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Autore: Nadine_Rose    25/09/2019    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Dal capitolo 6:

 

Campo di Fossoli, 16 febbraio 1944

 

L’ufficio di Hermann affacciava proprio sulla baracca dove alloggiava la ragazzina ebrea con il cappotto rosso e, dalla sua finestra, la scrutava, imparandone le abitudini: l’età della ragazzina era, sicuramente, compresa tra i diciotto e i vent’anni e, dai modi, sembrava essere di buona famiglia; la mattina usciva dalla baracca, raccoglieva i capelli in uno chignon scarmigliato e si sbracciava le maniche del vestito color marrone chiaro, per aiutare le donne nelle faccende domestiche; parlava poco, limitandosi ad annuire e, di rado, sorrideva; dopo pranzo usciva di nuovo, con i capelli sciolti e con indosso il suo cappotto rosso e, ferma sull’uscio della baracca con le braccia incrociate, per una buona mezz’ora, teneva d’occhio i bambini mentre giocavano. Ed era questo il momento in cui Hermann si soffermava a guardarla, lasciando che i pensieri spaziassero in fantasie nella cascata dei suoi lunghi capelli e nella generosità delle sue forme, nell’espressione triste e impaurita di due occhi sbarrati e di due labbra socchiuse, pensieri che lo inseguivano la notte fino a degenerare in desiderio smanioso di averla.

“Agli ordini, signor tenente!” Scattò sull’attenti il soldato, battendo i tacchi.

“Nell’ultimo convoglio, qualche giorno fa, è arrivata una ragazza ebrea con un prete e un gruppo di bambini”, disse Hermann, con tono di sufficienza, lasciando la finestra e portandosi davanti alla scrivania. “Mi serve come cameriera, da questa sera.”

E, quella sera stessa, la ragazza era al centro della sua stanza, sull’attenti e a testa bassa, tremante, in una divisa da cameriera e i capelli semi raccolti con una lunga ciocca che le copriva mezzo volto. Contenendo irrefrenabili pulsioni, Hermann entrò, a passo lento e autorevole, chiudendo la porta dietro di sé.

 

Capitolo 14

 

Un dono della Provvidenza

 

“Pensare che separati da treni e da nazioni tu e io dovevamo semplicemente amarci, confusi con tutti, con uomini e con donne, con la terra che pianta ed educa i garofani.”

Pablo Neruda

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

16 febbraio 1944

 

La vita a Fossoli procedeva decisamente meglio di quanto Sarah avesse immaginato, in una tranquillità spezzata soltanto da voci, provenienti soprattutto dal Campo Vecchio, dov’era stato portato don Franco, che presagivano un trasferimento in Germania. Ma lei, nonostante ne avesse paura, stentava a crederci: perché farli attendere lì e non deportarli subito? Non avrebbe avuto alcun senso.

Il cibo scarseggiava ma questa mancanza veniva sopperita dal buon cuore degli abitanti delle zone circostanti che, con grande coraggio, riuscivano a far entrare nel campo anche medicine e capi di vestiario.

In una moltitudine di dialetti italiani e stili di vita diversi, tra i prigionieri vi era una forma di solidarietà e sostegno reciproco che, al cuore di Sarah, infondeva pace e una certa sicurezza. Maria, una donna sulla quarantina, che condivideva la sua stessa baracca, le aveva regalato un paio di calze nuove.

Proveniva da Bologna e, sposata con un pianista ebreo, aveva seguito la stessa sorte del marito. I due non avevano figli – o forse, più semplicemente, non ne parlavano poiché nascosti in qualche rifugio segreto –, eppure in loro traspariva un particolare istinto materno e paterno verso i bambini della baracca e verso di lei. Nei loro occhi brillava un sentimento di bontà incondizionata. Al suo arrivo, Maria, con delicatezza di madre, le aveva medicato il ginocchio sbucciato per la caduta, aiutandola anche a pulire il cappotto dalle macchie di fango. In quella baracca, Sarah aveva ritrovato un po’ di calore familiare.

Seppur temuta, la presenza dei tedeschi non era poi così ingombrante e non troppo pesanti erano le mansioni da svolgere. Sarah aiutava le altre donne della baracca nelle faccende domestiche e, a volte, riusciva addirittura a sorridere. Anche i bambini, con i quali era arrivata a Fossoli, insieme a don Franco, sembravano più sereni, fuori dal buio di una canonica, liberi – per modo di dire – di giocare con i loro coetanei, sotto un generoso sole pomeridiano.

Guardandoli, si strinse di più nel cappotto, nel ricordo di suo fratello, dei loro giochi da piccoli, delle loro chiacchierate poi da grandi, domandandosi dove lo avesse condotto la Resistenza e se fosse ancora vivo. Le mancava la sua famiglia. D’un tratto, si sentì osservata, in una sensazione sempre più pressante: forse erano gli occhi vigili dei soldati armati sulle torrette, ma non osò sollevare la testa e, con espressione impaurita, scossa, continuò a guardare i bambini rincorrersi e giocare.

 

Sarah stava pettinando i capelli alla ragazzina più grande del suo gruppo di bambini, quella che aveva urlato in soffitta all’arrivo dei tedeschi. Si chiamava Agnese e i suoi capelli erano castani, riccissimi.

“Ahi!” si lamentava la piccola di tanto in tanto, a causa dei nodi.

“Shh”, la rassicurava Sarah, cercando di fare più piano, “abbiamo quasi finito.”

Quando, all’improvviso, entrò nella baracca un soldato delle SS, spalancando con violenza la porta che sbatté alla parete e urlando il suo nome: “Bonanni Sarah!”

Sarah scattò in piedi, lasciando cadere la spazzola sul letto dov’era seduta con Agnese e divenendo come di pietra. Il sangue le si gelò nelle vene, mentre la voce del soldato arrivava alle sue orecchie come un rumore lontano. Di quel discorso, scandito aspramente in un italiano stentato e intervallato da parole in tedesco, per lei già incomprensibili, riuscì soltanto a capire che il tenente Von Wildenberg Hermann, al comando del Campo Nuovo, l’aveva convocata per quella sera stessa. Perché? Cosa aveva mai fatto? Voleva piangere, sparire, tornare a casa sua. Come un lampo, le passò davanti agli occhi l’immagine del suo capitombolo all’arrivo a Fossoli, del fango schizzato a causa delle sue mani sprofondate nel terreno e tremò di paura al pensiero che il tenente volesse posticipatamente fargliela pagare per avergli macchiato i suoi begli stivali lucidi, o per aver avuto poi l’ardire di incrociare il suo sguardo. Cosa le avrebbe fatto?

Quando il soldato andò via, Maria le si avvicinò e, ponendole una mano sulla spalla, le chiese dolce e apprensiva: “Sarah, cara, hai capito cosa ti ha detto?”

Sarah, ancora immobile e confusa, dissentì debolmente con la testa, senza neanche guardarla, e la donna proseguì: “Il comandante del campo ti vuole a servizio come cameriera.”

Sarah si tranquillizzò un po’, ma non emise alcun sospiro di sollievo.

 

Perché il tenente aveva scelto proprio lei e non una donna come Maria, oppure una delle tante giovani staffette partigiane nelle cui vene non scorreva neanche una goccia di sangue ebreo? Sarah indossò la divisa da cameriera – che una donna sulla cinquantina, forse una cuoca, dai tratti del viso severi e spigolosi, le aveva consegnato – e, aggiustandosi una calza, un pensiero brutto affiorò nella sua mente. Ma subito lo mandò via, al ricordo delle leggi razziali: il tenente non avrebbe mai potuto approfittare di lei.

“Io non voglio andarci”, sussurrò, accennando un broncio quasi da bambina.

Sarah aveva ugualmente paura di presentarsi a quell’ufficiale tedesco.

“Sarah, io non credo che questo sia un invito. E non credo che tu abbia molta possibilità di scelta”, le disse Maria con tono serio, aiutandola a sistemare una ciocca di capelli che non voleva proprio saperne di stare ordinata nello chignon. “Non avere paura. Ho sentito dire che le cameriere godono di svariati privilegi. L’inverno è lungo, Sarah. E, oltretutto, hai sentito anche tu quelle voci che parlano di un possibile trasferimento in Germania. Lavorare come cameriera ti garantirebbe la permanenza qui.”

Poco lontano, seduto su una sedia, vide il marito di Maria lanciare verso di loro uno sguardo strano, che non gli aveva mai visto prima, tanto eloquente quanto indecifrabile, in un misto di preoccupazione e biasimo, di compassione e nervoso, il cui significato lo avrebbe compreso solo in seguito.

“Perché proprio io?” replicò Sarah ancora spaesata, intimorita e con le lacrime agli occhi.

“Consideralo un dono della Provvidenza”, fece la donna con un’espressione rassicurante e, con un mezzo sorriso, le sistemò la ciocca ribelle dietro l’orecchio. “Coraggio. E mi raccomando”, continuò più seria e apprensiva, “occhi bassi e parla solo se interrogata.”

Sarah annuì, ma non era per nulla risollevata.

 

Di sera, l’atmosfera al campo era tetra e spettrale, quasi inquietante, in quell’oscurità illuminata soltanto dalla luce gialla di pochi lampioni e delle torrette di sorveglianza. Una folata di vento le percosse il viso, facendo sfuggire altri capelli dallo chignon, mentre il suo passaggio richiamava l’attenzione di un gruppetto di soldati della Guardia nazionale repubblicana, al di là del filo spinato, nella zona che divideva i due campi.

Uno di loro fischiò malizioso, un altro si mise a canticchiare con ironia: “L’amore coi fascisti non conviene. Meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera. Ce ne freghiamo.”[1]

Un altro ancora, ostentando del rammarico, disse: “I tedeschi si prendono sempre le più carine.”

Di nuovo, nella mente di Sarah affiorò quel pensiero brutto, al quale si aggiunse il ricordo dello sguardo strano del marito di Maria. Affrettò il passo e incrociò le braccia, stringendosi forte nella sua divisa da cameriera, per proteggersi dal freddo, come per nascondersi dagli sguardi di quei fascisti e soffocare i suoi brutti pensieri.

Quando giunse all’edificio occupato dai tedeschi, che non era molto distante dalla sua baracca, un soldato delle SS la condusse al primo piano e, quasi al termine del lungo corridoio, la chiuse in una stanza e, prontamente, andò via. Sussultando allo sbattere della porta, Sarah sgranò gli occhi, mentre il cuore accelerò i suoi battiti: la stanza in cui si trovava non era un ufficio, o un qualsiasi altro luogo consono a un colloquio, ma una camera da letto. Di nuovo, le tornò alla mente lo sguardo del marito di Maria e, più pressante, il pensiero che il tenente potesse approfittarsi di lei. Aveva tanta paura e tanta vergogna di stare lì. Dopo pochi secondi, sentì l’avvicinarsi di passi lenti e pesanti e, stendendo le braccia lungo i fianchi, iniziò a tremare come una foglia. Voleva piangere, sparire, tornare a casa sua. Allo girare della maniglia, Sarah emise un verso strozzato, come un sussulto e, subito, abbassò la testa. Il tenente era entrato.

Occhi bassi e parla solo se interrogata.

 

“Tu di me hai questo tempo,

io di te ancora non lo so.

Tu di me hai la voglia di cadere,

io di te il mare in un cortile.

Io di te non riuscirei mai a liberarmi,

tu di me non riesci a farne a meno e non ne parli.

Io di te mi sono innamorata che era aprile,

tu di me hai notato qualche cosa che era già Natale.”

 

Emma Marrone, Io di te non ho paura



[1]Riferito a “Le donne non ci vogliono più bene”, un inno dei militi fascisti durante la Repubblica sociale italiana. 

   
 
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