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Autore: _Frame_    29/09/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

“Ma Frame! Non puoi usare Greensleeves come tema di apertura in un arco narrativo, lo hanno già fatto con Arthur in the dark!”

Fregacazziii!” (cit.)

Se una cosa ci azzecca, ci azzecca, eccheccavolo. Che poi, in questo caso, il significato della canzone è da interpretare considerando i rapporti: Inghilterra→America e Cina→Giappone, mentre nella doujinshi era volto seguendo il parallelismo Arthur→Inghilterra.

Ma tranquilli... niente stupri, niente traumi repressi (be’, un po’ sì), niente doppie personalità psicotiche (circa), niente gente che soffre di disturbo dissociativo, e niente gente che diventa cieca. Di cieco ne basta uno in questa fan fiction.

Comincia l’arco di Pearl Harbooor! \(^-^)/

 


206. Vecchio e Stanco

 

 

Alas, my love, you do me wrong

To cast me off discourteously

For I have loved you well and long

Delighting in your company

 

[...]

 

Your vows you’ve broken, like my heart

Oh, why did you so enrapture me?

Now I remain in a world apart

But my heart remains in captivity

 

[...]

 

Ah, Greensleeves, now farewell, adieu

To God I pray to prosper thee

For I am still thy lover true

Come once again and love me”

 

(Greensleeves, Canzone popolare inglese)

 

 

 

 

Diari di Cina

 

Nonostante il mio atteggiamento nei confronti della guerra si sia dimostrato così passivo, direi quasi assonnato, il resto dei miei sensi non ha mai cessato di essere vigile nei confronti di quello che mi accadeva attorno, di quello che prevedevo sarebbe successo, e di quello che avrei voluto impedire. Forse è stata proprio questa la causa della mia catatonia, di quel malessere sia fisico che spirituale che non ero in grado di strapparmi di dosso, come un abito troppo stretto e soffocante. Ero rinchiuso in me stesso, depresso, apatico, insofferente, privo di ogni desiderio di rinvigorirmi e di risollevarmi. Il motivo? Non riuscivo più a scorgere alcun futuro per la mia nazione. Più specificatamente, il futuro c’era. Lo vedevo. Ma quello che vedevo non mi piaceva, e per la prima volta in vita mia mi ritrovai senza alcuna volontà di cambiarlo.

Negli anni più centrali del conflitto, la mia posizione costituì per me sia un immenso dolore sia un grande vantaggio. Era come se mi fossi trovato al di là di un vetro rispetto alle altre nazioni. E da dietro questo vetro mi era permesso osservare ogni scontro, ogni alleanza, ogni cambiamento, ogni spostamento degli eserciti e ogni mutazione degli altri paesi. E quello che vedevo mi demoralizzava ogni giorno di più. Riuscivo solo a pensare: “In che razza di posto si sta trasformando il mondo? Da quando ne sono diventato così estraneo?” Ma ogni nazione era coinvolta, ogni nazione era intenzionata a seguire la corrente di quella guerra, anche solo per non lasciarsi schiacciare dalla sua furia, e io cominciai a sentirmi tremendamente solo e abbandonato, debole e avvilito come non lo ero mai stato.

Fu la prima volta in cui mi sentii realmente addosso il peso di tutti gli anni che avevo vissuto e che mi erano passati attraverso.

Chiaramente, venivo costantemente informato della situazione in Europa e nel resto del mondo, nonostante la mia condizione di isolamento e di prigionia. Ebbi modo di farmi le mie idee.

L’attacco in Unione Sovietica da parte dell’esercito di Germania e dei suoi alleati cambiò sicuramente molte cose. Il dominio incontrastato di Germania in Europa era vicino tanto quanto lo era quello di Giappone sul territorio asiatico. Dentro di me, sapevo che grandi cambiamenti erano prossimi, a prescindere da come sarebbe finita la battaglia o la guerra stessa. Il punto di non ritorno era vicino. Anzi, era già stato valicato da molto tempo, senza che nessuno di noi se ne fosse reso conto.

Troppe nazioni erano state coinvolte, troppi territori erano contesi, troppo potere stava passando da una mano all’altra, e la posta in gioco era sempre stata troppo alta. Nessuno vi avrebbe rinunciato. Le ambizioni erano utopiche, nate dalla paura, dall’odio, dal risentimento, e dal dolore. Era spaventoso, anche ripensandoci ora. Ciò che nasce da sentimenti simili non può che condurre a una catastrofe certa.

Io lo avevo previsto. Io ero stato uno dei primi – forse il primo in assoluto – a versare sangue nel conflitto, e sapevo che la sete della guerra non era ancora stata saziata. Lo avevo capito affrontando Giappone, scontrandomi con lui, con tutto il rancore gli stava annerendo il cuore, e lo avevo capito guardandogli nell’animo, nel profondo di quegli occhi che ora stentavo a riconoscere. E fu allora che capii. Capii che presto Giappone si sarebbe reso protagonista di qualcosa di irrimediabile, e io non avevo alcun potere per impedire che ciò accadesse.

In quel lontano e triste giorno di ottobre del Quarantuno, ebbi modo di discuterne a lungo con Inghilterra. Forse cercavo una comprensione da parte sua, forse cercavo un sostegno, o forse speravo semplicemente che lui potesse sfruttare quel potere che io non possedevo più per impedire che accadesse l’irreparabile. Questo forse fu ancora più umiliante, ma ero disposto a tutto pur di impedire lo scoppio della guerra mondiale.

Io non avevo più né potere né controllo su Giappone, ma Inghilterra ne aveva ancora su America. Questa era una speranza. Ma questo accadde prima. Prima di poter realizzare che ormai nessuno di noi aveva più alcun controllo, né sulle nostre nazioni né sul conflitto stesso.

Fu questo il lato più spaventoso della guerra.

 

.

 

ottobre 1941

 

Cina fece correre la veste lungo la spalla e la lasciò ricadere lungo il fianco con un movimento lento e stanco, provando un brivido di freddo quando la pelle nuda venne a contatto con l’atmosfera della stanza che non era stata riscaldata. Si strofinò le braccia. Aveva i brividi e la pelle era secca e screpolata, come fatta di carta. Scavalcò la veste caduta ai suoi piedi, raccolse la camicia e indossò la prima manica. La sua mano tornò ad avvolgere la spalla, a sprimacciarvi la stoffa attorno, e a indugiare sulla sporgenza dell’osso della scapola. Abbottonò i lembi fasciando la magrezza del busto, coprendo il profilo sporgente delle costole, e arrotolò la manica ciondolante. Strinse l’avambraccio fra le dita, si accorse di riuscire a chiudere quel che rimaneva del muscolo fra pollice e medio. Tastò fin sopra al gomito, strinse e riaprì il pugno, ma i muscoli non irrigidirono, non s’ingrossarono, e nessun flusso di calore pulsò attraverso la pelle.

Quella realizzazione fu una fredda martellata di sconforto, fu come spogliarsi di un altro strato di se stesso. Sono dimagrito ancora.

Cina si piegò per raccogliere la veste che aveva lasciato cadere sul pavimento, si aggrappò all’appendiabiti per poter raddrizzare di nuovo le spalle, e raggelò, inchiodato da una fitta alla schiena, da uno schiocco sinistro che gli aveva fulminato le vertebre e mozzato il fiato in gola, facendolo sudare freddo. 

Soffiò un sospiro tremante, passò una mano attraverso la fronte impallidita, madida di sudore, e pigiò le dita sulle tempie, aspettando che le vertigini si ritirassero. Piegò la veste sull’appendiabiti che gli aveva fatto da sostegno e spremette entrambe le mani alla base della schiena, affondando un massaggio dove il dolore era più acuto, acceso come un fuoco. E la cicatrice ha ricominciato a farmi male. Scosse il capo e trascinò i piedi davanti al mobile per la toletta, senza però trovare la forza di posare lo sguardo sul suo riflesso entrato nello specchio.

Raccolse la spazzola abbandonata sul ripiano del mobile e passò le setole attraverso i capelli slegati. Gesti ampi e lenti, come quelli con cui si era svestito e rivestito, accompagnati da uno sguardo che si faceva più tetro a ogni colpo di spazzola. Le ciocche avevano perso lucentezza, erano crespe, deboli e sottili come nodi di lanugine. Cina rigirò la spazzola. Groppi di capelli secchi erano rimasti incastrati fra le setole, la stessa cosa che capitava anche quando si svegliava, quando trovava fili scuri sul cuscino o sul bavero dei vestiti, o ancora quando doveva districarli dalle dita mentre si lavava.

Posò la spazzola. Raccolse i capelli scivolati sulle guance, scostandoli dietro l’orecchio, e sollevò gli occhi sulla superficie dello specchio.

Il cuore batté un pesante tonfo sulle costole. Un tuffo che rimbombò fin nel ventre, come una gelida sassata.

Affacciato a quella che sarebbe dovuta essere la sua immagine riflessa, si scoprì irriconoscibile. Le guance asciutte, risucchiate dalla magrezza, e segnate dai ritagli d’ombra frammentati nell’oscurità della camera la cui fonte di luce era solo il chiarore del corridoio penetrato dalla porta socchiusa. Cina girò il capo e fece scorrere le dita lungo il profilo del volto. La pelle lattea, giallognola dove gli spigoli del viso erano più sottili, appuntiti come le ossa delle sue scapole e delle sue anche. Gli occhi scuri persi nel vuoto, resi pesanti e smarriti dalla fiacchezza, rabbuiati da quel malessere che gli pesava sul cuore e sulle ossa stanche di sorreggere un corpo che non gli apparteneva più.

E così, è questo il mio riflesso. Cina tolse le dita dal viso per posarle sullo specchio. Si guardò senza paura, ma con compassione. È questo il riflesso del mio popolo, della sua prigionia e del massacro che sta subendo e che si sta riversando sul mio corpo.

Appoggiò anche l’altra mano sullo specchio e vi posò la fronte sopra. Lasciò scivolare le spalle verso il basso, schiacciato da un sentimento di pesantezza che ogni giorno si faceva più soffocato e massacrante. Il cuore tornò a stringersi in un laccio di dolore. Il bruciore alla schiena tornò ad attraversare la lunghezza biancheggiante della vecchia cicatrice. È questo quello in cui speravi, Giappone? Vedermi ridotto così? Se mi guardassi ora saresti felice? Saresti soddisfatto? Per tutto questo tempo hai desiderato uccidermi in questa maniera? Fece scivolare una mano dallo specchio e se la posò sul cuore, dove stentava a riconoscere persino il suo stesso battito. Quanto intenderai infierire prima di essere soddisfatto di quello che vedi?

Rialzò le spalle con un sospiro, pescò un elastico dalla ciotola che teneva affianco alle bacchette e al pettine, e raccolse i capelli in una coda, senza però riuscire a trattenere qualche ciocca abbandonata lungo la magrezza del viso. Ma non ti darò la soddisfazione di vedermi cadere. Non ancora. Strinse l’elastico. Non prima di...

“Signore.”

Cina si voltò verso l’ombra che si era allungata attraverso lo spacco della porta. Le mani ancora fra i capelli e una ciocca a cadere davanti alla guancia, come una lacrima scura.

L’uomo in uniforme militare – uno dei tanti che avevano il compito di sorvegliarlo e che Cina non riuscì a distinguere dalle altre guardie – spinse la porta socchiusa e batté i tacchi, piantandosi in una postura rigida sulla soglia della camera. Il riverbero giallognolo del corridoio coronò la sua figura scura e piatta, le sue spalle larghe e la testa sormontata dal copricapo. “Mi perdoni se la disturbo, signore, ma c’è una visita per lei.”

Cina inarcò un sopracciglio. “Una visita?” Si sfilò le mani dai capelli, lasciando ricadere la coda dietro la spalla, compì un primo passo attraverso il fascio di luce proveniente dalla porta aperta e picchiò il fianco sullo spigolo del mobile. Si aggrappò di nuovo per non cadere, com’era successo quando si era ritrovato sostenuto dall’appendiabiti, e si massaggiò la botta soffocando un gemito a bocca chiusa. Si era ingoffito molto negli ultimi tempi.

Il volto granitico del militare non s’increspò di una ruga sotto l’ombra del copricapo, ma la sua voce si ammorbidì. “Non si sforzi se non se la sente, signore, possiamo rimandare. Gli dico che sarebbe più consono tornare quando lei si sentirà...”

“Sciocchezze.” Cina si rimise dritto, ferito più dentro che fuori, arrotolò l’orlo delle maniche e si diede una sistemata alla camicia che cadeva larga attorno al suo busto esile come lo stelo di un giunco. “Ecco. Sto benissimo.” Raccolse la giacca dalla sedia – la giacca più pesante, perché ultimamente soffriva sempre per il freddo e perché le giornate erano sempre più corte, buie e ventose – e la indossò con la stessa fatica con cui aveva indossato la camicia, sempre combattendo contro le fitte di dolore alle ossa e i tremori dei muscoli infiacchiti. Si strinse nel suo guscio di calore. “Fatelo entrare.” Chiunque sia. “E ditegli che arrivo subito.”

Il militare accennò un consenso col capo, “Sissignore”, e ripercorse il corridoio, allontanandosi assieme alla sua ombra.

Cina rivolse un’ultima occhiata al suo profilo allo specchio, si pettinò la ciocca ribelle dietro l’orecchio, sistemò una spallina cadente della giacca, e si rese per lo meno presentabile, nonostante il biancore del viso e la luce smorta a stagnargli negli occhi. La semioscurità raccolta attorno a lui addensò una nuvola di dubbio nei suoi pensieri. Una visita, rimuginò con lo stesso scetticismo che lo aveva colto quando il militare si era presentato per avvisarlo. Ma riguardo cosa? A cosa potrebbero mai essere interessati? Cos’ho io da offrire dopo che al mio paese è stato sottratto tutto, persino la dignità? Un pensiero lo attraversò sia con timore che con speranza, scaricandogli un brivido lungo il collo. Che sia Giappone? Ma se si trattasse di Giappone, di certo lui non si scomoderebbe per una visita così informale, e comunque mi avrebbero avvisato prima. Si addentrò nel corridoio, continuò a rimuginarci sopra. Forse potrebbe...

Si morse il labbro, scosse il capo e scartò quell’idea folle.

No, impossibile anche lui. Sta combattendo, la sua nazione è nel bel mezzo della bufera bellica, il suo paese è più in pericolo di quanto non lo sia mai stato negli ultimi decenni. Non potrebbe permettersi di sprecare nemmeno un giorno allontanandosi dai campi di battaglia. Se avesse qualcosa di importante da dirmi, mi avrebbe contattato in tutt’altra maniera.

Sospirò, passandosi ancora una volta la mano sul viso, e raggiunse la fine del corridoio e l’entrata del portico, la luce rossastra proveniente dalla facciata che dava sul giardino interno. Non gli restava che controllare di persona.

Ma allora chi potrebbe mai...

Si affacciò alla soglia del portico, sollevò un braccio per ripararsi dai raggi di sole sbattuti sugli occhi che si erano abituati fin troppo all’oscurità della sua camera, e batté le palpebre socchiuse.

In mezzo al giardino vestito d’autunno, sotto le sfumature infuocate degli aceri carichi di foglie rosse e arancio, circondato dalle lame di luce che cadevano fra i rami scossi da una leggera brezza speziata, una figura lo aspettava, voltata di profilo. Corte e ribelli ciocche di capelli biondi a sbucare da sotto il copricapo militare, le mani affondate nelle tasche del cappotto lungo fino alle ginocchia, e un’aura di superiorità a brillargli attorno, ancora più accesa della tinta del tramonto.

Inghilterra voltò lo sguardo, posandolo su Cina. Si girò facendo scricchiolare le foglie secche sotto le suole, si sfilò il copricapo, svelando quei cinici e sfrontati occhi verdi che Cina conosceva bene, e sfoggiò un mezzo ghigno di complicità. “’sera.”

Cina esitò. Strinse la mano ancora poggiata sulla soglia del portico, piantò le unghie nel legno, congelò i piedi sul pavimento di assi, e calò il braccio con cui si era riparato, sgranando gli occhi ancora abbagliati dal sole. Inghilterra. Un turbinio di emozioni vorticò attorno al suo cuore, a quel battito singhiozzante che si era ravvivato. Quella che provò fu una sensazione simile al tocco dell’aria che soffiava nel giardino. Il pacifico e profumato tepore del sole rosso, ma anche il freddo pungente del venticello che scuoteva le chiome degli aceri, facendo volteggiare le foglioline.

Cina scese dal gradino del portico e si avvicinò, lento, attraverso le sfumature di luce autunnale, calpestando il tappeto scricchiolante del giardino che pareva un lago di sangue, e respirando il profumo del legno umido e dei fiori che stavano appassendo. Un’altra scia di brividi si arrampicò lungo la sua schiena, come quando si era spogliato. Lo sguardo fisso su Inghilterra, i pugni stretti sotto le maniche della giacca, e le spalle rigide sulla difensiva.

Inghilterra si strinse la mano su un fianco e flesse la testa di lato, squadrandolo da capo a piedi. Ridacchiò, amareggiato. “Dio, hai un aspetto di merda.”

Quella sfacciataggine fu un frizzante tocco di acqua tiepida sulla pelle di Cina. Lui strinse le braccia al petto, forzò un sorriso stanco, e gli fece a sua volta scorrere lo sguardo addosso. “Nemmeno tu sei proprio fiorente, o sbaglio?” Ed era vero. Inghilterra non appariva sofferente come lui ma non era in forma. Nonostante la guerra si fosse allontanata dalle sue coste per spostarsi nell’Est Europa, l’uragano di fuoco che aveva travolto il Regno Unito e le acque dell’Atlantico gli aveva lasciato addosso le cicatrici e le ombre di un dolore che non era ancora sbiadito. Anche lui aveva perso peso, era più pallido e scarno in viso, e i suoi occhi erano segnati dall’ombra nonostante quel piccolo sorrisetto a incurvargli le labbra.

Inghilterra attraversò una folata di vento che fece rotolare le foglie secche fra le sue gambe, si lasciò avvolgere da un sottile drappo d’ombra caduto da una nuvola che aveva tappato il sole, e fu vicino a Cina, ignorando gli sguardi penetranti dei due militari che erano rimasti sotto la tettoia del portico. Il suo sorriso cadde. “Dobbiamo parlare.” Si accostò a Cina con la spalla, senza guardarlo negli occhi, sfiorandolo solo con la voce. “Faccia a faccia. Io e te da soli, senza nessuno a interferire o a mettere becco.”

Cina non si sottrasse ma nemmeno lui riuscì a guardarlo negli occhi. Spostò lo sguardo alle sue spalle, verso la luce che batteva sul legno del portico. I militari erano ancora lì. I loro sguardi scuri ma attenti come quelli di lupi in agguato. Cina inspirò e rispose a Inghilterra con voce rauca, altrettanto cauta. “Non credo di avere nulla da dirti che possa interessarti.”

“Non sono qui per negoziare,” rispose Inghilterra, “e non sono qui perché voglio qualcosa da te.”

Cina sorrise, languido. “Oh, tu vuoi sempre qualcosa. Ti conosco, ormai so come va a finire con te.”

“Non questa volta, te lo giuro. Niente giochi strani, niente balle, niente sotterfugi.” Una scossa di tensione sfrigolò nel sottilissimo spazio che separava le loro spalle. Fece fremere l’aria attorno a loro come quelle foglie che si scuotevano nel vento. “Ma ho bisogno che tu ascolti seriamente quello che ho da dirti.”

Cina si rifece rigido. La voce di Inghilterra, quel timbro basso e serio, congelò il soffiare del vento, facendo cadere su di loro un altro freddo velo d’ombra. “Perché?”

Inghilterra ruotò gli occhi su di lui. “Perché so che tu sei l’unico in grado di capire.”

Questo fece esitare Cina, lo immobilizzò come una freccia scoccata dritta nel cuore, attraverso l’unico battito di vita e di volontà che gli era rimasto in corpo. Qualcosa che solo io sono in grado di capire. I sentimenti che lui e Inghilterra condividevano verso un angolino del loro passato, quello stesso dolore che in certi casi li aveva resi più uniti, quei rimorsi che solo loro conoscevano e che ancora sorgevano a tormentarli come grida di fantasmi, quella parte in comune che talvolta loro stessi si rifiutavano di riconoscere.

Cina voltò la guancia, andò incontro allo sguardo di Inghilterra, al suo sopracciglio inarcato in un’espressione stranamente accomodante.

“Ora hai intenzione di starmi a sentire?”

Davanti a quelle parole, davanti a quegli occhi stanchi come i suoi, davanti al bisogno di aggrapparsi anche al dolore di qualcun altro, davanti al brivido di curiosità che era pizzicato in fondo al cuore, Cina capì di non avere scelta.

 

.

 

Tè nero appena filtrato, dolcetti della luna ripieni di marmellata di fagioli rossi freschissima, e due scodelle di porcellana rossa e nera, una straboccante di uva bianca appena colta e l’altra riempita con un pugno di mandorle già sgusciate e spellate. Tutto era impiattato e servito sul basso tavolino sistemato all’ombra del portico, dove i colori della sera cadevano pigri e insonnoliti, bagnando di rosso quell’atmosfera intiepidita dal calore del tramonto, addolcita dal profumo mieloso delle tortine, e annebbiata dai riccioli di vapore che fumavano dalle tazze di tè.

Inghilterra raccolse la sua tazza e, dopo aver cercato invano il manico con l’indice, la avvolse con entrambe le mani. Vi soffiò sopra, agitò il tè sulla cui superficie galleggiava ancora qualche traccia di fogliolina sminuzzata, e accostò il naso agli arabeschi di vapore. Il profumo così intenso era davvero invitante, gli solleticò le guance e le narici, infondendogli una piacevole sensazione di conforto. Lo mise di buon umore, nonostante il lungo ed estenuante viaggio che lo aveva condotto fin lì. “Be’, abbiamo il tè, abbiamo i dolcetti cinesi, abbiamo un bel tramonto rosso.” Risollevò il mezzo ghigno con cui aveva accolto Cina quando si erano incontrati sotto le chiome degli aceri, e ammiccò. “Sai cosa ci vorrebbe per completare il quadro e fare un salto ai bei vecchi tempi?”

Cina finì di versare il suo tè e irrigidì le braccia, senza ancora posare la teiera, sentendosi colto sul fatto perché quel pensiero aveva attraversato anche lui per un battito di ciglia. Scosse il capo, raccolse le pareti bollenti della sua tazza, e anche lui si lasciò confortare dal profumo e dal tepore dell’infuso appena versato. “Ti piacerebbe, non è vero?”

“Non hai idea,” confermò Inghilterra. “Con tutto l’inferno che devo affrontare ogni giorno...”

“Ammirevole,” annuì Cina, “il fatto che tu abbia voglia di scherzare anche in un momento simile.”

“Magari stessi scherzando.” Inghilterra fece scivolare le gambe sul cuscino su cui aveva provato a rimanere inginocchiato, stiracchiò il polpaccio che si era intorpidito, e incrociò i piedi stando attento a non urtare il tavolino con il tallone. Scostò la scodella con l’uva, sollevò quella riempita di mandorle, e flesse il capo per cercare ancora. “Non hai il latte per il tè?”

Cina serrò la presa facendo stridere le unghie sulla porcellana della sua tazza. Bastò quella frase per far ribollire il suo sangue fino alla testa, per infuocargli le guance, e per risvegliare dentro di lui un ruggito furente e indignato del dragone che da anni si era assopito nelle profondità della sua anima. “Ti taglio le mani.”

Inghilterra rise e rimise giù la scodella con le mandorle. “Scherzo, scherzo,” lo canzonò. “Ora sì che sto scherzando.” Accostò il tè alle labbra e fece cadere il sorriso. “Prima no.” Si gustò una prima sorsata bollente.

Cina fece roteare lo sguardo. Acchiappò un dolcetto della luna e affondò un avido morso nella pasta, guidato da un certo appetito gorgogliato in fondo allo stomaco. Non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva provato lo stimolo della fame o il bisogno di mangiare. Ma ora la pancia brontolava, il profumo dei dolci e del tè aveva sollecitato una certa acquolina, e quel primo delizioso morso aveva incrementato il suo appetito. Colpa di Inghilterra, si disse. Colpa sua che mi sta facendo salire la fame nervosa. Be’, per lo meno il nervosismo ha anche i suoi lati positivi. Divorò il resto del dolce e ne prese subito un altro, sciacquandosi la bocca con una sorsata di tè nero.

Uno stormo di passerotti cinguettò e volò via sollevando un rapido frusciare di foglie secche. Il sole stava tramontando sul giardino di aceri, rendendo l’aria ancora più rossa e sospesa, come un miraggio o come quella di un quadro.

Cina fece scivolare lo sguardo alle sue spalle, verso le sagome dei due militari che li stavano ancora sorvegliando, in disparte, ma sempre presenti con i loro occhi da lupo, con il pelo ritto e le spalle larghe. Un freddo brivido di disagio percorse le sue braccia magre, nonostante la giacca e nonostante il calore delle sorsate di tè. È chiaro che non possono lasciarci da soli, meditò, nemmeno se glielo ordinassimo. Inghilterra rimane pur sempre un paese che combatte dalla parte opposta della nazione che è in guerra contro di me e che tiene il mio territorio soggiogato nella sua morsa. Ed è anche chiaro che ascolteranno tutto quello che avremo da dirci, e che quindi non potremo far trapelare informazioni riservate. Ma se Inghilterra non è qui per questo... Tornò a voltarsi, inarcò un sopracciglio guardando Inghilterra con lo stesso distaccato sospetto con cui aveva spiato i due uomini. Allora cosa vuole da me?

“Perché hai deciso di correre il rischio di raggiungermi e di vedermi in segreto?” Cina finì il suo dolce e ne prese un altro. Aveva bisogno di mangiare, di colmare quel buco di tensione. Entrambi erano in pericolo, e lui continuava a non capire cosa avesse spinto Inghilterra a voler mettere piede su quel precipizio traballante. “Come hai fatto a farti portare fin qui? Se ti scoprissero passeresti guai seri, lo sai.”

Inghilterra rinnovò il sorriso da dietro il vapore che gli galleggiava davanti alle labbra. “Non ti preoccupare per me. So quello che faccio, e i miei servizi segreti lavorano bene, sanno come nascondermi.” Si sporse di lato e alzò la voce, in modo da farsi sentire. “Non lo saprà nessuno.”

I due militari incrociarono un’occhiata sbieca da sotto l’ombra dei copricapo, ma i loro volti rimasero implacabili. Nemmeno una ruga a incrinare quelle espressioni di pietra.

Inghilterra si rimise dritto, strinse le gambe incrociate e fece sventolare una mano. “Poi il rischio passa in secondo piano, considerando che ho bisogno di parlarti di qualcosa di importante e che anche tu hai bisogno di parlarmi di...” Sollevò un sopracciglio. “Di tutto quello che sta succedendo.” Prese un’altra sorsata di tè.

Cina tenne l’indice accostato alle labbra, dopo aver divorato il terzo dolce, e si morsicò l’unghia già consumata dal nervosismo. Contrasse un’espressione tesa. “Cosa te lo fa credere?”

Inghilterra sospirò e posò la sua scodella di tè. Il timbro di voce di nuovo basso e solenne. “C’è qualcosa che non ci stai dicendo.” Cina compì uno scatto, come punto alla sprovvista. Uno scatto così breve e impercettibile che nemmeno Inghilterra se ne accorse. “Il mondo si distrugge davanti al tuo naso,” continuò a dirgli, “e tu te ne stai così passivo senza nemmeno aprire bocca. Ti sei rammollito. Una nazione come la tua non può permettersi qualcosa di simile e non meriterebbe nemmeno ritrovarsi in una posizione del genere. Non capisco perché tu ti stia lasciando andare in questa maniera e non sono tranquillo.”

Cina sollevò un sopracciglio. “E tu invece sei fin troppo coinvolto, direi.” Raccolse la sua scodella di tè, lo agitò fra le pareti, e riacquistò una certa freddezza, restituendogli la frecciatina. “Ho saputo della Carta Atlantica.”

Inghilterra esibì un orgoglioso sorriso da sbruffone e si gonfiò il petto con un sospiro. “Un bel colpo, lo ammetto. Fa parte della nostra nuova politica, lo stratagemma escogitato da me e da America per porre fine a questo scempio una volta per tutte.” Innalzò la sua scodella di tè, come per intonare un brindisi. “Germany first. Ecco quale dovrà essere da ora in poi la regola per il proseguimento della guerra, se vogliamo assicurarci la vittoria. Germania è e rimarrà sempre il nostro primo obiettivo, perché è lui il vero asse attorno al quale orbitano tutte le sue nazioni alleate. Una volta sconfitto Germania, tutti loro cadranno come frutti marci precipitati da un albero abbattuto.” Agitò di nuovo il tè che si stava intiepidendo e ne prese un altro sorso. “Quando poi avremo liberato l’intera Europa dal dominio delle Potenze dell’Asse, libereremo anche te.”

Cina abbassò gli occhi e nascose una risata amara fra le labbra strette. “Liberarmi.” Si passò una mano sulla fronte, scostò le ciocche sfuggite all’elastico, e si massaggiò il collo indolenzito che bruciava di tensione. Non ebbe più voglia di ridere. “Liberarmi come? Uccidendo Giappone?”

“Facendolo sloggiare,” precisò Inghilterra. “Dandogli una lezione, facendogli capire chi comanda, e rispedendolo al suo posto, com’è giusto che sia.”

“Per cosa, poi?” sbuffò Cina. “Magari per far subentrare Russia al posto suo?” Scoccò a Inghilterra un’occhiata più subdola e tagliente, velata d’ombra. “So della vostra alleanza, quindi non provare a nasconderla. E so anche cos’ha comportato l’attacco di Germania in Unione Sovietica e la violazione del loro patto.”

Inghilterra strinse un pugno sul tavolo. Si prese il suo tempo per sostenere quello sguardo che, nonostante le ombre della guerra e i neri segni di dolore incavati nel volto, rimaneva alto e solenne, senza età, quello di una creatura eterea. Devo stare attento, sto pur sempre affrontando Cina, non il primo idiota del villaggio. E comunque ripensare all’alleanza forzata con Russia è alquanto scocciante anche per me. “Per ora è solo un accordo,” borbottò, “non una vera alleanza, quindi non precipitiamo le cose. Né io né America comunque stiamo facendo i salti di gioia all’idea di dovere unire i nostri sforzi a quelli di Russia per poter uscire vivi da questa guerra.” Inghilterra si rilassò distendendo una gamba sotto il tavolino e pescò anche lui un dolcetto della luna dal piatto. “È di Russia che hai paura?” Diede un piccolo morso. “Sta’ tranquillo, non gli permetteremo di farti niente.”

Cina scosse il capo. “Non è di Russia che mi preoccupo,” mormorò. Gli occhi distanti e il tono avvilito. “Ma di qualcosa di infinitamente più grande di lui.”

Inghilterra si strinse nelle spalle e finì il suo dolce. “Te ne preoccupi, ma allo stesso tempo non stai facendo niente per cambiare la tua situazione.”

“E cosa dovrei fare? Io non ho più potere.”

“Ed è di questo infatti che mi stavo preoccupando. È di questo che volevo parlarti fin dall’inizio, ed è questo che mi ha spinto a venire fino a qui.” Inghilterra incrociò le braccia sul tavolino, urtando con il gomito la ciotola dell’uva, e abbassò la voce. “Cina.” Restrinse le palpebre, inviò alle due guardie uno sguardo circospetto, e tornò su Cina, avvicinandosi con le spalle. “Sei ancora disposto a combattere veramente per porre fine a tutto questo?”

Cina irrigidì, batté le palpebre, frastornato, e trasse un breve sospiro da quell’aria ferma che odorava di foglie appassite e di legno bagnato. “Cosa stai...”

“Rispondimi.” Inghilterra non gli diede occasione di intervenire. Lo sguardo fermo e pressante. “Fin dove saresti disposto a spingerti pur di raggiungere una volta per tutte la fine della guerra?”

Cina rimase inchiodato a quello sguardo, si lasciò travolgere dal peso di quelle parole, dalla scarica elettrica che gli avevano trasmesso. “Cosa vuoi dire?”

“Sai cosa intendo.” Inghilterra sollevò un sopracciglio. Sapeva che Cina stava capendo, anche se non voleva ammetterlo, anche se avrebbe preferito il contrario. “Riusciresti a mettere te stesso e il tuo paese sopra Giappone, sopra qualsiasi sorte dovesse capitargli, oppure dentro di te esiterà sempre quella parte che ci contrasterà per impedirci di fargli del male?”

Una vampata d’indignazione bruciò attraverso le guance di Cina, gli fece serrare i pugni sul tavolo fino a provare il dolore delle unghie conficcate nei palmi. Ci fu rabbia per aver ricevuto in faccia lo schiaffo di quella domanda, e ci fu rabbia perché sapeva che Inghilterra era già a conoscenza della risposta. “Non hai il diritto di farmi una domanda simile.”

“Io sono l’unico che ha il diritto di farti una domanda simile, temo. Solo io posso comprendere la tua situazione.” Inghilterra fece scivolare le braccia dal tavolo, tornando indietro con il busto, e si strinse nelle spalle. “Comprendere il tuo stato emotivo, per lo meno.”

Cina scosse il capo. “Stai fraintendendo. Se sei venuto fino a qui solo pensando di...”

“Sei tu che stai fraintendendo me. Non sono qua per giudicarti. E non sono qua per dirti che i tuoi sentimenti non sono legittimi. Sono qui perché ti voglio aiutare.” Una luce più tenue attraversò lo sguardo di Inghilterra. Anche il riverbero rossastro che gli coronava le spalle e i capelli gli donò un’aria più calda, meno minacciosa. “E soprattutto perché voglio fare qualcosa di giusto, per una volta. Di giusto per il mondo e non solo per me stesso.”

Cina soffocò uno sbuffo in fondo al petto. Scosse il capo, tornò a pettinare una ciocca lontano dal viso, e si mise a sbocconcellare l’uva dalla scodella di porcellana. Guardò in disparte, verso gli alberi, verso il mosaico di tinte rosse, arancio e marroni che si frastagliava fra i rami, mentre gli acini dolci scoppiavano uno alla volta in fondo alla sua guancia. “Parli come America.”

“Rispondi alla mia domanda,” insistette Inghilterra. “Fino a dove saresti disposto a spingerti pur di contrastare il male causato da Giappone?”

“E chi ti assicura che Giappone sia il male in tutto questo?” Cina spinse fra le labbra un altro acino d’uva e guardò Inghilterra con occhi carichi di sfida. “Chi ti assicura che sia lui il nemico contro il quale c’è bisogno di combattere? Magari siete tu e America i veri nemici, in tutto questo. Magari il vostro intervento farà più male che bene al mondo. E magari siete voi che state combattendo per la causa sbagliata, che state combattendo il nemico sbagliato.”

Inghilterra inarcò un sopracciglio, lo scrutò con sguardo più fine e attento per capire fino a che punto lo stesse ingannando. “Non dici sul serio.”

“Perché no?” Cina scosse le spalle. Staccò un altro acino dal grappolo. “Tu per primo sai cosa significa essere una nazione imperialista. Dovresti comprendere sentimenti del genere.”

“Ora è diverso.” Inghilterra fece tamburellare le dita sul tavolo. Anche lui guardò in disparte, verso il giardino, verso l’atmosfera ora non più così pacifica che avvolgeva le chiome degli aceri, verso quel rosso che ora si era fatto così simile al sangue. “Proprio perché ci sono già passato ne conosco le conseguenze. Proprio perché ci sono già passato ho deciso di intraprendere una strada diversa, questa volta. Io e America siamo nel giusto. Io e America combattiamo per la democrazia, per il bene globale. Giappone, Germania, Italia...” Soffiò uno sbuffo di disprezzo e tornò a raccogliere la sua scodella di tè. “Loro combattono unicamente per il bene della loro stessa nazione. Combattono in nome di un assolutismo che non sta mietendo altro che vittime su vittime da quando la guerra è cominciata. Io e America invece vogliamo salvare le vite che loro stanno distruggendo, vogliamo fare in modo che una catastrofe simile non si ripeta mai più.” Bevve un sorso e fece schioccare la lingua sul palato. L’aroma dell’infuso raddolcì il tuo tono inacidito. “Come può essere sbagliata la causa per la quale stiamo combattendo?”

“Ed è questo che ti fa sentire così sicuro di vincere?” gli domandò Cina. “Perché il bene trionfa sempre?”

“Sì.” Nemmeno Inghilterra riuscì a credere di poter affermare qualcosa di simile.

Un altro sorriso carico d’amarezza tornò a storcere le labbra di Cina. “È anche l’ingenuità di America che ti sta contagiando, a quanto pare, non solo le buone intenzioni.” Staccò un altro chicco d’uva, lo rigirò fra le dita bianche e affusolate. “Cosa vi fa credere di poter vincere così facilmente? Con metà Europa in mano a Germania e l’altra metà che sta venendo contesa proprio adesso...” Accostò l’acino alle labbra, senza mangiarlo. Aveva un buon profumo. “E se Russia dovesse perdere? Se Germania riuscisse a impadronirsi dell’intera Unione Sovietica? Sarebbe folle pensare di sottrargliela con i vostri mezzi.”

“Non accadrà,” rispose Inghilterra. “Stiamo aiutando Russia, anche se da lontano e anche se indirettamente.” Sbuffò una ridacchiata. “E poi è di Russia che stiamo pur sempre parlando, no? Dagli tempo di realizzare di star morendo e scatenerà l’inferno sulla terra pur di non farsi ammazzare.”

Cina chinò lo sguardo, celandosi dietro l’ombra dei capelli scivolati sul viso. Si fece ostile e scostante. “La guerra in Unione Sovietica è cominciata a giugno. Russia non ha fatto alcun progresso e Germania è sempre più vicino a Mosca.” Fece scivolare in bocca l’acino d’uva e succhiò la punta dell’indice su cui era rimasto il sapore caramellato dei dolci della luna. “Secondo te cos’è che sarà in grado di ribaltare la situazione a sfavore di Germania?”

“L’inverno.”

“Oh, per favore,” ribatté Cina. “Germania sarà pienamente preparato all’eventualità di una guerra invernale. Non sarebbe mai così irresponsabile da trascurare un rischio simile, non con una tale posta in gioco.”

“Sembra quasi che tu stia sperando in una disfatta di Russia.”

“Sto solo cercando di visualizzare ogni scenario possibile, anche il peggiore.”

“Pensavo nutrissi più fiducia in Russia.”

“Non ho più fiducia in niente e in nessuno ormai, temo.” Cina passò una mano attraverso la fronte, si strinse le tempie, piegò il gomito sul tavolo, e lasciò riposare il capo contro il palmo, tornando a imbozzolarsi e a isolarsi in quella nebbia di dolore e fiacchezza. “Mi sento sradicato da ogni legame che mi faceva ancora sentire parte di questo mondo. Se Germania dovesse vincere, per me la situazione rimarrebbe la stessa, e sarà solo questione di tempo prima che Giappone finisca di fagocitarmi nel nuovo Ordine Asiatico. Se invece sarete voi a vincere, allora probabilmente sarà Russia a farsi avanti per sconfiggere Giappone e scacciarlo dal mio territorio, liberandomi.” Si strinse nelle spalle. “Ma a quel punto io non potrò liberarmi di lui.”

Nel cuore di Inghilterra fece breccia un flebile sentimento di comprensione. “Temi che ti faccia del male?”

Cina scosse la testa. “Temo che non m’importi più. Non m’importa più di niente. Ormai sono disposto a pagare qualsiasi prezzo purché tutto questo finisca. Qualsiasi. E non immagini...” Strinse la mano sulla fronte, affondando le dita fra i capelli. Un violento spasmo di dolore attraversò la schiena ricurva, dandogli l’impressione che stesse per spezzarsi come un ramo troppo vecchio. “Non immagini cosa significa per una nazione come me ritrovarsi debole come adesso. Debole più di quanto non lo sia mai stato. Debole a tal punto che sarei disposto a farmi cadere fra le braccia di un’altra nazione pur di poter uscire da questo incubo che mi sta lentamente uccidendo. Non lo immagini nemmeno.” Si risollevò con un sospiro e arrotolò una manica della giacca ciondolata attorno al polso troppo magro. Si rivestì di quella dignità che non erano ancora riusciti a strappargli di dosso. “E forse è proprio per questo che non riesco a trovare alcuna buona motivazione per tirarmi su e reagire come dovrei davanti alla guerra.” Posò l’indice sull’orlo della scodella di tè. Ne percorse la forma ovale, avanti e indietro. “E poi perché alla fine è solo di questo che si tratta. Tutto dipende dall’esito della campagna in Unione Sovietica. Io non ho più alcun arbitrio né sull’Asia né sul mio stesso paese. Comunque vada, tutto quello che posso fare è stare a guardare. E pregare. Se solo un centinaio di anni fa mi avessero detto che per me è così che sarebbe finita, io...” Si bloccò.

Di nuovo una nuvola grigia scivolò davanti al sole, tappandone il chiarore scarlatto dei raggi e soffocandone il calore.

Un soffio di vento trascinò quell’oscurità anche attraverso il portico dove erano seduti, incuneò una buia disperazione negli occhi smarriti e irriconoscibili di Cina. “Che cosa sono diventato?” Tornò ad abbandonare il viso contro la mano aperta e stavolta non si rialzò, chino e solo in quella gabbia di dolore che non era in grado di sguainarsi di dosso.

Inghilterra si concesse il tempo di un sospiro per osservarlo, per raggiungerlo in quella nube di tenebra e solitudine in cui si era rifugiato, per rendersi conto delle condizioni in cui si era ridotto. Cos’è diventato, dice? È vero: quello che ho davanti ormai non è più Cina, è solo un pallido riflesso di quello che è stato. Strinse di nuovo un pugno sul tavolo, facendo vibrare la tensione attraverso le vene in rilievo e le nocche sbiancate. Nonostante quel pensiero a deprimerlo, non sarebbe rimasto impassibile come stava facendo lui. Ma non gli permetterò di lasciarsi andare in questa maniera. C’è ancora una possibilità di recuperarlo dalla tomba in cui lui stesso si sta lasciando annegare. È per questo che sono venuto fin qui, dopotutto.

Tornò a incrociare le gambe sotto il tavolino, a spingere i gomiti fra le scodelle di uva e di tè, e accostò il viso al suo, come quando si erano avvicinati l’uno all’altro in mezzo agli aceri. Gli passò un sussurro, lontano dalle orecchie dei militari. “America gli ha di nuovo congelato i depositi.”

Cina staccò la fronte dalla mano, di nuovo scosso da quella sentenza, da quel brivido elettrico. “Un...” Batté gli occhi. Si rese conto di quel che avrebbe significato. “Un altro embargo? Ma...” Inarcò un sopracciglio e guardò Inghilterra di sbieco, sfiorandogli la guancia con la sua, dubbioso ma di nuovo vigile. “È sicuro di quello che fa? Giappone potrebbe...”

“Non siamo sicuri di niente, per ora.” Inghilterra si riportò con le spalle indietro. “Ma la prossima settimana lui e Giappone avranno un’altra riunione a Washington per discutere dei negoziati sui giacimenti e sulla questione delle truppe occupanti le colonie asiatiche. America sta facendo di tutto per far sì che ti lasci in pace, perché la smetta di sfruttare i territori, e per tenerlo lontano da tutto quello che non ha ancora conquistato.” Raccolse una mandorla dalla scodella, la rigirò fra le dita, e sospirò. “Io in realtà sto cercando di dissuaderlo.” Sgranocchiò la mandorla. “Stuzzicare troppo la pazienza di Giappone potrebbe risultare... poco prudente. Controproducente, in un certo senso.” Accostò pollice e indice come se stesse reggendo un sassolino fra le dita. “Questa guerra è a tanto così per trasformarsi in un conflitto mondiale. E America e Giappone potrebbero davvero essere le due tessere mancanti del puzzle.”

Cina increspò la fronte, stretto in un anello di dubbio. Un altro embargo. Picchiettò le unghie sul tavolo. I giacimenti congelati. Giappone in un disperato bisogno di carburante e materie prime, altrimenti non gli sarà permesso di completare ciò che ha cominciato. E la sua avidità che si fa ogni giorno più assetata. “Lo sai,” sospirò, “nonostante tutto quello che sta capitando fra di noi, nonostante tutto il male che mi sta causando...” Fece di nuovo scorrere le dita attraverso le ciocche di capelli, questa volta per tenere nascosta la sua espressione, quel mezzo sorriso disperato che era come fiele fra le labbra. “C’è una parte di me genuinamente convinta che Giappone sia pienamente degno del potere che ha saputo guadagnarsi, e che meriti di ricoprire il ruolo della nazione che ha saputo diventare.”

Inghilterra arrestò un’altra mandorla davanti alle labbra schiuse, rimaste congelate davanti a quella sentenza. Lasciò cadere la mandorla e guardò Cina nella stessa maniera con cui lui lo aveva fulminato quando aveva chiesto il latte per il tè. “Cosa...”

Cina sollevò una mano. “Riflettici,” lo zittì. Volle spiegarsi. “Nonostante le condizioni in cui è nato e cresciuto, Giappone è diventato una nazione forte e potente come poche. Ha avuto la mia influenza alle spalle, questo è chiaro, ma per il resto ha fatto tutto da solo. Si è aperto spontaneamente la strada che più ha preferito, ha conquistato quello di cui aveva bisogno e quello che desiderava. Concretamente parlando, la sua nazione può davvero considerarsi una delle più grandi potenze mondiali.” E ciò mi riempirebbe d’orgoglio, se non stesse sfruttando il suo potenziale proprio contro di me. “Ma la sua nazione in tutto questo scenario possiede ancora un enorme difetto.” Pescò dalla scodella dell’uva, staccando un acino alla volta e riempiendosi il palmo. “È povera di materie prime ed è dipendente dalle importazioni, e questo gli impedisce di essere autonomo nelle conquiste, di soddisfare il bisogno di espansione. È per questo che non può ancora considerarsi l’Impero immortale che lui aspira a diventare.” Dispose i chicchi di uva bianca sul tavolo, uno affianco all’altro. “Ed ecco il perché di tutte queste invasioni, ecco il perché di tutte queste conquiste, di questi sfruttamenti massicci, ecco perché tutta questa pressione su Malesia,” a ogni nome pronunciato, il suo indice si posava su un acino, su quello successivo, “Birmania, Indocina Francese, Indie Olandesi. Sa di avere un raggio di tempo limitato prima di terminare le scorte che gli sono rimaste. E a giudicare dal suo comportamento così ansioso degli ultimi mesi...” Raccolse l’ultimo chicco e lo rigirò davanti allo sguardo, facendosi cupo in volto. “Posso affermare con certezza che non manca molto.” Lo tuffò fra le labbra e lo sgranocchiò lentamente. Non riuscì a percepire alcuna dolcezza dal suo succo. Non c’era niente di dolce in una prospettiva del genere.

Inghilterra era ancora spiazzato per l’impatto di quelle parole, ancora incapace di raccogliere la mandorla che gli era caduta dalle dita, ancora incapace di provare alcun desiderio di metterla sotto i denti, di placare il senso di nausea sorto assieme al discorso di Cina. “E cosa credi che succederà una volta che...” Inspirò a fondo. “Che le scorte termineranno?”

Cina fece spallucce come se fosse ovvio. “Giappone infrangerà i divieti di America, ignorando i suoi embarghi.”

“Non può farlo, perché questo...” Inghilterra strizzò il pugno e corrugò la fronte. Rabbrividì. “Questo equivarrebbe a una vera e propria dichiarazione di guerra.”

“Ma potreste evitarlo.” Cina smangiucchiò un altro acino d’uva. Una scintilla di furbizia, sbocciata nelle profondità dei suoi occhi scuri e antichi, gli affilò lo sguardo. “Potreste evitarlo se fosse America ad attaccare per primo.”

“No. Questo...” Inghilterra scosse il capo e si mise a braccia conserte. “Questo te lo puoi proprio scordare. È categoricamente impossibile.”

“Impossibile per lui,” lo interrogò Cina. “O impossibile per te?”

“Impossibile e basta,” ringhiò Inghilterra. “Non c’è alcun motivo che dovrebbe spingere America a un attacco. Non ora, per lo meno. C’è ancora una minima possibilità di evitare il conflitto mondiale, te l’ho detto, e l’intervento di America sarebbe la goccia che farebbe traboccare il vaso. Non deve accadere. Non possiamo essere noi quelli ad andare spontaneamente incontro alla guerra.”

“Ci sarebbe una minima possibilità di evitare il conflitto mondiale solo se Russia riuscisse a spingere Germania fuori dall’Unione Sovietica. Ma se non dovesse succedere, voi vi ritrovereste con le spalle al muro, con un altro alleato sotto le catene del nemico.”

“Non si tratta solo di questo.”

“E di cosa, allora?”

“Si tratta della politica di America, ecco di cosa.” Inghilterra rafforzò il tono. Il suo sguardo si rifece acceso e irremovibile. “Gli americani non vogliono la guerra, la corrente di pensiero del loro governo è democratica e pacifista. Se fosse America a cominciare per primo, a contraddirsi, non riscuoterebbe mai il consenso del suo popolo. E in quelle condizioni non potrebbe mai affrontare una guerra di tali dimensioni, costringendosi a convivere con il malcontento pubblico della sua stessa gente e dei suoi stessi soldati.”

“È solo questione di tempo, credimi,” rispose Cina, con un certo avvilimento. “Gli americani ora non vogliono la guerra solamente perché non la stanno subendo sulla loro pelle come noi.” Flesse il gomito sul tavolo, spinse la mano sotto il mento – la manica schiacciata contro le nocche – e tornò a volgere lo sguardo al giardino, alla danza delle foglie che ogni tanto si staccavano volteggiando sotto il sole come farfalle. I suoi occhi si fecero distanti e malinconici, lucidi come inchiostro. “La Grande Depressione è finita. La situazione politica, economica e sociale negli Stati Uniti è florida, le persone vivono bene e vivono in pace, lontane da invasioni, da attacchi aerei, dalle esplosioni, dalle case distrutte, dalle città conquistate, e dalla morte. Sentono parlare della guerra solo tramite la radio o i giornali.” Un piccolo sbuffo. “Troppo facile strillare discorsi sulla pace globale e sulla democrazia in queste condizioni.”

Inghilterra corrugò le sopracciglia, senza smettere di scrutarlo, di studiarne l’espressione assorta. Dove vuole arrivare?

La risposta di Cina non tardò ad arrivare. “Ma prova a immaginare cosa succederebbe se la guerra arrivasse anche sul suolo americano.” Cina sfilò la mano da sotto il mento e sollevò l’indice davanti a Inghilterra. “Una bomba. Ecco cosa basterebbe. Basterebbe che anche solo una bomba cadesse sugli Stati Uniti, e allora quelli che adesso invocano la pace diventerebbero i primi a gridare alla guerra, a reclamare il loro diritto di combattere per il paese che è stato ingiustamente ferito. Una tale ipocrisia...” Scosse il capo. La sua voce tremolò d’indignazione. “Mi fa ancora più rabbia del comportamento di Giappone.”

Gli occhi pietrificati di Inghilterra assorbirono ogni tremore del viso di Cina, ogni brivido di rabbia delle sue spalle ricurve, ogni ombra delle occhiaie che pesavano sotto le palpebre, ogni sfumatura grigiastra dei suoi capelli. Fu allora che se ne accorse. Cina non era solo distrutto e sconfitto, ma anche appassito, prosciugato della sua linfa vitale, come una pianta lasciata morire senz’acqua e senza sole. La domanda sorse spontanea. “Da quando sei diventato così vecchio?”

Cina scosse il capo con un dondolio lento. “Non sono diventato vecchio.” Strinse le mani attorno alle braccia, risalì fino alle spalle strofinandosi le maniche. Un triste abbraccio, fragile e solitario come lui. “Sono diventato stanco. Ed è peggio.” Batté le palpebre e i suoi occhi tornarono a rinvigorirsi, a catturare Inghilterra nella loro luce antica di migliaia di anni. “Ma è sul serio questo il destino che vuoi per America? Vuoi che la sua gente si ritrovi a soffrire come la tua?” Al tono di voce si aggiunse una punta di sfida. “Vuoi vedere le sue città ridotte a un cumulo di macerie come sta succedendo nella tua nazione?”

Rabbia e paura infuocarono l’animo di Inghilterra, prepotenti come una fiammata. Cancellarono ogni briciolo di pietà nei confronti di Cina. “Non chiedermi questo,” sbottò. “Non chiedermi di incoraggiare America a entrare in guerra. Sarebbe catastrofico per l’intero pianeta.”

“Ma sarebbe necessario,” rispose Cina. “A volte è necessario scegliere il male minore in favore di un bene infinitamente più grande. Pensa solo a tutto il male che invece Giappone continuerà a fare se non dovessimo riuscire a fermarlo subito. Se...” Quel pensiero fu un tonfo di dolore in fondo al petto. Rese i suoi occhi più umidi, i segni neri attorno alle palpebre più marcati, la sua pelle più pallida e infreddolita. “Se la sua invasione dovesse proseguire.” Raccolse la tazza del tè che non aveva finito, avvolse le mani attorno alla porcellana tiepida, per scaldarsi, e le sue braccia tremarono. Anche la superficie del tè prese a traballare fra le pareti, a scuotersi come il suo animo tormentato.

Inghilterra se ne accorse, notò quel tentennamento, quella fragilità che era tornata a galla. Si riaccese in lui una tiepida ma sincera fiammella di empatia. “Cina...”

Cina voltò lo sguardo prima di dargli occasione di continuare. Tornò a stringersi la fronte, a poggiare il peso sul gomito, a nascondersi dietro il profilo del braccio. “Perché è dovuto succedere?” Strinse le tempie fra i pugni, tentò di schiacciare quel dolore che lo stava uccidendo, quel rimorso che ormai gli aveva corroso l’anima. “Perché non ho potuto impedirlo?” La sua voce si ridusse a un sussurro soffocato. “Quando ho cominciato a crescere Giappone, credevo che il mio compito sarebbe stato quello di guidarlo, di proteggerlo dal mondo, e ora invece mi ritrovo a dover proteggere il mondo da Giappone stesso. E non sono in grado di fare nemmeno questo. Mi sento...” Un sospiro spezzato a fior di labbra. “Fin troppo responsabile di quello che è diventato.”

Inghilterra annuì. In un certo senso lo capiva. “Ma la nostra influenza su di loro non può essere onnipotente.” Reclinò le spalle, poggiando il peso sulle mani aperte sul pavimento di legno, e tornò a distendere la gamba intorpidita. “Non fartene un cruccio,” lo consolò. “Magari sarebbe successo comunque, anche se non lo avessi cresciuto tu. Magari è semplicemente la sua natura. Ascolta...” Gli tornò vicino. Vicino con gli occhi, vicino col cuore. “Io ti capisco, ecco perché voglio aiutarti. Stai affrontando una guerra contro una nazione che hai cresciuto. Ci sei già passato, io ci sono già passato, e se...”

“No.” Cina si sottrasse, scostante e circondato da un’aura di tensione che bruciò attraverso i suoi occhi umidi. “Nemmeno tu sai quello che si prova. Non in questo caso. Quella di Giappone non è una guerra volta a ottenere una semplice indipendenza, lui mi sta combattendo con la volontà di uccidermi.” Scosse di nuovo il capo. “E non sai quello che si prova.” Il cuore pesante, lo stomaco bucato da un nodo di nausea, la sensazione della vita che viene prosciugata dal corpo. “Non sai quello che si prova nell’assistere al proprio popolo sterminato e massacrato da qualcuno che io ho visto crescere. E non sai cosa si prova nel rimpiangere ogni decisione, ogni parola, ogni singolo giorno trascorso con l’intento di insegnargli qualcosa di giusto.”

Ti sbagli, pensò Inghilterra, stritolato da quelle parole come in un abbraccio di ghiaccio che anche lui aveva già sperimentato sulla sua pelle. Io ti capisco. Per questo solo io posso aiutarti a uscirne e a reagire. Per questo solo io so cos’hai bisogno di sentirti dire in una situazione simile. “Non è colpa tua.”

Quel commento scivolò su Cina come acqua, senza lasciare alcun solco. “Ne sei così sicuro?” Cina si posò la mano sul petto. “Io ho cresciuto Giappone. Evidentemente, l’ho cresciuto male. Quindi tutto il male che sta scaturendo dalla sua nazione è anche colpa mia. E questo significa che io sono la causa diretta del dolore della mia nazione.” Di nuovo gli cadde addosso quello stanco sudario di nostalgia che appesantì ogni muscolo e ogni osso del suo vecchio corpo consumato dal tempo. “Ma cos’è che ho sbagliato?” continuò a domandarsi. “Cos’avrei dovuto fare per impedire che accadesse? Se tornassi indietro...”

“Non si torna indietro,” gli rispose Inghilterra, senza alcuna ironia. “È questa la fregatura.” Pescò dal piatto l’ultimo dolcetto della luna. “Smettila di tormentarti. Quel che è fatto è fatto, ormai.” Mangiucchiò la pasta dolce ricordando a se stesso di procurarsene qualcuno prima di tornare in patria. “Anche se fosse realmente colpa tua, tutto quello che ora puoi fare è smetterla di guardarti alle spalle. Se non riesci a raddrizzare lo sguardo...” Succhiò le ultime briciole dalle punte delle dita. “Rimarrai bloccato in questa maniera per sempre.”

“Non posso raddrizzare lo sguardo,” disse Cina. “Perché quando lo faccio, vedo solo un futuro che non mi piace, un futuro che non dovrebbe nemmeno esistere. Ecco perché non riesco a distogliere gli occhi dal passato. Non ora, per lo meno.”

Inghilterra tenne l’indice fra le labbra, pinzò l’unghia fra gli incisivi, e restrinse gli occhi di nuovo solo su Cina, sulle sue difese abbassate, su tutta la vulnerabilità che trasudava dal suo sguardo basso. Un formicolio che stava covando da quando era arrivato lo solleticò in fondo al petto. Che sia il caso di fare il passo successivo? Forse ora posso davvero permettermi di tirare un po’ di più la corda, considerando che Cina ha ogni difesa a terra e ogni volontà sotto i tacchi. Se solo non fosse per... Tornò a scrutare i due militari che facevano la guardia, domandandosi quanto le loro orecchie fossero in grado di tendersi. Si morsicò il labbro. Oh, al diavolo. Devo dirglielo e basta, non posso andarmene senza niente in mano, mi rifiuto!

“Se Giappone dovesse sferrare davvero un attacco contro America...” Glielo domandò con scioltezza, senza alcuna pretesa nel tono di voce, senza alcuna malizia a trasparire dallo sguardo. “Allora si tratterebbe di uno sbarco nelle Filippine, giusto? Sarebbe la scelta più logica.” Sfiorò il piattino vuoto sul cui fondo giacevano le briciole dei dolcetti della luna, vi fece trillare l’unghia sopra. “Ma in quel caso si tratterebbe solo di un territorio periferico. America non subirebbe alcun danno sul suolo della sua nazione, quindi non ne soffrirebbe e sarebbe subito in grado di rialzarsi e di reagire.”

“Lo so,” annuì Cina. “E sono convinto che anche Giappone lo abbia già preso in considerazione.” Si strinse il mento. Soffiò un sospiro meditabondo. “E credo anche che Giappone sappia anche che si tratterebbe di una scelta fin troppo scontata e prevedibile da parte sua.”

“Quindi...” Inghilterra fermò il movimento del dito e sollevò un sopracciglio. Tirò ancora un po’ l’estremità di quella fune sempre più corta e vicina all’obiettivo. “Mi stai dicendo che non saranno le Filippine a essere attaccate per prime? Che non saranno loro la miccia per lo scoppio del conflitto?”

“Io credo che Giappone abbia temporeggiato fin troppo,” borbottò Cina. “E che stia prendendo tempo per studiare un piano d’attacco certamente più complesso di quello che noi ci possiamo aspettare. Un attacco a sorpresa.” Rivolse un indice verso Inghilterra. La punta del dito a sbucare da sotto l’orlo della manica. “Questo sarebbe imprevedibile. E questo sarebbe in grado di annichilire America per il tempo che gli servirebbe a organizzare un’invasione su ampia scala. La vera domanda è...” Posò l’indice sul tavolo. “Esiste un punto geografico e strategico talmente sensibile da far cedere America in questo modo?”

Inghilterra sbuffò. “Per colpirlo e impedirgli di rialzarsi? Ma per fare una cosa simile non gli resterebbe altro da fare che attaccare ne...” Una scrosciata di panico gli piovve addosso come una secchiata di ghiaccio, lo fece diventare bianco. “N-non vorrai dire...” Rimbalzò in avanti con le spalle, picchiò le mani sul tavolo facendo traballare le scodelle. “Non vorrai dire che Giappone attaccherà direttamente sulle coste degli Stati Uniti, vero?”

“Perché no?” ribatté Cina. “America ha un porto militare a San Diego.” Una lieve alzata di sopracciglio. “Sarebbe un buon bersaglio.”

Un porto militare, rimuginò Inghilterra. Un attacco a sorpresa su un porto militare. Vecchi ricordi lo aggredirono. Ricordi di una notte di luna piena, di Swordfish in picchiata, di bolle di fuoco e fumo scoppiate su convogli di navi ormeggiate alla fonda, di fiamme ruggenti specchiate sul pelo di un’acqua nera, di un porto italiano travolto dalla distruzione, di tutto il dolore con cui aveva spezzato il corpo di Romano. La regola del tre, si disse ancora. Tutto il male che gli hai causato ti tornerà indietro moltiplicato per tre. E se questo dolore si riversasse su America anziché su di me, io non potrei mai...

Inghilterra scosse il capo. Non volle pensarci. “Se America dovesse venire attaccato...” Si mise a braccia conserte, quasi per proteggersi da quell’ipotesi. “Lui reagirebbe a prescindere dall’entità del danno, a prescindere dal luogo dell’aggressione. E allora per Giappone sarebbe la fine. Lo hai detto anche tu, no? Basterebbe solo una bomba per scuotere il popolo americano e portarlo alla guerra.”

Un sentimento di diversa natura si riflesse attraverso lo sguardo di Cina. Un’ombra di sfida, di rivalità. “Sei davvero sicuro che America sarebbe in grado di reagire immediatamente?” Anche lui distese le gambe che aveva tenuto inginocchiate fino a quel momento. “Sii onesto.” Raccolse un ginocchio al petto e pettinò la coda di cavallo dietro la spalla. “Dimmelo sinceramente. Se fra America e Giappone dovesse scatenarsi una guerra, secondo te chi vincerebbe fra i due?”

Inghilterra sollevò il mento, lo guardò di sbieco. “E me lo chiedi anche? È chiaro che vincerebbe America. E non lo dico solo perché desidero che sia così. Lo dico perché ne sono sicuro, perché il suo esercito è più grande, più forte, e più preparato. Ma allo stesso tempo so anche che...” Fece roteare lo sguardo. “Che America sarebbe troppo buono per uccidere Giappone. America non combatte per la vittoria, ma per un puro senso di giustizia. Lo sconfiggerebbe, ovvio. Ma non ti preoccupare...” Il suo mormorio fu flebile e freddo come quel vento autunnale che soffiava attraverso le grondaie del portico ombreggiato. “Non ti ritroverai mai a piangere sul suo cadavere.”

Cina ebbe un brivido. Strinse le braccia attorno alla gamba che aveva raccolto contro il petto. “E questo forse mi preoccupa ancora di più.”

“Che intendi?”

“Che io conosco Giappone,” spiegò Cina, “proprio come tu conosci America.” Poggiò la guancia sul ginocchio e reclinò il capo. Si rivestì di tutto il suo grigio malumore. “E questa volta so che non si fermerà mai, anche davanti a una sconfitta certa. E ormai è troppo tardi. Troppo tardi per fargli aprire gli occhi, troppo tardi per riportarlo sulla strada giusta,” strizzò le dita sui pantaloni, “troppo tardi per permettergli di salvarsi da se stesso.”

“E allora...” Un sussulto d’impazienza attraversò il respiro di Inghilterra, e Inghilterra fece sempre più fatica a tirare quella corda che gli bruciava fra le mani. “Allora quale dovrebbe essere la soluzione?”

Cina fece scivolare lo sguardo su di lui. Sollevò l’estremità di un sopracciglio, mantenendo quell’espressione cupa e amareggiata, e non rispose. Non c’era bisogno di farlo. Sapeva che Inghilterra avrebbe capito da solo.

La soluzione. Entrambi sapevano quale fosse la soluzione. L’unica realistica e ragionevole. L’unica che avrebbe davvero posto fine all’espansione giapponese, e allo sterminio e alle razzie commesse dal suo esercito.

Inghilterra raccolse quello sguardo d’intesa, afferrò il messaggio al volo. Lui lo sa. Lo capì dal dolore che aveva letto negli occhi di Cina, da quel terrore viscerale che era penetrato anche nella sua pancia e nel suo cuore. Sa che l’unica soluzione sarebbe davvero uccidere Giappone. Chiuse le palpebre e sospirò, senza riuscire ad alleggerirsi di quel peso. Ora sì che non mi stupisco del fatto che non riesca nemmeno a trovare la forza e la volontà di tenere su la faccia. Se anche io mi dovessi ritrovare in una situazione del genere non saprei proprio come... “Ho capito.” Districò le gambe incrociate, si appoggiò all’orlo del tavolino, e si diede una spinta per tirarsi su. Di nuovo in piedi, sventolò il copricapo affianco al viso, rivolse un ultimo sguardo al giardino di aceri dove le sfumature scarlatte del tramonto stavano scurendo in quelle violacee del crepuscolo. Il vento si era abbassato. Le foglie immobili e marcate come quelle di un affresco. “Ma insisto comunque sulla mia posizione. America per ora non compirà alcuna ostilità fisica contro Giappone. Non lo farà perché non può e non lo farà perché sarò io stesso a impedirglielo.”

Cina sollevò il mento dal ginocchio e scosse il capo. “Non potrai controllarlo per sempre,” lo rimproverò. “Non è più la tua colonia.”

“Staremo a vedere.” Inghilterra rindossò il copricapo, pigiandolo per bene davanti alla fronte, diede un’aggiustata alla giacca e si stiracchiò le spalle. “Te l’ho detto: proprio la prossima settimana ci sarà un incontro fra America e Giappone per discutere degli accordi sull’embargo e sul congelamento dei depositi. Le sorti della guerra non sono ancora segnate. C’è ancora una possibilità di cambiare le cose prima che venga raggiunto il punto di non ritorno.”

Percorso da un bruciore saettante, Cina serrò la mandibola, fece stridere i denti, e picchiò un pugno sul tavolo. “Abbiamo già raggiunto il punto di non ritorno!” Colto da quell’improvviso impeto d’ira e di energia che non provava da anni, si alzò di scatto urtando lo spigolo e facendo ribaltare una tazza vuota. Schiacciò i pugni contro i fianchi, aggrottò la fronte dietro le ciocche di capelli cadute davanti al viso scuro di rabbia, e paralizzò Inghilterra nel suo sguardo, nonostante gli stesse dando la schiena. “Non possiamo più tornare indietro, come fai a non rendertene conto? Perché continui a ingannare te stesso? Dopo tutto quello che la tua nazione ha già passato per colpa di questa guerra, poi.”

Inghilterra irrigidì, senza voltarsi, senza bloccare il passo, ma anche lui dovette contenere un tremore fra le labbra. Perché se la situazione dovesse peggiorare, allora non saprei nemmeno io come affrontarla. “Perché non è ancora il caso di farsi prendere dal panico, tutto qui.”

“Il pericolo è più vicino di quanto tu stesso creda,” esclamò Cina. “Vuoi sul serio farti trovare impreparato quando il mondo ti crollerà addosso?”

“Non se prima...” Inghilterra arrestò la camminata, congelato da un brivido risalito lungo le gambe. Un pungente brivido trasmesso da quelle ultime parole di Cina, da quel suo insolito tono provocatorio. Si girò lentamente, dapprima solo con la guancia, sfiorandolo con la scintilla brillata nelle sue iridi verdi che ora luccicavano di tensione. “C’è qualcosa che non mi hai ancora detto, Cina?” Il tono talmente gelido che avrebbe potuto condensarsi fra le labbra. “Qualcosa che dovrei sapere? Qualcosa...” Inghilterra strinse i pugni. Calmo. Si costrinse a restare calmo. “Qualcosa da cui potrebbero dipendere le sorti della guerra e che per un qualche motivo mi stai tenendo nascosto?”

Cina sostenne il suo sguardo, ma i suoi occhi mutarono, l’ombra che gli bordava le palpebre si addensò rendendo il suo viso più misterioso. “Non sono nella posizione più adatta per permettermi di tenere un segreto, non trovi?”

“No,” rispose Inghilterra. “No, infatti.” Si girò verso di lui, i pugni ancora pigiati contro i fianchi, le spalle rigide, e un’aura di ostilità a bruciargli attorno come una bassa fiamma cinerea. “Non prendermi in giro.”

I due militari furono raggiunti da quella scossa di tensione, si guardarono, e uno di loro compì un primo passo in avanti.

Inghilterra si fiondò su Cina e lo afferrò per la giacca con entrambe le mani. “Cosa nascondi, eh?” Lo scosse imprigionandolo nel fuoco che fiammeggiava nei suoi occhi. “Cos’è che non mi hai detto? Parla!”

I militari lo raggiunsero con una corsa, lo trattennero per un gomito e per una spalla. “Signore, devo chiederle di allontanarsi, adesso.”

“Non che non mi allontano!” Inghilterra urtò uno di loro con una gomitata, pestò un passo a terra per sottrarsi alla loro presa, e si tenne aggrappato a Cina. “Non mi allontano fino a che non sputerai tutto quello che mi hai nascosto fino a ora!” Serrò i pugni, socchiuse le palpebre affilando uno sguardo che avrebbe potuto affettargli l’anima in due, e arrochì la voce. “Te lo giuro, Cina. Giuro che se dovesse succedere qualcosa ad America, se Giappone dovesse anche solo sfiorarlo con un dito per colpa di qualcosa che tu non mi hai detto, io ti...”

Cina sorrise. Un sorriso puro e genuino, ma sempre nascosto da quel velo d’ombra che li separava. “Adesso hai paura di me?” Il suo cuore batté un palpito più caldo e libero. Per la prima volta dopo tanti anni, finalmente un po’ di controllo che gli tornava indietro, finalmente un briciolo di potere anche fra le sue mani.

Inghilterra non mollò la presa. “Ho paura che tu possa sapere qualcosa che noi non sappiamo,” gli disse ancora. “Ho paura di non riuscire a capire da che parte intendi stare. Ho paura di non riuscire a capire a che gioco stai giocando. Ho paura che quello che ti sta tormentando possa andare al di là della situazione di Giappone. Ho paura del fatto che tu sia diventato un miserabile, e i miserabili finiscono sempre per compiere qualche pazzia.” Si staccò da lui premendogli i pugni sul petto. “E ho paura di non potermi fidare di te come vorrei.” Le mani dei due militari tornarono a sfiorargli le spalle per poterlo trattenere. Inghilterra si rivoltò con un ringhio. “E voi levatemi quelle dannate mani di dosso!” Cacciò via le loro braccia con una spallata, si ricompose, e tornò a voltarsi, a incalzare la marcia verso l’uscita del portico, pestando corti passi solenni lungo le assi di legno. Un ultimo sbuffo, un ultimo sventolio di mano rivolto a Cina. “Goditi quello che sei diventato. Se è così che vuoi rimanere, allora sono affari tuoi.” E se ne andò lasciandolo ai suoi segreti, alla sua miseria, alla sua vecchiaia e ai suoi tormenti.

Una volta scomparsa l’ombra di Inghilterra, Cina riprese fiato e rilassò la tensione dei muscoli. Sistemò la giacca sgualcita, arrotolò le maniche che erano tornate a cadere fino alle nocche, e strinse la coda che si era allentata.

I due militari si scambiarono un cenno di mento, uno dei due prese la stessa direzione imboccata da Inghilterra, uscendo dal giardino interno, e l’altro rimase con Cina. “Sta bene, signore?” Si avvicinò con fare apprensivo, nonostante l’ombra a celare la sua espressione e il riflesso dei suoi occhi. “È rimasto ferito?”

“No.” Cina scosse il capo e incrociò le braccia sul petto. “No, sto bene, non mi ha fatto nulla.”

L’uomo annuì. “Vada a riposarsi,” si premurò di dirgli. “Le faccio subito portare la cena.”

“Grazie.” Cina gli passò affianco, lento e silenzioso come un sospiro di vento. “Non credo di avere fame.” Si allontanò anche lui attraverso il portico irradiato dalle ultime luci del tramonto. Di nuovo solo, accompagnato solo dalla sua ombra, dal lento cadenzare dei passi sul legno, dal frusciare dei suoi vestiti e dal dondolio delle ciocche cadute attorno alle guance, abbassò la guardia, distese i nervi, e allentò la tensione dei pugni. C’è mancato poco. Raccolse la fronte fra le dita. Le tempie pulsavano, madide di sudore freddo dopo quell’impeto di spavento che si era mescolato alla scossa di sfida che aveva scaricato su Inghilterra con quel minuscolo sorriso. Qualcosa che non gli sto dicendo? Anche se non è come crede lui, non si può dire che abbia torto. Sospirò e si massaggiò il collo, la gola, sentendo vibrare il suo stesso respiro sotto il palmo. Devo stare attento. Il fatto che io sia così debole mi rende anche più vulnerabile. Non sono in grado di mantenermi freddo come un tempo, e rischio solo di tradirmi con le mie stesse mani, anche con una semplice occhiata storta. Ma quanto tempo dovrà ancora passare...

Si fermò, poggiò la mano sulla trave di legno che sosteneva l’affusto di una grondaia, e sollevò lo sguardo al sole largo e rosso come un’arancia matura che stava affondando dietro le creste dei tetti.

Gli occhi di Cina tornarono a essere due scuri pozzi di mistero, annebbiati come il futuro di quella guerra.

Quanto tempo dovrà ancora passare prima che ogni segreto sorga inevitabilmente a galla?

Quella giornata terminò in un presagio tinto di sangue, rosso come il tramonto sceso in mezzo agli aceri, vicino come l’arrivo della stagione fredda che avrebbe ribaltato anche le sorti della guerra in Unione Sovietica, e inarrestabile come il flusso di quel conflitto sempre più espanso, sempre più struggente, e sempre più doloroso.

 

♦♦♦

 

16 ottobre 1941

Washington D.C., Stati Uniti d’America

 

Attratto da una delle finestre da cui veniva irradiata la luce che riempiva il candore del corridoio, Giappone si separò dal suo ambasciatore che stava aspettando di essere ricevuto assieme a lui, posò una mano sul vetro e levò gli occhi al cielo, affacciandosi al pomeriggio limpido ma fresco di inizio autunno che li aveva accolti su suolo statunitense. Non una nuvola a macchiare il tepore del sole. I raggi brillavano sul giardino appena tosato, privi della prepotenza dell’estate appena trascorsa. Era quasi un peccato dover passare quel pomeriggio in una sala da riunione anziché all’aperto.

Lo scatto di una serratura schioccò fra le pareti del corridoio, una delle ante del salone si aprì e lasciò sbucare il profilo dell’ambasciatore americano. L’uomo fece cenno a entrambi. “Pazientate solo un altro paio di minuti, signori,” disse loro. “Fra poco saremo pronti per ricevervi.”

L’ambasciatore giapponese ringraziò con un breve inchino del capo, le braccia ben tese lungo i fianchi. “Pazienteremo.”

L’ambasciatore americano annuì e tornò a sparire dietro le porte del salone.

Giappone si riaffacciò alla finestra, al suo riflesso, guardandosi in viso e non più verso le sfumature del giardino illuminato dal sole autunnale. Guardò se stesso in quegli occhi neri in cui ancora poteva riconoscersi e nei quali riusciva ancora a raggiungere quel battito di umanità nei confronti di Germania, di Italia, di quella promessa che si erano scambiati, dei dolori che loro stavano affrontando in terre lontane, distanti da lui, forse in pericolo, dove non avrebbe potuto aiutarli. Una nube di pensieri scese a soffocarlo. Germania diretto verso Mosca con ogni armata che ha partecipato all’invasione, Italia prigioniero di Russia, e ancora troppe incertezze che potrebbero compromettere il risultato dell’operazione. Sospirò, socchiuse le palpebre, e fece scivolare la mano dal vetro. Dovrò tenere in considerazione anche questo, quando mi ritroverò a patteggiare con America?

La sua immagine riflessa sul vetro batté le palpebre, sollevò lo sguardo su di lui, e lasciò che le iridi si tingessero di un rosso crudele, che lo imprigionassero. “Chiaramente no,” gli rispose con tono fermo. “La responsabilità di ciò che sta succedendo in Unione Sovietica è solo di Germania. Tu hai la tua guerra, lui ha la sua.”

Ma sono guerre complementari, specificò Giappone, sempre smosso da quella punta di dubbio, tenuto a galla da quel legame che ancora lo univa ai suoi alleati, alle loro lotte, ai loro tormenti. Dipendono pur sempre l’una dall’altra.

“Fino a un certo punto.” La sua immagine riflessa indurì lo sguardo. Gli occhi accesi e penetranti che non ammettevano tentennamenti. “Non farti distrarre da Germania, non farti distrarre da quello che sta succedendo in Russia, non è lui il tuo avversario. Fra poco il tuo avversario si presenterà qui di fronte a te, ed è solo su di lui che deve concentrarsi la tua mira.”

L’espressione di Giappone si velò d’incertezza, il suo cuore si strinse in un singhiozzo di timore. Cosa devo fare?

“Non cedere alla sua trappola.” La sua immagine riflessa si avvicinò. Gli occhi si specchiarono in quelli neri e bassi di Giappone, ormai indistinguibili. “Non farti raggirare. Non lasciarti manipolare dalle sue parole e dalle sue falsità. Qualunque cosa ti dirà, tu non ti smuovere dalla tua posizione, chiaro? Il tuo esercito non compirà nemmeno un passo indietro, nemmeno un uomo uscirà dai territori che hai conquistato. America si renderà conto da solo che dovrà essere lui quello a portare dei cambiamenti nella sua politica, se non vorrà la guerra.” Incurvò solo un angolo della bocca. Un sorriso fine e impercettibile. “E lui non vuole la guerra, al contrario di noi.”

“Signori.”

Giappone e il suo ambasciatore si girarono, andando incontro alla stessa voce che li aveva accolti solo qualche istante prima.

L’ambasciatore americano giunse le mani dietro la schiena e raddrizzò le spalle, restando rigido in posa. “Possiamo ricevervi.”

Dietro di lui, una delle ante socchiuse si aprì con un profondo cigolio. America uscì dal salone abbottonandosi l’ultima chiusura della giacca – indossava anche lui un completo da riunione, di una bella tinta indaco –, aggiustò un polsino e rivolse gli occhi al viso di Giappone che lo aveva cercato attraverso le ombre calate fra le pareti di cui non si scorgeva la fine.

L’aria del corridoio si congelò, racchiusa solo dai loro sguardi incrociati, senza nemmeno essere attraversata dai respiri che si erano fermati, e ombreggiata da una nube scivolata davanti alle finestre.

Il cuore di Giappone si gonfiò di aspettativa, contraendosi però in un guizzo di preoccupazione. Si fece duro come quella maschera che indossava sulla sua espressione d’incertezza e di rispetto davanti agli occhi chiari e limpidi di America che riuscivano sempre a pizzicare ogni suo nervo. America. “Bene.” Si allontanò dalla finestra e si diresse verso l’entrata del salone. Attorno a lui, l’oscurità si fece fredda e pressante, rizzandogli la pelle d’oca sotto gli abiti.

Braccia d’ombra gli avvolsero le spalle, il petto premette sulla sua schiena, e le labbra di ghiaccio si accostarono al suo orecchio. “Sii forte,” sibilò. “Ci sono io a reggerti le spalle, non devi avere paura di niente.”

Giappone annuì mentalmente, lasciando che quel sostegno gli reggesse le spalle e gli guidasse le gambe, e sfilò affianco ad America, sfiorato dal suo sguardo, da quegli occhi che avrebbe dovuto affrontare da solo e che sarebbe stato disposto a trasformare in due laghi di sangue pur di veder vinta la sua battaglia.

   
 
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