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Autore: Adeia Di Elferas    15/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E il Duca Ercole ancora non ha dato risposta?” chiese Isabella d'Aragona, guardando corrucciata Ettore Bellingeri, ambasciatore ferrarese a Milano.

L'uomo scosse il capo, per l'ennesima volta e sottolineò: “Il mio signore è anche stato qui alla presenza del re. Se avesse avuto qualcosa da dirvi, l'avrebbe fatto. E, comunque, se la questione vi stava tanto a cuore, potevate essere voi a cercare un colloquio con lui...”

“Come se avessi potuto..!” ribatté, con una sorta di calma rabbia la donna.

L'ambasciatore la fissò per qualche minuto. Come sempre trovava l'Aragona una persona interessante, ma in quel momento le faceva anche un po' pena. Sapeva tutto quello che aveva passato ed era anche a conoscenza del tranello che il re di Francia le aveva teso senza che lei se ne avvedesse per tempo. Tuttavia nei suoi occhi pesti, nei lunghi capelli rossi raccolti sotto una reticella e nel modo ossessivo in cui teneva le proprie figlie sempre attaccate a sé, Ettore leggeva qualcosa di oscuro, come se tutte le ingiustizie e le privazioni subite da quando era arrivata nel Ducato di Milano avessero lasciato in lei un segno così indelebile da poterglielo scorgere in viso.

“Ambrogio da Rosate ha confessato – cominciò a dire Isabella, avvicinando ancora un po' di più a sé le due bambine che le stavano una per fianco – ha confessato, per Dio! Ha detto chiaramente che ha aggiunto al vino di mio marito il veleno! Ha parlato di uno sciroppo, e ha specificato che a darglielo era stato lo speziale di Ludovico! Rozone ha tanti difetti, ma so che teneva a mio marito, e se ha mosso certe accuse, a rischio di essere accusato lui stesso di diffamazione, è perché sapeva quello che diceva!”

“Queste cose me le avete già dette...” provò a calmarla Bellingeri, che non vedeva l'ora di andarsene da quella saletta, attraversare la nebbia di Milano e tornare ai suoi alloggi al palazzo che ora apparteneva a Luigi XII.

“E voi le avete riferite al Duca Ercole, giusto?” chiese lei, facendosi ancora più agitata, nel rendersi di nuovo conto di quanto fosse stata lasciata sola da tutti.

L'Este di Ferrara, in fondo, era suo zio. Era vero che tra lei e Beatrice, la di lui figlia, non era mai corso buon sangue, ma era anche vero che gli Aragona l'avevano accolta a Napoli, quando era piccola, crescendola come una figlia...

“Gliel'ho riferito in modo molto chiaro.” ribadì Bellingeri, cominciando ad alzarsi dalla sua poltroncina, nella speranza di far così capire alla vedova di Gian Galeazzo Sforza che era giunto il tempo di separarsi: “Ma non sta a me dire al mio Duca come e se debba rispondere alla vostra richiesta di giustizia.”

“Il re dei francesi mi ha tradito. Mi ha promesso di catturare e processare Ambrogio da Rosate e invece è ancora in libertà. Mi ha costretta a lasciargli il mio Francesco, che è già partito e che non so quando rivedrò. Aveva promesso di trattare con rispetto non solo me e mio figlio, ma anche Milano, e non lo sta facendo.” elencò Isabella, raddrizzando un po' la schiena, fornendo a Ettore l'immagine indomita della donna che il Ducato avrebbe meritato come Duchessa: “E voi mi state dicendo che il Duca di Ferrara, mio zio, sta cercando un accordo con re Luigi. Dopo tutto quello che ci ha fatto. Capirete bene che non posso restare indifferente.”

“Lo capisco, ma non saprei come fare per aiutarvi.” tagliò corto l'ambasciatore, chinando un po' il capo e soggiungendo: “A ogni modo, non è un problema mio.”

Indispettita più da quell'ultima frase che non dall'immobilismo mostrato tanto dal Bellingeri quanto dall'Este, l'Aragona fece un suono indispettito e, indicando la porta con un cenno, disse: “E allora andatevene.”

L'uomo, abbastanza sollevato da quello sgraziato permesso, la salutò di nuovo e quasi corse all'uscita. Rimasta sola con le figlia, Isabella si mise a rimuginare. Si sentiva sola e abbandonata esattamente come quando era rinchiusa nella torre di Pavia. Anzi, ancor di più. Se all'epoca aveva viva nel petto la speranza che qualcuno della sua famiglia si stesse mettendo in armi per andarla a salvare, ormai aveva capito che a Napoli, di lei, non importava più nulla a nessuno.

Sospirò e accarezzò la fronte di Bona e poi quella di Ippolita. Restò per qualche secondo in silenzio, guardando gli occhi spauriti dell'una e dell'altra e poi, il pensiero che tornava a Francesco, si fece una promessa, che espresse anche ad alta voce.

“Farò tutto quello che posso per riavere mio figlio, ma anche tutto quello che posso per tenere in vita le mie figlie. Dovessi anche andare fino a Napoli a piedi.” a queste parole le due bambine ricambiarono il suo sguardo, senza parlare, come due fantasmi, né più e né meno di quello che erano state mentre erano a Pavia.

L'Aragona sapeva che sarebbe stato difficile e che le ci sarebbe voluto tempo per organizzare una fuga che non insospettisse i francesi, ma si conosceva abbastanza bene da sapere che ce l'avrebbe fatta. Se una cosa, negli anni tremendi che aveva vissuto da che era rimasta sola, l'aveva imparata, questa era proprio lo stringere i denti e sopravvivere, a qualunque costo. E così avrebbe fatto.

 

Caterina, quella mattina, era molto tesa. Era il primo giorno di novembre e nell'arco di un paio d'ore sarebbe cominciato il Consiglio nella sala grande del palazzo dei Riario. Lei non si sarebbe presentata, come deciso in precedenza, ma suo figlio Ottaviano avrebbe comunque detto ciò che avrebbe detto lei.

Il giorno prima, mentre cercava di farsi passare il nervosismo accumulato durante la notte della festa di compleanno della figlia, aveva passato ore a limare le parole da mettere in bocca a Ottaviano, eppure ancora non le sembravano adatte.

Pensierosa e tesa, la donna continuava a misurare a lunghi passi la propria camera da letto, mentre il discorso per il figlio giaceva sulla sua scrivania, corretto in più punti e in parte cancellato. Forse avrebbe dovuto farne una copia più leggibile, ma non ne aveva il tempo. Senza contare che, se ci avesse messo ancora mano, probabilmente l'avrebbe cambiato ancora una volta, finendo per infilarsi in un pozzo senza fondo.

Con un sospiro, decise di non toccare più quelle pagine, pensando che prendere una boccata d'aria potesse aiutarla a recuperare un po' di tranquillità.

Uscita in corridoio, non avendo voglia di parlare con nessuno, invece di scendere fino al cortile, preferì andare a una delle finestre e aprirla. Quella mattina, malgrado la notte funestata da una pioggia incessante, in cielo splendeva un timido sole e le temperature erano gradevoli.

Appoggiandosi al davanzale, la Contessa guardò verso il basso. Nel cortile, come sempre, c'erano dei soldati intenti ad addestrarsi e tra loro fu felice di vedere anche suo figlio Galeazzo, che stava diventando davvero molto abile, Paolo e Scipione Riario, entrambi apparentemente molto ben disposti nei confronti del fratellastro, e il Contino di Melzo, il quale, tra tutti, sembrava il più inesperto, malgrado sembrasse molto motivato e deciso a imparare.

La Tigre, perdendosi per qualche minuto nel seguire i duelli che si svolgevano sotto i suoi occhi, riuscì addirittura a dimenticarsi la preoccupazione per il Consiglio che ormai incombeva. Fu solo un istante, però, e subito dopo quel macigno torno a pesarle sul petto, togliendole quasi il fiato.

Sapeva quanto fosse importante avere la città dalla propria, e si rendeva conto che lei, negli ultimi anni, non aveva fatto molto, per accattivarsi il popolo. Da che governava autonomamente sul suo Stato aveva tolto molte tasse, offerto tanti servizi e incentivato l'esercito, dando a moltissimi uomini un lavoro stabile. Aveva preservato dalla peste buona parte della popolazione e aveva incentivato a tal punto le suo innovative norme igieniche da permettere ai suoi sudditi di schivare la maggior parte delle epidemie da cui invece erano stati falcidiati tutti gli Stati a loro confinanti. Aveva liberato schiavi, facendoli entrare al suo servizio e aveva regolamentato il più possibile i postriboli.

Era scesa a compromessi per permettere a tutti di avere da mangiare e da bere e aveva mantenuto l'ordine impiegando un sistema articolato e severo di polizia che, nel tempo, non si era praticamente mai macchiato di nessun abuso di potere. Aveva rimodernato le strutture difensive, fortificando le rocche, ristrutturando le mura e costruendo una cittadella pressoché imprendibile.

Istruendo i suoi figli – Bianca compresa – quanto e come poteva, prendendo come precettori uomini colti e non solo nobili, aveva dato impulso all'istruzione dei figli del ceto più abbiente e non solo, creando una moda tutt'altro che usuale, permettendo anche alle bambine e alle ragazze di avere una cultura degna di tal nome.

Tutto questo, però, i forlivesi – così come tutti gli altri suoi sudditi – di certo non se lo sarebbero ricordato. Di lei avrebbero tenuto a mente solo il peggio: la repressione feroce che aveva messo in atto nel 1495, le strette necessarie alla distribuzione del grano durante la peste o le carestie, i giovani strappati ai campi per imbracciare le armi, l'assenza o quasi di opere d'arte, il suo distacco nei confronti dei religiosi del Duomo, e ancora il suo scarso interesse per tutto ciò che non era strettamente connesso alle questioni militari.

“Mia signora.” la voce profonda di Bernardino da Cremona fece voltare di scatto la Leonessa che, assorta com'era nelle sue silenziose recriminazioni, non si era accorta di averlo alle spalle.

“Che c'è?” chiese la donna, incrociando le braccia sul petto.

Il castellano le porse una lettera e, dopo aver dato un'involontaria occhiata critica alle brache che la sua signora ormai indossava pressoché tutti i giorni, rispose: “Questa è per voi. Arriva da Milano.”

Corrucciandosi, la Contessa prese subito la missiva e lo ringraziò, andando di nuovo verso la propria camera.

La prima cosa a cui pensò fu che forse Michele Marulli – da lei richiamato ormai da giorni, ma non ancora rientrato in città – avesse incontrato qualche impedimento e le avesse scritto per avvisarla o chiederle soccorso. Poi arrivò addirittura a pensare a un tentativo di mediazione da parte di uno dei comandanti francesi.

Quando però aprì il messaggio, il nome scritto in calce la sorprese. Si trattava di una lettera di Vincenzo Colli, quello che tutti chiamavano Calmeta. Caterina lo conosceva solo di fama, e non aveva idea del perché di una sua missiva.

Giocherellando con il nodo nuziale che portava all'anulare sinistro, la Leonessa cominciò a leggere e dalle prime righe intuì il perché di quel tentativo di contatto. Colli le spiegava di essere originario di Castelnuovo Scrivia, esattamente come il Governatore di Imola, Giovanni Corradini, e di essersi preso la libertà di scrivere prima anche a lui.

Le faceva sapere innanzi tutto che in quella prima lettera non poteva scrivere molto, per paura di intercettazioni, ma che, se fosse stato stato certo del buon esito di quella prima spedizione, avrebbe provveduto a farle avere un secondo messaggio molto più significativo.

Per il momento la pregava di stare attenta a tutti, di non fidarsi di nessuno e le suggeriva una mossa che alla Sforza apparve quanto meno bizzarra, almeno a una prima lettura.

Il Calmeta le faceva presente che il Marchese di Mantova aveva espresso in più occasioni la sua ammirazione per i cavalli che 'Madona Sfortia' allevava personalmente a Forlì e che, in particolare, aveva sentito parlare di una sua cavalla giannetta velocissima e indomabile, che lui le avrebbe chiesto volentieri, se solo avesse avuto abbastanza denaro per pagare una bestia così formidabile.

Anzi, proseguiva il Colli, se oltre alla cavalla avesse avuto anche uno stallone della medesima genia con cui farla figliare, Francesco Gonzaga sarebbe stato l'uomo più felice del mondo, avendo un motivo più che valido per dichiararsi fedele agli Sforza, aiutando come poteva l'esule Ludovico e non solo.

Caterina sospirò. Sapeva bene a quale cavalla si faceva cenno. Era un esemplare stupendo, una giumenta spagnola di grandi dimensioni, adattissima alla guerra. L'aveva montata qualche volta e si era sempre ripromessa di adoperarla lei stessa in battaglia, almeno all'inizio, per tenere il più a lungo possibile il suo purosangue preferito al sicuro. Non era una richiesta da poco. Certo è che se per due cavalli si fosse assicurata l'appoggio di Mantova...

Si passò una mano sulla fronte. Non voleva decidere subito. Prima voleva sapere com'era andato il Consiglio. E poi, a detta stessa del Calmeta, quella prima missiva era incompleta. Prima di far partire due cavalli per Mantova, era meglio attendere gli ultimi ragguagli dal Colli e magari anche chiedere informazioni a Corradini, per sapere quanto potesse essere attendibile.

Avrebbe voluto avere ancora al suo fianco il Medici. Lui avrebbe saputo consigliarla, o quanto meno, l'avrebbe ascoltata e capita, cercando assieme a lei una soluzione. In momenti come quello, Caterina si sentiva la donna più sola al mondo. Deglutì un paio di volte, cercando di scacciare la tristezza e la malinconia che la stavano prendendo. Era inutile perdersi in certi pensieri. In fondo, se avesse voluto, aveva fior fior di collaboratori a cui chiedere aiuto. Il problema, però, era che lei avrebbe voluto avere di nuovo qualcuno con cui capirsi era facile anche senza parlarsi, e, morto Giovanni, non aveva mai più trovato qualcuno con cui avere un'intesa tanto immediata.

Senza indugio, la Contessa si riscosse e prese un foglio pulito e scrisse una breve lettera proprio per il Governatore, esigendo un resoconto schietto e conciso su questo informatore così prodigo di consigli. Dopodiché, con un sospiro pesante, chiuse il messaggio e prese anche i fogli da consegnare a Ottaviano.

Uscì dalla sua stanza di fretta, andando allo studiolo del castellano. Nell'aprire la porta, la Tigre ebbe un attimo di smarrimento, nel vedere Bernardino da Cremona alla scrivania, intento a compilare i registri della rocca. Anche se sapeva benissimo che non avrebbe trovato Cesare Feo, ma lui, quella vista ebbe il potere di renderla ancora più malinconica.

“Questa deve partire subito per Imola. Da consegnarsi al Governatore.” disse, posando la missiva sopra al librone aperto, incurante del fatto che il cremonese stesse compilando proprio quella pagina: “Mentre questi li dovete dare a mio figlio, prima che vada al palazzo.”

Il castellano guardò il piccolo plico e poi chiese, un po' confuso: “Non glieli darete voi stessa..?”

“Non ho voglia di vederlo.” tagliò corto la donna, che rimpiangeva il povero Cesare, che mai avrebbe fatto una domanda del genere, dato che ormai conosceva bene le dinamiche della famiglia Riario Sforza.

“Va bene...” fece Bernardino, stiracchiando un sorriso: “Allora vado subito a consegnarglieli...”

“E ditegli di non fare lo stupido come suo solito. Se farà una figuraccia, dovrà vedersela con me, appena torna a Ravaldino.” precisò la Contessa, pensando, dalla faccia che fece il castellano, che probabilmente quell'ultimo inciso non sarebbe stato riportato a Ottaviano.

Il cremonese, comunque, fece un mezzo inchino e assicurò: “Sarà fatto, mia signora.”

“Sarà meglio per voi che sia così.” concluse lei, tornando subito alla porta e soggiungendo: “Se dovesse arrivare qualche altra lettera da Milano, esigo che mi venga portata all'istante. Fosse anche piena notte.”

“Come preferite.” assicurò l'uomo, guardandola mentre usciva e poi aggiungendo, un sussurro a denti stretti che non udì nessuno: “Aveva ragione il Feo, a dirmi che era un lavoro senza orari...”

 

Ottaviano era così agitato che, per provare a tenere le mani ferme, le teneva posate sui fogli che gli erano stati piazzati sotto al naso. Quell'accorgimento, però, serviva a poco, perché anche se riusciva a quel modo a placarne un po' il tremore, non riusciva a impedir loro di sudare, andando a macchiare i fogli, tanto da distorcere alcune delle parole che sua madre aveva così accoratamente scritto per lui.

La sala grande del palazzo dei Riario, così spoglia e rimbombante, si stava riempiendo a dismisura e i ritardatari si vedevano costretti addirittura a rimanere fuori, sbirciando da sopra le teste degli altri per poter avere almeno uno scorcio di quell'insolito spettacolo.

Da che i forlivesi ne avevano memoria, mai era stato ordinato quel genere di Consiglio, men che meno presieduto dal figlio maggiore della Tigre.

Ottaviano si schiarì la voce, tesissimo, sentendo il camicione di seta incollarsi alla schiena, per quanto era sudato. Il giubbone di velluto rosso che indossava gli era parso perfetto, per quel genere di circostanza, ma in quel momento avrebbe tanto preferito poter girare per il salone completamente nudo, per quanto aveva caldo.

L'odore mefitico della folla lo attanagliava come un veleno. Le chiacchiere che si rincorrevano lo rintronavano. Perfino lo sguardo solerte e attento di Giovanni Dipintore, Auditore di sua madre, che gli stava affianco al solo fine di guidarlo e aiutarlo in caso di bisogno, lo infastidiva.

Trovandosi su un piano rialzato, davanti a un piccolo tavolo su cui, oltre ai fogli del suo discorso, stavano una piccola mappa e alcuni conti, il Riario si rese conto che ormai la sala grande era più che al completo e che quindi attendere oltre non aveva senso.

Cercò con lo sguardo prima proprio l'Auditore, che, però, era troppo concentrato a fissare la massa di cittadini assiepata davanti a loro per notarlo e poi al Capo dei Magistrati Tornielli che, in prima fila, era stato piazzato proprio davanti al palchetto al fine di fornire una solida spalla a Ottaviano nel caso in cui fosse stato troppo in difficoltà.

Fu proprio questo a fargli un breve cenno d'assenso, come a dirgli che quello era il momento buono.

Il giovane, allora, provò a richiamare l'attenzione dei presenti con un colpo di tosse, ma ovviamente il suo gesto fu del tutto vano. Malgrado tentasse di tenere la schiena dritta, più il tempo passava, più finiva a incurvarsi e a piegare il capo, con i lunghi riccioli che andavano a coprirgli via via sempre di più il viso.

Cogliendo quel segnale di allerta, fu Dipintore a prendere in mano la situazione e con la sua voce tonante, chiamò al silenzio l'intera sala grande e poi, non pago, batté il suo bastone in terra e annunciò, non preoccupandosi di esagerare: “Il vostro signore, il Conte Riario, sta per parlare!”

Ottaviano, che sapeva benissimo di non essere più il Conte di quelle terre – anzi, di non esserlo mai stato, di fatto – deglutì e, con uno sforzo che sorprese lui per primo, tentando di non far capire troppo che stesse leggendo parola per parola, cominciò la sua arringa.

“Il motivo per cui siete radunati in questo giorno – disse, alzando man mano la voce, sperando che tutti riuscissero a sentirlo – è farvi sapere come la Santità di Nostro Signore Alessandro VI ci ha mandato avviso che, per non aver pagato alla sua Camera il canone dei tre anni scorsi, siamo dichiarati scaduti dai nostri Stati per sentenza del suo Camerlengo.”

Un silenzio diverso dal quello di poco prima accolse quelle parole. Il Riario percepì distintamente la preoccupazione, anzi, la paura, degli uomini che aveva davanti. Forse, pensava, sua madre si sarebbe fatta scudo proprio con quell'ansia, e l'avrebbe sfruttata a suo vantaggio, caricando le parole e portando a casa il migliore dei risultati, portando la gente laddove lei voleva.

Lui, invece, era di altra pasta, e quando riprese, la sua voce si era fatta più incerta e basta: “E però ha deliberato d'inviare le sue truppe, affinché prendano le nostre città, siccome concadute alla Chiesa.”

A quel punto il Riario lesse tutta la parte in cui sua madre aveva sottolineato come, con scrupolo, si erano assicurati, mandando un inviato a Roma, di aver in realtà pagato fino all'ultimo soldo, e di essere comunque stati disposti a sborsare altri denari, se fosse stato sufficiente per placare l'avidità del papa.

Il popolo, però, davanti a quel discorso, che si stava facendo, per colpa del tono sempre più dimesso del giovane, sempre più difficile da capire, cominciò a rumoreggiare, facendo domande ad alta voce e sbottando all'improvviso con improperi rivolti tanto al Santo Padre, quanto al Riario.

Preso dal panico, Ottaviano si voltò verso l'Auditore che, per quanto ritenesse che ci fosse ancora un margine di recupero, preferì restare ai primi danni, facendo un inchino al suo signore e chiedendogli di lasciarlo continuare al suo posto.

Il Riario lo ringraziò in un soffio e, pur restandogli accanto, mentre lo sentiva riprendere a parlare, con accenti animosi e con una decisione che lui non avrebbe mai avuto, si sentì subito più tranquillo.

Il peggio, pensava, per lui era ormai passato. Certo, quando sua madre avesse saputo quello che era successo, probabilmente se la sarebbe presa, ma oltre a dargli per una volta di più dello sciocco o del codardo, non avrebbe potuto fare.

Giovanni Dipintore, che aveva già letto i fogli scritti dalla Tigre e li ricordava quasi a memoria, prese fiato e continuò ciò che il mancato Conte aveva lasciato a metà. Dapprima ripercorse, con toni molto più sicuri, ciò che Ottaviano aveva già detto, e solo allora, ricatturata l'attenzione del pubblico e rinfusa in tutti quanti anche un po' di sicurezza in più, andò oltre.

“E dunque la nostra Contessa, Madonna Sforza, così come suo figlio, il qui presente Conte Ottaviano, e così ogni altra persona sensata a questo mondo si stupiscono del fatto che, non un signore qualunque e senza cariche, ma uno che è insieme Capo e Pastore universale pretenda con manifesta lesione di diritto un duplicato sborso di pagamento!” a quel grido, qualcuno, timidamente, applaudì, ma la maggior parte dei forlivesi – il Riario compreso – rimasero in silenzio per sentire cosa sarebbe stato detto dopo: “Tuttavia il papa si è ostinato a non dimostrarsi soddisfatto, e ha allarmato un siffatto pretesto per far venire sopra Forlì le sue truppe!”

Ormai gli occhi e le orecchie di tutti erano piantati sull'Auditore, che, perfetto nel suo ruolo come lo era stato anche in momenti di grande agitazione negli anni passati, lasciò passare qualche secondo, in modo che quello che stava per leggere lasciasse ancora di più il segno.

Riempiendo i polmoni, quasi sbraitò, senza più leggere, ma rielaborando ciò che la Leonessa aveva pensato: “Ma Madonna Sforza non può sbigottirsi, ma solo aspettare, coraggiosa e a piede fermo, opponendosi con le sue forze e con quelle che avrà, e soprattutto con l'aiuto che si aspetta dai suoi forlivesi!” il chiamare in causa la città in modo tanto netto risvegliò in buona parte gli animi e tantissimi tra i presenti, specie i rappresentanti dei ceti meno abbienti, cominciarono a motteggiare e dare ragione all'Auditore, che, imperterrito, arrivò a quello che sapeva essere il punto di maggior importanza per la sua signora: “Ecco perché le sta molto a cuore averne ben chiaro e palese riscontro ed ecco perché vuole che la città, maturamente, vi pensi attentamente, si deliberi e in modo equivocamente a lei sia notificato. Sua sollecita brama e suo premuroso consiglio sono che le ragioni pro e contro si pesino e si ripesino in buona e giusta bilancia.”

Quelle parole , da molti, vennero viste fin da subito più come un monito che non come un amichevole consiglio e quando Dipintore se ne avvide, fu tentato di cambiare registro, ma volendo restare sempre il più adeso possibile a ciò che la sua signora ordinava, fu costretto a restare sulla stessa impervia via.

“Però se i cittadini, sedotti o dall'amore per i propri figli o per la propria roba, oppure avviliti dalla codardia e dal timore non trovino il coraggio di contrastare i nemici, giudicando ogni resistenza temeraria o impossibile, saggiamente rivedano bene l'abisso di miserie in cui vogliono così portarsi spontaneamente e sommergersi.” spiegò, con gli occhi ormai quasi fissi sul foglio, più per non cedere alla tentazione di guardare con biasimo Ottaviano, che aveva lasciato a lui la parte più complessa di quel lungo discorso: “Si sa purtroppo che l'esercito che si dice stia per arrivare è composto tutto da uomini di diverse nazioni, e tutte barbare: svizzeri, guasconi, tedeschi, francesi, spagnoli e di altri ancora, tutti incapaci di ritegno e insofferenti ad alcun riguardo. Sicché alloggeranno a discrezione ove gli sia possibile, faranno delle case, anzi, degli stessi sacri Tempi, sudice stalle e ignominiosi quartieri, e ogni cosa metteranno a soqquadro e al saccheggio, e dopo essersi fatti togliere di fatto la libertà sotto il finto nome d'amicizia, i forlivesi sperimeteranno il più duro e crudele giogo della schiavitudine. Così accadde poco fa in Italia col re Carlo e così appunto accade presentemente col successore di lui in Lombardia. I popoli gli si sono sottoposti volontariamente, e non ne hanno riportato che un grande peggioramento di condizione.”

Dipintore si convinse a risollevare lo sguardo dalla pagine, incuriosito dal silenzio perfetto che lo circondava. Il quadro che stava dipingendo, nel seguire pedissequamente le parole della Sforza, stava facendo finalmente il suo effetto. Convinto che la sua signora avesse come sempre trovato il modo giusto di farsi capire, proseguì leggendo esattamente il suo scritto, frase per frase.

 

 
 
   
 
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