Anime & Manga > Slam Dunk
Segui la storia  |       
Autore: Retsuko    09/10/2019    1 recensioni
Durante il ritiro della nazionale juniores, fra nuove sfide e vecchi ricordi, Kaede Rukawa si ritrova a dover condividere la stanza con Eiji Sawakita.  
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Altro personaggio, Kaede Rukawa, Shinichi Maki
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ciao, per ora sono avanzata con questa semi follia, che alla fine sarà una storia complessa e a tratti personale. Il capitolo è lunghetto, spero susciti abbastanza interesse da essere letto tutto. Grazie a chi ha letto quello precedente e Ste_exLagu per l’incoraggiamento sul crack pairing 

 

Buona lettura

 

 

 

 

 

 

Rukawa senti…confido nella tua forza di volontà. Quindi ti prego, diventa il numero uno del Giappone.

Mitsuyoshi Anzai

Takehiko Inoue , Slam Dunk, capitolo 189 La patria del basket

 

Eiji testa rapata Sawakita si stava rivelando un compagno di stanza più che accettabile. Era pulito, ordinato e sopratutto non rompeva le palle. Trascorreva la maggior del tempo libero in stanza, leggendo oppure ascoltando musica dal walkman. Ogni tanto parlottava da solo. Era un’abitudine comune a molte persone - Sakuragi si lanciava in soliloqui che avrebbero fatto invidia a Shakespeare - e Kaede decise che avrebbe potuto tollerarlo, anche perché - a differenza di Sakuragi - le sue parole erano un sussurro quasi impercettibile. Presto però si rese conto che quello di Sawakita non era un vezzo, bensì esercizi di allenamento alla lingua americana. Una mattina, di rientro da una corsa sulla spiaggia, lo trovò sdraiato sul letto, intento a ripetere una frase con gli auricolari nelle orecchie: 

«And a few years from now, maybe we'll meet up again and fall in love for real.»

«Che frase imbecille!» disse poi stizzito tornando alla lingua madre «non capisco perché gli esempi di questi corsi debbano essere sempre così scemi! Oh ciao» disse togliendosi un auricolare, quando si rese conto di non essere più solo.

Nella mente di Rukawa si affilarono un sacco di domande (“Quando parti?”, “Dove andrai?”) che ovviamente rimasero la dov’erano, inespresse.

«Sempre meglio delle moltitudini di penne sui tavoli» commentò scrollando le spalle. Sawakita rimase pensoso un attimo prima di capire che Kaede Rukawa aveva appena fatto una battuta. Scoppiò in una risata tranquilla e pigiò il pulsante STOP del walkman.

 

Ogni sera Rukawa si prendeva una mezz’ora di solitudine. Saliva sul tetto dell’albergo a guardare l’orizzonte oscuro, in contrasto al brulicare di luci della città e cercava di svuotare completamente la mente da qualsiasi pensiero. Contemporaneamente Sawakita scendeva nella hall per telefonare, trascorrendo in chiacchiere più o meno la stessa mezz’ora che Rukawa passava in totale mutismo. S’incontravano davanti alla porta della loro stanza senza farsi domande, finché, il mercoledì, quarto giorno di ritiro, Sawakita si rivolse a Rukawa cercando di essere il più discreto possibile.

«Senti, non è che voglia farmi gli affari tuoi...»

«Ecco bravo, non farteli»

«...volevo solo ricordarti che il coach ci ha detto di chiamare a casa, ogni tanto» concluse senza scomporsi minimante. A malincuore dovette ammettere che Sawakita aveva ragione. Controllò l’orologio Casio al suo polso, erano le 22:00, tardi per gli standard della sua famiglia, avrebbe dovuto rimandare al giorno dopo.

Circa dieci minuti dopo bussarono alla porta della camera e il giocatore dello Shohoku andò ad aprire di malavoglia.

«Cosa vuoi?» sbottò in faccia ad un sorridente Hiroshi Morishige.

«Spuntino!» rispose tutto allegro mostrando i pacchetti che teneva fra le braccia. 

Sembrava aver svuotato i distributori automatici dell’albergo.

«Abbiamo cenato due ore fa» gli fece presente un po’ esasperato.

«Quella miseria che ci danno da magiare tu la chiamo cena? Dai, dai fammi entrare» disse, e senza aspettare un consenso il centro entrò nella stanza, spostando Rukawa di peso con una sola mano.

«Ciao Sawakita!» salutò sedendosi a terra. Occupavo tutto lo spazio libero fra i due letti.

«Ciao Morishige. Grazie per lo spuntino»

«Figurati, mi piace condividere le cose con chi è gentile con me»

Decisamente sconcertato da quel l’affermazione innocente, Rukawa intercettò lo sguardo di Sawakita, la cui espressione diceva evidentemente una sola cosa: zitto e mangia. Kaede, che comunque non aveva nessunissima intenzione di ribattere, si sedette sul letto, lievemente a disagio, riflettendo sulla singolarità della situazione. Morishige gli si era incollato addosso sin dal primo giorno. Ai pasti si sistemava al suo stesso tavolo, gli si accostava durante gli allenamenti e lo cercava nei momenti liberi, seguendolo ovunque. Ad un certo punto Rukawa gli aveva esplicitamente chiesto il perché di tanto accanimento nei suoi confronti e Morishige aveva motivato il suo comportamento con un candido: «mi sei simpatico». 

Cosa esattamente lo rendesse simpatico agli occhi altrui restava un mistero insoluto, ma, giunto a metà della prima settimana, Rukawa si era abituato ad avere intorno quella gigantesca presenza. In fin dei conti Morishige accettava di buon grado i suoi prolungati silenzi e, soprattutto, quando Rukawa gli chiedeva poco gentilmente di togliersi dalle scatole, obbediva senza batter ciglio. 

«I miei genitori lavorano entrambi alla Toyota, i tuoi cosa fanno?» chiese Morishige a Sawakita, e Rukawa si ridestò dalle sue considerazioni. La conversazione era scivolata, apparentemente senza nessun nesso logico, dal Dream Team alla famiglia. 

«Mia madre ha una libreria e mio padre è professore di antropologia culturale all’università di Akita» rispose il ragazzo più grande, aprendo un pacchetto di patatine. 

«Antro che?» 

«Antropologia culturale. In poche parole è quella disciplina che studia le somiglianze e le diversità fra le varie culture umane» tradusse Sawakita. Il ragazzone di Aichi corrugò le sopracciglia e guardò verso il basso, socchiudendo e riaprendo gli occhi come un obiettivo fotografico che mette a fuoco un’immagine. Dopo qualche istante fece schioccare la lingua.

«Sembra una roba che può mandarti fuori di testa» commentò infine.

«Papà è fuori di testa, però non credo sia colpa dell’antropologia, piuttosto di tutte le canne che si è fumato durante le occupazioni studentesche del ’68. A dire la verità, sospetto che se le faccia ancora» 

Morishige reagì con una risata simile ad un basso latrato e persino Rukawa mosse le labbra, in una specie di piccola contrazione che poteva rassomigliare ad un sorriso.

«E i tuoi Rukawa?» domandò il centro, dopo aver ripreso fiato. 

Il campione dello Shohoku sentì la schiena irrigidirsi.

«Mio padre è architetto» rispose piatto, piegando un ginocchio e posandovi sopra il mento. A quelle parole Sawakita si mosse inquieto, mollando il pacchetto di patatine, che si riversarono sul letto. «Aspetta un momento» disse, incurante del disastro di briciole «Tuo padre è quel Rukawa che ha disegnato il Land mark Tower in costruzione a Yokohama?» chiese sorpreso. Lentamente, Rukawa annuì. Sebbene non lo desse a vedere era altrettanto stupito. Rukawa Tsukuru era una celebrità nel mondo dell’architettura, ma normalmente sconosciuto fra i coetanei del figlio.

«Una torre?» si chiese perplesso Hiroshi

«Torre?!? Sarà il grattacielo più alto del Giappone! Lo completeranno l’anno prossimo» disse esaltato testa rapata. Nonostante stesse rispondendo a Morishige, Sawakita continuava a guardare fisso Rukawa, quasi si trattasse del centro di un vortice.

«Abbiamo studiato alcuni suoi progetto a scuola, il Sannoh è un istituto tecnico industriale e abbiamo anche dei corsi a scelta di introduzione all’architettura, a me piace tantissimo la materia» aggiunse a beneficio di entrambi «cacchio! Tuo padre è una leggenda!»

Sawakita di batté entrambi i palmi sulle cosce, poi si alzò sulle ginocchia, raddrizzando il busto e cominciò a sbrodolare nozioni dettagliate sull’edificio. La sua voce arrivava alle orecchie di Rukawa smorzata, come se provenisse dalla stanza adiacente. 

«È solo uno stupido palazzo. Non fartelo venire duro» sbottò interrompendo il compagno di stanza, guardandolo con occhi che avrebbero potuto perforare il cemento armato. Calò un pesante silenzio. Senza badare alle espressioni attonite degli altri due, Kaede tirò fuori il pigiama da sotto il cuscino, e, dopo aver scavalcato Morishige con un salto elegante, si chiuse in bagno.

 

Riempì il lavabo di acqua fredda, vi tuffò la faccia e restò fermo sinché i suoi polmoni glielo permisero. Nel riemergere la frangia inzuppata gli si era appiccicata alla fronte, coprendogli gli occhi. Lasciò la forza di gravità libera di agire, sentì le gocce scivolare verso il basso, dalle labbra lungo il mento, al collo, sino ad incontrare la stoffa della t-shirt. L’acqua aiutava a riordinare gli eventi, a concentrarsi sulla realtà e sopratutto a placare il rancore che lo assaliva quando sentiva gli estranei elogiare la grandezza di Tsukuro Rukawa. Ogni qualvolta aveva la sensazione che tutto il corpo si torcesse. Si tamponò i capelli alla buona con un asciugamano e finì di prepararsi velocemente. 

Quando uscì dal bagno il loro ospite non c’era più. Sawakita aveva gettato le cartacce degli snack nel cestino, e lo stava aspettando immobile al centro della stanza, laddove poco prima era seduto Morishige. Si osservarono in silenzio. Rukawa tentò inutilmente di scoprire il significato dell’espressione sul volto di Sawakita, era imperscrutabile, diversa dal solito. Vagamente assomigliava all’espressione di un bambino che si ritrova davanti ad uno sconosciuto e ne è incuriosito, invece di esserne impaurito.

«Scusami Rukawa, sono stato inopportuno» disse, ma Rukawa non avvertì in quella frase nessun senso di colpa o disagio. Degnandolo appena di un’occhiata distratta, s’infilò sotto le lenzuola. Sbadigliò, portandosi una mano pallida davanti alla bocca, poi si rigirò su un fianco e diede le spalle a Sawakita. 

Avrebbe preferito che restasse zitto. 

 

Kaede aprì la porta, massaggiandosi la tempia sinistra con la punta delle dita. Era uscito all’alba come al solito, ma, quando il sole era sorto del tutto, la luce gli aveva trafitto dolorosamente gli occhi e un improvviso mal di testa lo aveva costretto a dimezzare la durata della sua corsa mattutina. L’asso del Sannoh era sveglio e si stava vestendo per scendere a colazione. 

«Buongiorno» lo salutò dopo aver infilato la maglietta della nazionale.

«Nh» 

Ripetendo la stessa dinamica della sera prima, i due si guardarono, fermi al centro della stanza, però, a differenza della sera prima, Rukawa in quel momento riusciva ad interpretare perfettamente lo sguardo di Sawakita, perché ero lo stesso sguardo intenso che aveva in campo quel giorno di agosto. D’istinto Rukawa pensò ad abbassarsi per mettersi in posizione di difesa. Fortunatamente il cervello lavorò abbastanza velocemente da impedire ai muscoli di scattare. 

«Faresti meglio a smetterla di correre ogni mattina. Il ritiro vero non è ancora cominciato, i primi giorni sono di ambientamento, servono più che altro a voi novellini per abituarvi ai ritmi, ma da oggi diventerà sempre più dura. Tu non sei abituato a questo tipo di allenamenti, non reggerai e  finirai con l’arrivare alle partite distrutto dalla fatica. Dammi retta Rukawa, rallenta.» 

Il giocatore dello Shohoku pensò al suo compagno di squadra Hanamichi Sakuragi e ai suoi metodi per risolvere le controversie. Il naso di Eiji Sawakita avrebbe retto una testata ben assestata? Rovinato il suo bel faccino, avrebbe avuto ancora fans disposte a regalargli biancheria intima di dubbio gusto?

«Cosa ne sai tu della mia preparazione atletica?» chiese infine, incrociando le braccia la petto e  lasciando perdere ogni dubbio sulla resistenza ossea dell’avversario. 

«Ne so abbastanza. Ricordati che so come giocate» replicò l’altro affondando le mani nelle tasche. Rukawa alzò un sopracciglio e contemporaneamente un angolo della bocca, mostrando la sua migliore smorfia di derisoria provocazione.  

«Io mi ricordo che vi abbiamo battuto»

«Già, e avete vinto perché siete un manipoli di testoni. E’ stato grazie alla vostra determinazione se ci siete riusciti, non di certo per merito della vostra preparazione come squadra» replicò Sawakita tranquillo. Oltrepassò il compagno di stanza, diretto alla porta.

«Comunque io parlavo della partita con l’Aiwa» precisò prima di uscire dalla camera.

Stupito, Rukawa si voltò di scatto, giusto in tempo per vedere la porta chiudersi alle spalle di Sawakita. 

 

Quel giorno Rukawa pranzò in solitaria. Il suo nuovo ciclopico “amico” era stato costretto a svolgere giri di campo supplementari per aver violato una delle regole alimentari prescrittogli. Ad ognuno di loro era stata assegnata una dieta specifica e ovviamente quella di Morishige non prevedeva spuntini serali a base di schifezze. Rukawa, al contrario, era praticamente stato messo all’ingrasso, o meglio, all’ingrosso. Incoraggiato dal mister, il nutrizionista aveva preparato per lui una dieta finalizzata ad aumentare la massa muscolare. 

Il primo giorno, coach Kaneda aveva assistito alla visita medica di ogni giocatore.

«Rukawa Kaede. Dalla tua cartella risulta che assumi farmaci specifici quotidianamente» aveva detto osservandolo mentre saliva, coperto solo dalle mutande, sulla bilancia gelida dell’ambulatorio. Il ragazzo aveva annuito, stringendo i pugni. Era tutto scritto su quelle dannate prescrizioni mediche, bastava leggerle, non c’era bisogno che chiedesse, e comunque lui non aveva nessunissima intenzione di parlarne. 

«Di solito è un adulto che te le somministra o sei autonomo?» si era informato il dottore spostandolo schiena al muro per misurarlo in altezza. 

«Sono capace di ingoiare un paio di pillole al giorno» 

Kaneda aveva ridacchiato del suo tono ringhiante. 

«Bravo il nostro campione. Vedi di ricordarti di prenderle però, qui nessuno vuole vederti stramazzare in campo» 

Rukawa s’immaginò saltargli alla gola e recidergli la giugulare a morsi. Come se non bastasse, un secondo dopo, Kaneda gli aveva piantato un dito all’altezza del plesso solare, facendolo sussultare impercettibilmente.

«Qui bisogna aumentare un po’ la massa muscolare, eh ragazzo?»

Kaede, che riteneva la sua fisicità leggera un punto di forza, avrebbe volentieri risposto “Fottiti”, ma, conscio di trovarsi davanti al tizio che lo aveva convocato, si era limitato ad accennare un movimento del capo vagamente interpretabile come un assenso. Abituato ai pasti semplici che preparava sua nonna, basati sopratutto su riso, verdure fresche e pesce, Rukawa sarebbe stato felice di barattare la sua bistecca rossa con il merluzzo di Morishige. Alla proteine, l’immancabile frutta secca a merenda - probabilmente finito il ritiro non avrebbe più mangiato mandorle - si aggiungevano gli esercizi in palestra. La prima volta Kaede aveva guardato sospettoso il leg extension quasi fosse una bomba pronta ad esplodere. Maki gli si era affiancato, circondandogli le spalle con un braccio.

«Andiamo matricola d’oro, ti faccio vedere come funziona» aveva detto ridacchiando.

«Lo so come funziona» aveva ribattuto burbero il moretto, scostandosi da lui.

«Allora siediti che ti sistemo i pesi»

Mentre lavorava sulle gamba si era ritrovato a guardare di sottecchi verso la panca per gli addominali, sopra la quale Kawata si stava esibendo a petto nudo, regalando alla squadra uno spettacolo agghiacciante. Poco dopo Sawakita si era sdraiato su quella affianco e il compagno di squadra lo aveva spinto, facendolo rotolare a terra. Qualcuno aveva riso, la maggior parte aveva fatto finta di niente. Maki aveva stretto gli occhi, diffidente e concentrato sugli sviluppi della situazione, risoltasi banalmente; infatti Sawakita, con un’espressione neutra, si era rialzato e aveva ricominciato i suoi esercizi senza dire nulla. Rukawa sbocconcellò gli Udon di malavoglia, ancora infastidito da un persistente mal di testa. Forse avrebbe fatto meglio a chiedere qualcosa al medico. Guardò il tavolo dello staff sistemato dall’altro capo della sala mensa, oltre al mister e al suo vice, c’erano i preparatori atletici, il nutrizionista e due massaggiatori, figure dalla quali Rukawa avrebbe cercato di tenersi lontano, perché l’idea di farsi palpeggiare da sconosciuti non gli piaceva per niente. Trovava strano essere accompagnato da un numero così alto di adulti specializzati in campo sportivo. Ripensò alle parole di Sawakita: tu non sei abituato a questo tipo di allenamenti. Probabilmente da quel punto di vista aveva ragione. 

In quel momento Morishige si palesò in tutta la sua gigantesca essenza.

«Fame» disse lasciandosi andare sulla sedia, che protestò scricchiolando. 

«Oh no, di nuovo i broccoli! Mi fanno schifo i broccoli! Li vuoi?» domandò mostrando il piatto a Rukawa.

«No, se te li hanno dati significa che lo devi mangiare» 

«Sembri mia madre» borbottò in risposta e Rukawa alzò gli occhi al cielo. Oltre le spalle di Morishige, a due tavoli dal loro, il trio del Sannoh insieme al tizio del Daiei di Osaka li stavano fissando. Quest’ultimo diede una gomitata a Kawata, che cominciò a fare boccacce sguaiate, poi disse qualcosa che Rukawa non potè sentire e tutti risero, tranne Sawakita. Lui rimase inespressivo sinché non intercettò gli occhi zaffiro del compagno di stanza, allora arrossì lievemente e si precipitò a chinare il capo. 

«Come ha fatto Kaneda a scoprirti?» domandò improvvisamente Rukawa.

«Boh, mi avrà visto. Mica sono facile da nascondere» replicò scrollando le enormi spalle.

No pensò il moro se ti avesse beccato sarebbe intervenuto subito, sequestrandoti il cibo. Qualcun’ altro ti ha visto e ha deciso che sarebbe stato divertente farti punire. 

«Andiamo» disse alzandosi quando Morishige finì di mangiare.

«Ma che hai oggi?» domandò perplesso il centro, mentre s’incamminavano verso l’uscita.

«Mal di testa»

E la discussione morì li.

 

Il rumore del palleggiare rimbombò nella testa di Rukawa fino a dopo cena, quando, sconfitto, si rivolse al medico per avere qualcosa che alleviasse il dolore. 

«Mi raccomando Rukawa, cerca di dormire il più possibile» gli aveva detto dandogli in mano un pastiglia di iboprufene. Dormire più di quanto già facesse probabilmente corrispondeva al coma. Venne trascinato da Morishige in sala TV, dove si accosciò su una poltrona. Il farmaco aggiuntivo gli aveva messo addosso una gran sonnolenza e poco dopo scivolò in una dolce bruma, cullato dal sottofondo dei suoni che provenivano dalla trasmissione in onda.

«Rukawa»

Una voce bassa e una mano lieve sull’avambraccio lo ridestarono dal suo stato di incoscienza. Aprì un occhio, individuando i lineamenti di Sawakita. Eppure lo aveva avvertito dei pericoli che avrebbe corso  nello svegliarlo.

«Scusami, ti stanno chiamando dalla reception. C’è tuo padre al telefono»

«Rispondi tu, no? Così potrai salutare il tuo grande idolo» replicò, scazzato ma completamente sveglio. Sawakita lo mandò a quel paese con un gesto, poi si allontanò.

Sospirando, Kaede si alzò e, con molta calma, andò a rispondere. Dopo una telefonata lampo e addirittura quattro parole pronunciate (Ciao, bene, si, notte) Rukawa poté finalmente andare a dormire.

 

 

 

Se speri di impressionare uno come Maki sei in anticipo di dieci anni!

Nobunaga Kiyota

Takehiko Inoue, Slam Dunk, capitolo 199, La notte prima dell’inizio.

 

 

 

Il venerdì mattina Rukawa incrociò Sakuragi sulla spiaggia e colse l’occasione di sfotterlo silenziosamente. Sapeva che la clinica di riabilitazione si trovava a Chiba, però non si sarebbe mai aspettato di incontrarlo. Vederlo provocò in lui un’ inaspettata sensazione, qualcosa di simile alla sensazione del rientro dopo una vacanza, quando appoggi le valige sul pavimento di casa tua e, nonostante la bellezza dell’esperienza vissuta, ti rendi conto che casa un po’ ti era mancata. L’abitudine era il motore della vita di Kaede, e trovarsi risucchiato in un contesto sconosciuto lo metteva in difficoltà. Per quanto fastidioso, il Do’hao era familiare, ormai parte di una quotidianità che lo facevano sentire al sicuro.

 

Su quella spiaggia Rukawa non ci tornò più. Le previsioni di Testa rapata si rivelarono esatte, le sessione di allenamento si erano fatte davvero dure e la stanchezza ebbe la meglio sull’orgoglio  della matricola dello Shohoku. Di base il piano d’allenamento somigliava a quello che conosceva, riscaldamento statico e dinamico, lavoro sui fondamentali, strategie di squadra, partitella e scarico finale. Nemmeno i singoli esercizi erano troppo diversi dal solito, ciò che differiva era la precisione pretesa dal coach e il livello di atletismo.

Ad ogni piè sospinto Kaneda si vantava di aver rielaborato la struttura dell’allenamento da un programma dell’UCLA, senza però rendersi conto che alcune delle sue scelta spingevano ad una competizione interna piuttosto elevata. Magari quei metodi potevano andar bene in California, lì complicavano una situazione già abbastanza tesa. Un paio di ragazzi facevano uso di un trash-talking talmente spinto da rasentare il fallo tecnico, e il fatto che il mister lasciasse correre su quegli insulti contribuiva a far dilagare i comportamenti scorretti. Se Kaede reggeva quella guerra psicologica sussurrata senza scomporsi minimamente, altri erano meno bravi ad ignorarli, primo su tutti Morishige, ormai evidentemente bersaglio di spiacevoli prese in giro anche al di fuori del campo. Durante le partitelle, immancabilmente il centro reagiva perdendo la calma e si lasciava sopraffare dal gioco sporco degli avversari, finendo col commettere un fallo dopo l’altro, fino all’espulsione. 

 

«Lo so che dovrei far finta di niente, però non ci riesco» disse quella sera Morishige, che aveva preso l’abitudine di trascorrere il dopo cena in camera delle due ali piccole.

«Dagli un pugno in faccia. Vedrai che dopo essersi ripresi dallo svenimento la smetteranno di prenderti per il culo» disse semplicemente Rukawa, rimanendo sdraiato a guardare il soffitto. Morishige ridacchiò, Sawakita no.

«Bel consiglio del cazzo. Così lo espelleranno dalla squadra» replicò in tono di rimprovero.

«Non voglio che mi buttino fuori!» biascicò il gigante sull’orlo del pianto.

«Basterà farlo sembrare un fallo accidentale» spiegò Rukawa col massimo della tranquillità. Trovava inconcepibile che quel bestione seduto sul letto di Sawakita preferisse venire a farsi consolare invece di difendersi sistemandoli con un cazzotone. Meditò di farsi raggiungere da Sakuragi per una dimostrazione pratica.

«Non ascoltarlo Morishige, passeresti un guaio» disse Sawakita, dandogli dei leggeri colpetti sulla spalla. Rukawa s’innervosì.

«Cosa dovrebbe fare secondo te, andare a piagnucolare dal coach? Finirebbe solo col peggiorare la situazione» ribatté animandosi tanto dal mettersi in posizione seduta.

«Potrebbe farlo presente al capitano»

«Tzk» fece il giocatore dello Shohoku, con aria di sufficienza, pensando a quel coglione di Moroboshi.

«Risolvere i problemi parlando con le persone è più efficace che picchiarle!»

«Ah si? Allora vai a dire al tuo gorilla tondo e al quell’altro bippatore di piantarla!» rispose Rukawa incrociando le braccia al petto. Sawakita sembrò sgonfiarsi improvvisamente, curvò un poco le spalle e lasciò andare le mani in grembo, poi spostò i suoi grandi occhi scuri su Rukawa, mordicchiandosi il labbro inferiore. Il senso di colpa rendeva il suo viso piacevolmente affascinante.

«Cos’è un bippatore?»

La domanda innocente di Morishige spezzò di netto la tensione silenziosa che si era venuta a creare. Con il corpo scossa da un attacco di lieve risarola il giocatore del Sannoh fece presente a Morishige la singolare abitudine di Fukatsu di aggiungere un bip alla fine di ogni frase.

«Singolare abitudine?» domandò retorico Rukawa alzando un sopracciglio «probabilmente è il  sintomo  di psicopatologia. Andrebbe fatto visitare» aggiunse e il sorriso di Sawakita si trasformò in una risata piena. Aveva un modo di ridere stranamente aggraziato e dolce, che, in una certa misura, rassomigliava a quello dei personaggi femminili dei cartoni animati Disney.

«Mh, ridi, ridi. Ne riparleremo quando vi avvelenerà tutti»

 

Nel corso della giornata di sabato le cose non parvero migliorare granché. Sotto la doccia Rukawa si ritrovò a pensare alla pacata autorevolezza di Anzai, provandone una certa nostalgia. Il loro Buddha avrebbe saputo stroncarle sul nascere quelle dinamiche velenose.

«Ehi Cosa, evita di rompere anche gli armadietti!»

Cosa era il nomignolo affibbiato a Morishige e la voce strafottente apparteneva a Tsuchiya del Daiei. In mattinata Morishige si era seduto malamente su una panca di legno dello spogliatoio, rompendola in due pezzi perfettamente identici. Dal suo cubicolo Rukawa sentì partire una serie sghignazzi e, nello stesso momento, il rumore di una tenda di plastica aprirsi di scatto.

«Maki ci sono io qui!»

«Lo so»

Evidentemente Maki aveva interrotto brutalmente la doccia del capitano.

«Moroboshi, devi fare qualcosa. Stanno esagerando»

Maki fu duro, quasi intimidatorio. Si sentì nuovamente la tendina muoversi, verosimilmente Moroboshi stava cercando di coprirsi i gioielli di famiglia.

«Uh andiamo! Qualche sfottò e un po’ di trash-talking aiutano a mantenere alta la tensione. Anche Larry Bird lo usa»

«Qui nessuno è Larry Bird. Poi il fatto che si utilizzi un certo tipo di linguaggio in NBA non autorizza automaticamente tutti noi ad usarlo. Dovresti intervenire» ripeté Maki.

«Che impari a difendersi» sbottò Moroboshi. La conversazione s’ interruppe e per un momento lo scorrere dell’acqua fu l’unico suono a riempire la stanza.

«Francamente Moroboshi, la tua poca risolutezza sembrerebbe premeditata. Dimmi che non ti stai vendicando perché lui ti ha spedito fuori dal campo in barella alle finali prefettorie»

«Certamente no!» ribatté là stella di Aichi, eccessivamente scandalizzato per essere sincero.

«Allora dimostramelo»

«Oh va bene, va bene» acconsentì infine Moroboshi «posso prima mettermi l’accappatoio o mi costringerai ad andare di là con l’uccello in bella vista?»

«Stai tranquillo, è talmente piccolo che nessuno lo noterà»

Rukawa sorrise al miscelatore della doccia e, coperta dallo scroscio dell’acqua in un altro box, riconobbe il suono di una morbida risata conosciuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note sparse:

Il Sannoh. Allora, non mi è ben chiaro se sia il termine Kogyo a fare la differenza comunque, nella traduzione inglese è Sannoh Industry Affiliated High School ed è ispirato ad una vera scuola di Akita che è il Noshiro Industry Affiliated High School, il quale, secondo il caro vecchio Wiki, ha vinto il campionato nazionale studentesco di basket per 58 volte. E’ impreciso tradurlo letteralmente come istituto tecnico perché il sistema scolastico è diverso, ma passatemela. Riguardo all’architettura invece è pura invenzione, cioè a parte il grattacielo che esiste davvero. 

 

Sawakita. Nella mia testa è un pò uno sfigato finito in una scuola di fighetti. Mi ha sempre affascinato (e perplesso) il fatto che sia l’unico personaggio del manga con una storia genitoriale  definita. Lo dico perché su questa cosa ci lavorerò e perché suo padre è fantastico. 

 

In generale il fatto di scrivere di personaggi secondari mi sta entusiasmando, mi sembra di poter azzardare di più, siccome le caratteristiche dei singoli sono meno evidenti. Mi rendo conto che il “mio” Morishige è la versione liceale giapponese di Hagrid, è voluto, invece Kawata è uno stronzo banalmente perché mi è sempre stato antipatico. 

 

Giuro che certe cose buttate qua e là nel capitolo saranno chiarite più avanti :)

Alla prossima e grazie della lettura. 


  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Slam Dunk / Vai alla pagina dell'autore: Retsuko