così figo,” li interruppe Lucy. Nonostante fosse piacevole non essere l’unico sangue misto nella complesso scolastico, Chuuya si ritrovava in preda all’istinto di sollevare il sopracciglio la maggior parte delle volte che Lucy Maud Montgomery-chan, secondo anno, iniziava a parlare.
“Trovi?” le fece eco Naomi, dal fianco di suo fratello.
“Ma l’hai visto!?”
Lucy aveva gli occhi rivolti al cielo e le mani giunte. Un secondo dopo, Tanizaki si abbassò appena in tempo per evitare di essere colpito in piena faccia dal gesticolare appassionato della ragazza.
Paura, pensò Chuuya. Le fan di Oda facevano davvero paura.
“Oi, stai sempre parlando di un professore.” commentó, sentendo il sopracciglio incurvarsi.
Non che si aspettasse di essere ascoltato.
“Si prende cura degli orfani ed è super intelligente, è il miglior docente di letteratura della prefettura e poi non vi dá l’impressione di essere quel tipo d’uomo che sa prendersi cura di una donna?”
Tachihara si drizzó sul banco, gli occhi sgranati e la mascella a terra. Chuuya gli batte una pacca sulla spalla: credeva di aver visto la maggior parte delle stranezze a Parigi, ma le ragazze americane erano davvero su un altro livello.
“Lucy-chan!”
“Neh, neh, Montgomery-chan,” l’aveva interrotta Dazai, la voce priva di qualsiasi reale interessamento, “è sempre di Odasaku che stai parlando, non credo sarebbe in grado di occuparsi di una pianta di plastica.”
“Oi, Dazai, tornatene nella tua classe!”
Stiracchiandosi come un grosso felino sul banco di Tanizaki, Dazai si prese tutto il tempo di sbadigliare prima di rispondere. Idiota.
“Che ingiustizia. Chibi non ha detto a Tachihara-kun di tornare nella sua classe, no?”
“Perchè a differenza sua nessuno ti ha invitato!” sbottò Chuuya, aggrottando la fronte, “è la giornata peggiore della settimana, quella in cui vedo la tua faccia persino nel tempo libero.”
“Non che io sia felice di vederti, Chuu~ya.”
“Dazai-senpai, tu e Oda-Sensei siete amici, non è così?” domandò Lucy, puntandogli l’indice ad un centimetro dal naso con gli occhi che scintillavano come stelle. Sembrava una guerriera in un poster propagandistico, e Chuuya rabbrividì.
La sua ira era temibile, ma aveva la sensazione che averla come ammiratrice non fosse poi tanto diverso. Dazai annuì, un sommesso “hm” che gli sfuggí dalle labbra come se non vedesse nulla di speciale nell’amicizia con un professore: doveva aver previsto che Lucy lo avrebbe  tempestato di domande, prima o poi, eppure non pareva interessato a rispondere a nessuna di esse nè a darle alcuna soddisfazione.
Sempre il solito bastardo, pensò Chuuya, lasciandosi crollare sul banco e atterrando con il capo sul braccio di Tachihara con un flop leggero.
Aveva bisogno di una sigaretta.
Nel momento in cui si scusò, sgattaiolando in un angolo di buio del giardino dove avrebbe potuto starsene in pace senza paura che Kunikida-senpai lo sorprendesse a fumare e lo costringesse a gettare l’intero pacchetto, Chuuya sapeva già che qualcuno l’avrebbe seguito.
Sperava fosse Michizou, ma doveva immaginare che Dazai sarebbe stato più veloce: la macchina spreca bende era sempre lì pronta ad infastidirlo e Chuuya aveva fatto in tempo a malapena ad aspirare la prima boccata di fumo che il silenzio del cortile era stato interrotto dal suono di passi alle sue spalle. Le scarpe da interno che scricchiolavano sul ghiaino, l’eco delle voci nell’edificio, il suono del suo respiro mentre soffiava una boccata di fumo.

Non è davvero cambiato nulla.

Senza guardarsi indietro, schiavo della memoria meccanica che gli suggeriva già l’altezza e l’angolazione che avrebbe dovuto prendere, Chuuya sollevó il braccio che sorreggeva la sigaretta.
Non lo sorprese il fruscio degli abiti, il peso quasi irrespirabile del corpo che si piegava ad un soffio dalla sua schiena, il colletto del suo ex-migliore amico che gli sfiorava la spalla mentre si chinava per prendere la sigaretta fra le labbra e inspirare una boccata di fumo.
“Bastardo, comprati le tue la prossima volta.”
Una risata leggera; poteva sentirla vibrare alle spalle, un movimento d’aria fra le sue scapole mentre il respiro di Dazai gli sfiorava la mano.
“Chuuya è rimasto un teppistello, nee~”
“Solo perché non voglio farti da balia, macchina spreca bende,” brontoló, chiudendo gli occhi con un sospiro.
Anche alle medie Dazai non si era mai disturbato a comprarsi il proprio pacchetto e Chuuya sospettava che fumare non gli portasse alcun piacere al di fuori della possibilità di interromperlo. Per un momento, considerò la posizione in cui erano: piegato su di lui — sulla sigaretta fumante, su quel piccolo, stupido oggetto — e con entrambe le mani nelle tasche, Dazai restava in completa balia di quello che Chuuya voleva concedergli. Eppure, aveva la sensazione che fosse il contrario, e che Dazai lo stesse fissando con i quei suoi occhi vitrei.
Si scrolló di dosso il brivido che gli era corso lungo la schiena, abbassando la sigaretta per prendere un tiro a propria volta ed ignorando l’improvvisa tensione che aveva reso ogni gesto più rigido. La prima volta che avevano condiviso una bottiglia avevano quattordici anni, poco dopo l’inizio delle lezioni; a quindici era stata una sigaretta.
Poi avevano smesso di condividere qualunque cosa per anni ed era ridicolo che fosse così naturale, così semplice, percepire il fruscio alle proprie spalle e alzare il braccio istintivamente, capirsi ancora senza parlare.
“Mi era mancato infastidire chibi.”
Chuuya strinse le labbra.
“Non dire puttanate, kuso Dazai.”

- - -

 

“Chuu~ya! Non sai che non si dovrebbe bere alla tua età?”
Duh. È arrivata la polizia del vino,” sbottó l'interessato, facendo roteare il liquido nel bicchiere come aveva fatto mille volte prima di ingollarlo in un solo sorso e infilarsi una mano in tasca con una smorfia. Ne estrasse un pacchetto vuoto, con puro disappunto dipinto su ogni minuscola linea della fronte aggrottata.
“Michizooou, ho finito le sigarette!”
Tachihara, accanto a Dazai, prese un respiro passandosi una mano sul volto.
“Ho visto, ho visto,” mormorò “dovevi smettere di fumare, Chuuya.”
Il ragazzo fece schioccare la lingua con disappunto e posò il bicchiere, dita leggermente tremanti che scivolavano sul vetro del calice.
“Bah.”
“Chi ti ha fatto entrare? Non dovresti nemmeno poter bere.”
“Ho i miei metodi,” rispose, sobbalzando come se il suono strascicato delle sue stesse parole lo colpisse.
“Sei ubriaco.”
“Non dire stupidaggini.”
Chuuya strinse il pacchetto vuoto nel pugno come se potesse esplodere e farne apparire magicamente uno nuovo. Quando lanciò l’oggetto verso di loro e barcollò come un pupazzo a molla, così esile eppure appesantito dall’alcool, Dazai temette che stesse per cadere dallo sgabello. Tuttavia, prima di poter tendere troppo in avanti e cadere, il ragazzo si aggrappò ciecamente al legno del bancone.
Peccato.
Tachihara non sembrava della stessa idea, perchè sospirò nuovamente.
“Ver-San vorrà la mia testa,” commentó fra sè e sè, spostandosi per primo per raggiungere Chuuya mentre Dazai si stava ancora chiedendo se non fosse un’idea migliore lasciare la lumaca ubriaca al proprio destino. Sorpreso, cercó lo sguardo di Tachihara.
Poteva sentire la malizia sulla punta della propria lingua quando chiese:
“Ver-San?”
“Verlaine-San.” Tachihara inarcó un sopracciglio, “il padre di Chuuya?”
“Non dire quel nome mentre sono ubriaco, che schifo, ora avró la sensazione che il vecchio possa arrivare da un momento all’altro, ew,” Replicò l’altro con forza, agitando un pugno in aria e allungandosi per assestare una leggera spinta a Tachihara.
Dazai si chiese se fosse cosciente che il poveraccio era lì per afferrarlo al volo prima che chibi, in tutto il suo metro e sessanta di mancata grazia e senso della moda, crollasse da uno sgabello e si sfracellasse a terra come una frittata troppo cresciuta. Gamberetto idiota. 
Per un momento, tuttavia, faticò a registrare le braccia di Tachihara che avvolgevano Chuuya, il modo in cui il ragazzo si era rilassato e adagiato contro il suo petto. Una sensazione pungente gli pizzicò il dorso delle mani, e si rese conto d'essere passato in secondo piano: era lì ma non lo era, e non avrebbe voluto essere in quel bar in quel momento, non quando la consapevolezza di ciò che stava accadendo lo colpì come uno schiaffo.
“Maledizione, voi passare di nuovo dei guai?”
“Hm, ma credevo che potessimo bere insieme, Mi-chi-zou!”
“Io non posso bere, ancora,” ricordó, alzando gli occhi al cielo. C’era una certa indulgenza, un’intimità che fece sentire Dazai un intruso in un bar, uno spettatore non voluto in un luogo pubblico.
Chuuya ridacchió, puntellando il capo contro lo sterno di Tachihara e cercando di guardarlo in viso.
“È questo il bello.”
“Chuuya-kun—”
“Michizou,” gli occhi di Chuuya scintillarono, illuminati dalle luci del locale e umidi a causa dell’ebrezza. Dazai deglutì, rendendosi conto che era difficile guardarli, “Ero in una gang e ti preoccupi del vino e delle sigarette?”
Con quel commento, pronunciato con una voce che il ragazzo non aveva mai sentito prima, roca ed onesta come un segreto, come se il mondo intero avesse abbassato il sipario su di loro e Dazai stesse ancora osservando qualcosa di non destinato ad occhi indiscreti — chi sei? Cosa ne hai fatto di Chuuya? — Chuuya aveva afferrato una delle mani di Tachihara, intrecciando le loro dita con la scioltezza di chi l’ha fatto mille volte. Quando si portò quella stessa mano alle labbra, sfiorandone il dorso, Dazai sentí un peso gelido alla bocca dello stomaco.
Battè le palpebre, incapace di fare altro. Erano rare le volte in cui lo stupore ingrandiva i suoi occhi e lo obbligava a socchiudere le labbra, perdendo per un istante la presa sulla propria maschera. L’autocontrollo che crollava a terra, si infrangeva con un rumore sordo.
“Ah?”
“Chuuya-kun?” Tachihara gli lanciò uno sguardo, gli occhi stretti in un sorrisetto che sembrava trattenere il bisogno di sparire per la vergogna “mi spiace per lo spettacolo, Dazai-kun.”
“HAH?! Non ti scusare, Michizou! L’avrebbe saputo, se un certo Mackerel puzzolente avesse risposto almeno ad uno dei miei messaggi,” ringhiò Chuuya, a denti stretti, prima di ruggire “STUPIDO MACKEREL!” 

 

Stupido davvero.
E cosa, ora, Dazai aveva il diritto di stupirsi perché non parlavano? Perchè non avevano mai parlato?
Ricordava forse un solo momento in cui Chuuya l’aveva trattato come se fosse qualcosa di diverso— qualcosa di speciale? No. Naturalmente no.
Perché Chuuya ovviamente non aveva mai pensato che Dazai fosse serio quando l’accusava con il sorriso sulle labbra di avere un cotta per lui, nonostante fosse una delle poche cose che Dazai aveva reputato immutabili fra di loro. Non gli aveva mai detto nulla e Dazai non aveva mai chiesto, ed ora aveva la sensazione di essersi lasciato scivolare qualcosa fra le dita, ma non avrebbe saputo dire cosa.
Era troppo tardi, in ogni caso.

 

- - -

 

To: Mackerel

Oi, kuso Dazai.

 

Il cellulare si illuminó pochi secondi dopo, costringendolo a battere le palpebre. Chuuya inaló una boccata di fumo.
Ah, si formò nella sua mente, incerto se permettersi di considerarlo un buon segno o un ridicolo tentativo della vita di farlo cadere nelle vecchie abitudini. L’unica cosa di cui era sicuro era che, dopo una lunga fila di messaggi blu che mai avevano ricevuto risposta, che lo fissavano ricordandogli quanto idiota potesse essere, quello era un bel cambiamento. Passando il peso da un piede all’altro, sentendo l’aria tiepida della primavera sfiorargli le gambe e le braccia nude, il ragazzo soppesó le possibilità di finire all’inferno, fra gli insensibili e i traditori, ma troppo codardi per agire. Un bicchiere di vino, una scopata, una sigaretta o due o mille, un messaggio: era fenomenale la lista di cose che un diciottenne non avrebbe dovuto fare e di fronte alle quali Chuuya non riusciva a fermarsi.
Non riusciva mai a frenarsi.
Espiró, lentamente, liberando una nuvoletta grigia nel cielo di Yokohama.

 

From: Mackerel
Cosa.

 

Chuuya si lanciò un’occhiata alle spalle, al letto immerso nell’azzurro e al corpo mal illuminato dalla luce dei lampioni che filtrava dalle finestre. Il suono del respirare profondo e regolare di Michizou lo avvolse, insieme alla coscienza di avere la sveglia puntata ben prima di scuola per riuscire a farlo sgattaiolare fuori dal retro prima che i suoi genitori si accorgessero che il suo ragazzo passava la notte sotto il loro tetto a loro insaputa e senza permesso. Non che l’avrebbero impedito — non ne era certo — ma Chuuya era stanco. Era stanco di vivere secondo le aspettative altrui; non voleva che Arthur si sentisse in qualche modo responsabile di averlo influenzato, perché sapeva che sarebbe accaduto, e non aveva alcuna intenzione di fermare Paul dal minacciare Michizou di strappargli gli occhi con una stilografica se l’avesse mai fatto soffrire.
Non voleva avere quella conversazione, sedersi sul divano e lasciare che un fiume di parole gli si riversasse addosso.

Capiamo, Chuuya. Lo sappiamo, ci siamo passati anche noi e siamo qui per te, se lo vorrai. 
Ti capiamo.

Ma non avrebbero capito — perché come potevano? Se avessero saputo che quello che era non aveva niente a che fare con loro e con il modo meraviglioso in cui l’avevano cresciuto, li avrebbe delusi? L’avevano educato bene e lui cos’era diventato? Nakahara il teppista, Nakahara che aveva lasciato la Pecora, quello che aveva trovato il coraggio di baciare Michizou solo dopo in quinto bicchiere di vino, solo quando aveva chiuso gli occhi, solo quando era riuscito a far smettere al suo cervello di lanciargli immagini di bende e sakè ed un sogghigno familiare che lo derideva.
Ah, ma che idiota era. Cosa c’era da capire?
Era un fottuto masochista, ecco cosa. Per una qualche ragione, Nakahara Chuuya amava così tanto soffrire da non rimpiangere nemmeno il giorno in cui si era reso conto di essersi innamorato e che non sarebbe finita bene.
Cosa ne sapevano i suoi genitori?
Dunque, era diventato piuttosto bravo a rimangiarsi i gemiti e a scassinare le serrature e a convincere Michizou che prima o poi sarebbe riuscito a rimanere per colazione, ma che non era quello il giorno. Chuuya non l’avrebbe mai fatto, prima, ma Parigi gli aveva insegnato che era infinitamente più divertente sfidare la società piuttosto che obbedire come un cane.
Le sigarette che aveva rubato dietro il bancone del bar in cui Michizou e Dazai l'avevano recuperato erano senza filtro, gli facevano girare la testa e riempivano i polmoni di un sapore acre ma familiare.
‘Cosa.’
Che messaggio di merda; che persona orribile.
Con un sospiro, Chuuya chiuse il telefono senza rispondere e schiacciò la sigaretta sulla plastica impolverata della cornice della finestra, bianco che si macchiava di cenere nera. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto spegnerla sulla propria mano, sentire l’odore di bruciato pungerlo e il dolore prenderlo a schiaffi e rimettere a posto le idee. Avrebbe dovuto farlo per espiare, per scacciare i pensieri che avevano ricominciato a tormentarlo, ma scosse le spalle e si obbligò a smaltire la sbornia e tornare a dormire prima di poter fare qualcosa di cui si sarebbe pentito.

 
   
 
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