Immagine dal film “L’amore oltre la
guerra”
Dal capitolo 6:
Campo di Fossoli, 16 febbraio 1944
L’ufficio di Hermann affacciava proprio
sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il cappotto rosso e, dalla
sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini: l’età della ragazzina era,
sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni e, dai modi, sembrava essere
di buona famiglia; la mattina usciva dalla baracca, raccoglieva i capelli in
uno chignon scarmigliato e si sbracciava le maniche del vestito color marrone
chiaro, per aiutare le donne nelle faccende domestiche; parlava poco,
limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo pranzo usciva di nuovo, con
i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto rosso e, ferma sull’uscio della
baracca con le braccia incrociate, per una buona mezz’ora, teneva d’occhio i
bambini mentre giocavano. Ed era questo il momento in cui Hermann si soffermava
a guardarla, lasciando che i pensieri spaziassero in fantasie nella cascata dei
suoi lunghi capelli e nella generosità delle sue forme, nell’espressione triste
e impaurita di due occhi sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo
inseguivano la notte fino a degenerare in desiderio smanioso di averla.
“Agli ordini, signor tenente!” Scattò
sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.
“Nell’ultimo convoglio, qualche giorno fa,
è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di bambini”, disse
Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e portandosi davanti
alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”
E, quella sera stessa, la ragazza era al centro
della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa, tremante, in una divisa da
cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga ciocca che le copriva mezzo
volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann entrò, a passo lento e
autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.
Capitolo
14
Un
dono della Provvidenza
“Pensare che
separati da treni e da nazioni tu e io dovevamo semplicemente amarci, confusi
con tutti, con uomini e con donne, con la terra che pianta ed educa i
garofani.”
Pablo Neruda
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
16
febbraio 1944
La vita a Fossoli procedeva decisamente meglio di quanto Sarah avesse immaginato, in una tranquillità spezzata soltanto da voci, provenienti soprattutto dal Campo Vecchio, dov’era stato portato don Franco, che presagivano un trasferimento in Germania. Ma lei, nonostante ne avesse paura, stentava a crederci: perché farli attendere lì e non deportarli subito? Non avrebbe avuto alcun senso.
Il
cibo scarseggiava ma questa mancanza veniva sopperita dal buon cuore degli
abitanti delle zone circostanti che, con grande coraggio, riuscivano a far
entrare nel campo anche medicine e capi di vestiario.
In
una moltitudine di dialetti italiani e stili di vita diversi, tra i prigionieri
vi era una forma di solidarietà e sostegno reciproco che, al cuore di Sarah,
infondeva pace e una certa sicurezza. Maria, una donna sulla quarantina, che
condivideva la sua stessa baracca, le aveva regalato un paio di calze nuove.
Proveniva
da Bologna e, sposata con un pianista ebreo, aveva seguito la stessa sorte del
marito. I due non avevano figli – o forse, più semplicemente, non ne parlavano
poiché nascosti in qualche rifugio segreto –, eppure in loro traspariva un
particolare istinto materno e paterno verso i bambini della baracca e verso di
lei. Nei loro occhi brillava un sentimento di bontà incondizionata. Al suo
arrivo, Maria, con delicatezza di madre, le aveva medicato il ginocchio
sbucciato per la caduta, aiutandola anche a pulire il cappotto dalle macchie di
fango. In quella baracca, Sarah aveva ritrovato un po’ di calore familiare.
Seppur
temuta, la presenza dei tedeschi non era poi così ingombrante e non troppo
pesanti erano le mansioni da svolgere. Sarah aiutava le altre donne della
baracca nelle faccende domestiche e, a volte, riusciva addirittura a sorridere.
Anche i bambini, con i quali era arrivata a Fossoli, insieme a don Franco,
sembravano più sereni, fuori dal buio di una canonica, liberi – per modo di
dire – di giocare con i loro coetanei, sotto un generoso sole pomeridiano.
Guardandoli,
si strinse di più nel cappotto, nel ricordo di suo fratello, dei loro giochi da
piccoli, delle loro chiacchierate poi da grandi, domandandosi dove lo avesse
condotto la Resistenza e se fosse ancora vivo. Le mancava la sua famiglia. D’un
tratto, si sentì osservata, in una sensazione sempre più pressante: forse erano
gli occhi vigili dei soldati armati sulle torrette, ma non osò sollevare la
testa e, con espressione impaurita, scossa, continuò a guardare i bambini
rincorrersi e giocare.
Sarah
stava pettinando i capelli alla ragazzina più grande del suo gruppo di bambini,
quella che aveva urlato in soffitta all’arrivo dei tedeschi. Si chiamava Agnese
e i suoi capelli erano castani, riccissimi.
“Ahi!”
si lamentava la piccola di tanto in tanto, a causa dei nodi.
“Shh”,
la rassicurava Sarah, cercando di fare più piano, “abbiamo quasi finito.”
Quando,
all’improvviso, entrò nella baracca un soldato delle SS, spalancando con
violenza la porta che sbatté alla parete e urlando il suo nome: “Bonanni
Sarah!”
Sarah
scattò in piedi, lasciando cadere la spazzola sul letto dov’era seduta con
Agnese e divenendo come di pietra. Il sangue le si gelò nelle vene, mentre la voce
del soldato arrivava alle sue orecchie come un rumore lontano. Di quel
discorso, scandito aspramente in un italiano stentato e intervallato da parole
in tedesco, per lei già incomprensibili, riuscì soltanto a capire che il
tenente Von Wildenberg Hermann, al comando del Campo Nuovo, l’aveva convocata
per quella sera stessa. Perché? Cosa aveva mai fatto? Voleva piangere, sparire,
tornare a casa sua. Come un lampo, le passò davanti agli occhi l’immagine del
suo capitombolo all’arrivo a Fossoli, del fango schizzato a causa delle sue
mani sprofondate nel terreno e tremò di paura al pensiero che il tenente
volesse posticipatamente fargliela pagare per avergli macchiato i suoi begli
stivali lucidi, o per aver avuto poi l’ardire di incrociare il suo sguardo.
Cosa le avrebbe fatto?
Quando
il soldato andò via, Maria le si avvicinò e, ponendole una mano sulla spalla,
le chiese dolce e apprensiva: “Sarah, cara, hai capito cosa ti ha detto?”
Sarah,
ancora immobile e confusa, dissentì debolmente con la testa, senza neanche
guardarla, e la donna proseguì: “Il comandante del campo ti vuole a servizio
come cameriera.”
Sarah
si tranquillizzò un po’, ma non emise alcun sospiro di sollievo.
Perché
il tenente aveva scelto proprio lei e non una donna come Maria, oppure una
delle tante giovani staffette partigiane nelle cui vene non scorreva neanche
una goccia di sangue ebreo? Sarah indossò la divisa da cameriera – che una
donna sulla cinquantina, forse una cuoca, dai tratti del viso severi e
spigolosi, le aveva consegnato – e, aggiustandosi una calza, un pensiero brutto
affiorò nella sua mente. Ma subito lo mandò via, al ricordo delle leggi
razziali: il tenente non avrebbe mai potuto approfittare di lei.
“Io
non voglio andarci”, sussurrò, accennando un broncio quasi da bambina.
Sarah
aveva ugualmente paura di presentarsi a quell’ufficiale tedesco.
“Sarah,
io non credo che questo sia un invito. E non credo che tu abbia molta
possibilità di scelta”, le disse Maria con tono serio, aiutandola a sistemare
una ciocca di capelli che non voleva proprio saperne di stare ordinata nello
chignon. “Non avere paura. Ho sentito dire che le cameriere godono di svariati
privilegi. L’inverno è lungo, Sarah. E, oltretutto, hai sentito anche tu quelle
voci che parlano di un possibile trasferimento in Germania. Lavorare come
cameriera ti garantirebbe la permanenza qui.”
Poco
lontano, seduto su una sedia, vide il marito di Maria lanciare verso di loro
uno sguardo strano, che non gli aveva mai visto prima, tanto eloquente quanto
indecifrabile, in un misto di preoccupazione e biasimo, di compassione e
nervoso, il cui significato lo avrebbe compreso solo in seguito.
“Perché
proprio io?” replicò Sarah ancora spaesata, intimorita e con le lacrime agli
occhi.
“Consideralo
un dono della Provvidenza”, fece la donna con un’espressione rassicurante e,
con un mezzo sorriso, le sistemò la ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Coraggio.
E mi raccomando”, continuò più seria e apprensiva, “occhi bassi e parla solo se
interrogata.”
Sarah
annuì, ma non era per nulla risollevata.
Di
sera, l’atmosfera al campo era tetra e spettrale, quasi inquietante, in
quell’oscurità illuminata soltanto dalla luce gialla di pochi lampioni e delle
torrette di sorveglianza. Una folata di vento le percosse il viso, facendo
sfuggire altri capelli dallo chignon, mentre il suo passaggio richiamava
l’attenzione di un gruppetto di soldati della Guardia nazionale repubblicana,
al di là del filo spinato, nella zona che divideva i due campi.
Uno
di loro fischiò malizioso, un altro si mise a canticchiare con ironia: “L’amore
coi fascisti non conviene. Meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non
ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera. Ce ne freghiamo.”[1]
Un
altro ancora, ostentando del rammarico, disse: “I tedeschi si prendono sempre
le più carine.”
Di
nuovo, nella mente di Sarah affiorò quel pensiero brutto, al quale si aggiunse
il ricordo dello sguardo strano del marito di Maria. Affrettò il passo e
incrociò le braccia, stringendosi forte nella sua divisa da cameriera, per
proteggersi dal freddo, come per nascondersi dagli sguardi di quei fascisti e
soffocare i suoi brutti pensieri.
Quando
giunse all’edificio occupato dai tedeschi, che non era molto distante dalla sua
baracca, un soldato delle SS la condusse al primo piano e, quasi al termine del
lungo corridoio, la chiuse in una stanza e, prontamente, andò via. Sussultando
allo sbattere della porta, Sarah sgranò gli occhi, mentre il cuore accelerò i
suoi battiti: la stanza in cui si trovava non era un ufficio, o un qualsiasi
altro luogo consono a un colloquio, ma una camera da letto. Di nuovo, le tornò
alla mente lo sguardo del marito di Maria e, più pressante, il pensiero che il
tenente potesse approfittarsi di lei. Aveva tanta paura e tanta vergogna di
stare lì. Dopo pochi secondi, sentì l’avvicinarsi di passi lenti e pesanti e,
stendendo le braccia lungo i fianchi, iniziò a tremare come una foglia. Voleva
piangere, sparire, tornare a casa sua. Allo girare della maniglia, Sarah emise
un verso strozzato, come un sussulto e, subito, abbassò la testa. Il tenente
era entrato.
Occhi bassi e parla
solo se interrogata.
“Tu di me hai
questo tempo,
io di te ancora
non lo so.
Tu di me hai la
voglia di cadere,
io di te il mare
in un cortile.
Io di te non
riuscirei mai a liberarmi,
tu di me non
riesci a farne a meno e non ne parli.
Io di te mi sono
innamorata che era aprile,
tu di me hai
notato qualche cosa che era già Natale.”
Emma Marrone, Io
di te non ho paura
[1]Riferito a “Le
donne non ci vogliono più bene”, un inno dei militi fascisti durante la
Repubblica sociale italiana.