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Autore: hikaru83    18/10/2019    5 recensioni
La storia di Sherlock e John, il modo in cui si sono incontrati, tutto ciò che hanno vissuto, la conosciamo bene. Molti di noi avranno rivisto la serie abbastanza volte da citare le frasi senza che le altre persone riescano a capire, ma neanche ci importa, noi sappiamo (e se il nostro interlocutore abbassa la media di intelligenza dell'intero quartiere non è nemmeno colpa sua). E molti di noi hanno avuto problemi con il modo con cui l'hanno conclusa (per ora). E allora che fare? Allora ho deciso che la storia provo a scriverla come vorrei fosse andata, magari grazie a qualcuno che ha sempre osservato ma non abbiamo mai visto. Qualcuno che come noi era sempre con loro, ma al contrario nostro ha potuto cambiare le carte in tavola.
Rivivremo la storia, e basterà cambiare una cosa, per cambiare un sacco di cose.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E mi sono ricordata che è venerdì Olèèèèè
Scusate mi autocomplimento, è una piccola vittoria personale.

Questo capitolo è un po' di transizione, non odiatemi mi raccomando, giuro che il prossimo è succulento, per davvero!

Buona lettura!





Dalla tua parte




2014
27 dicembre
Pall Mall
Residenza di Mycroft
 
 

Deve aspettare quasi fino all’alba per vedere Holmes tornare a casa. Sa che deve fare in modo che nessuno dei suoi colleghi possa avere dubbi sul fatto che Sherlock sia davvero l’unica arma di cui sono provvisti contro un ipotetico ritorno di Moriarty.

Lei stessa ha sistemato il video dell’omicidio di Magnussen, modificandolo quanto serviva per far credere che a premere il grilletto fosse stato un soldato troppo celere.

È soddisfatta del lavoro svolto. Bisognava analizzarlo al fotogramma per accorgersi che qualcosa poteva essere stato modificato, e anche se fosse stato fatto, poteva essere plausibile un problema alla scheda video dell’apparecchio, piuttosto che a una manomissione.

Del resto, quello è il motivo per cui, ancora diciassettenne, era stata arruolata.


L’avevano scelta, tenuta d’occhio per parecchi mesi, e solo dopo aver testato la sua bravura l’avevano reclutata. Poteva finire in prigione, ma il suo talento era qualcosa di davvero raro, e loro sapevano essere convincenti.

Lei a diciassette anni non aveva idea di cosa sarebbe stato il suo futuro. Si sentiva abbandonata, sola e arrabbiata.

La promessa di fare parte di qualcosa di grande, di un disegno più ampio, di essere un ingranaggio unico, che poteva fare qualcosa per la Nazione intera l’aveva convinta ad accettare.

L’idea che il padre avesse saputo di quello che aveva fatto e nei guai in cui si è cacciata, la spaventava più dell’idea di una vita sotto copertura con assassini come nemici.

Ma a diciassette anni la morte sembra così lontana, una cosa così distante da sé. Il padre e il suo giudizio invece, erano così vicini e reali che avrebbe fatto di tutto per non averci a che fare.

Ogni tanto pensa a come sarebbe stato se quella volta avesse detto di no, se non avesse accettato. Come sarebbe stata la sua vita senza i servizi segreti? Non è sicura che le cose le sarebbero andate poi tanto bene.

Certo, quello che ha fatto, gli ordini che ha eseguito, le hanno senz’altro strappato pezzi di anima un poco alla volta. Ma senza i servizi segreti forse sarebbe diventata solamente una dei tanti piccoli delinquenti. Non crede che sarebbe stata in grado di fare qualcosa di buono. Lei non è come John.


Anthea l’ha avvisata che stavano finalmente tornando, così quando Mycroft avanza nella stanza, il tè è pronto, la temperatura perfetta, l’infusione da manuale.

Le rivolge un sorriso tirato e stanco.

«Tutto bene?» gli chiede.

«Sì, Sherlock è stato reintegrato, anche se ovviamente lui si comporta come se non lavorasse per noi.» Il tono di voce del suo capo è rassegnato.

«Del resto è Sherlock, ci sarebbe da preoccuparsi in caso contrario.»

«Sì, immagino di sì. Hai fatto un buon lavoro con il video. Hanno riempito di complimenti quell’agente che se ne sarebbe dovuto occupare.»

«Spero gli diano un riconoscimento al suo lavoro, oltre che i complimenti.»

«Ma non è lui a esserselo meritato,» osserva cinico.

«Bah, per come la vedo io, chiunque faccia questo lavoro si merita un riconoscimento.»

«Tutti tranne che te.»

«Beh, Myc, io non esisto, lo sai.» E in effetti è proprio così. Ormai lei esiste solo in funzione del lavoro. E da quando ha iniziato a lavorare per Mycroft, è semplicemente sparita da ogni registro, come se non fosse mai esistita. Sarebbe stato troppo pericoloso per la sua copertura, altrimenti.

«Per essere una che non esiste, hai salvato la loro vita parecchie volte, e nei modi più impensabili,» commenta sarcastico Mycroft, forse neanche troppo.

«Anche tu, Mr. Governo Ombra.»

«Sarai stanca. Perché non vai a riposare?» è bravissimo a cambiare argomento Myc.

Lei l’ha già notato prima: ogni volta che gli fa un complimento, anche minimo, sembra sempre che la cosa lo imbarazzi.

«In realtà ho dormicchiato. Se vuoi posso restare. A meno che non vuoi riposare un po’ tu.»

«Sai, sono stanco, ma non ho voglia di dormire.»

«E che vuoi fare?» chiede incuriosita. Quell’uomo non smette mai di sorprenderla.

«Non so, magari stare qui, a godermi una bella tazza di tè con... Un’amica?» La guarda, indicando la poltrona davanti alla sua.

Lei sorride servendosi una tazza di tè e accomodandosi sul mobilio indicato.

«Hai voglia di spiegarmi cos’è il palazzo mentale? Tu, Sherlock, Magnussen, perfino Moriarty ne aveva uno; ma non ho mai ben capito come funziona.»

«Il palazzo mentale è una tecnica mnemonica. È molto utile se hai bisogno di ricordare tante cose e non vuoi perderle. Il principio è semplice, in realtà. Devi pensare a un luogo – in genere viene scelto un edificio, ma non è scontato. Dev’essere solo un luogo che conosci alla perfezione.»

«Il tuo palazzo mentale non è un edificio, vero, Myc?» chiede, anche se è già sicura della risposta.

«Come fai a saperlo?» La guarda sinceramente stupito.

«Perché è la scelta che viene fatta in genere, e tu non fai le cose come gli altri.»

«Per questo, dici?»

«E perché ricordo la tua espressione mentre guardavi un vecchio filmino delle vacanze. C’eravate tu, Sherlock e i vostri genitori su una spiaggia. Tuo fratello avrà avuto cinque anni e tu circa undici. Lui correva e giocava ai pirati, e voleva trascinarti nell’avventura.»

Gli occhi di Mycroft sono sgranati. «Quando mi hai...?» domanda confuso.

Persino da dove si trova, riconosce il polso accelerato. Riuscire a sorprenderlo non è una cosa semplice.

«La sera del matrimonio,» inizia. «Sono tornata per parlarti perché sapevo di aver reagito male, e ti ho trovato mentre stavi guardando quel video. Ho preferito lasciarti stare. Ero arrabbiata con te, ma mi ero resa conto che non ero l’unica a soffrire in quella faccenda,» rivela un po’ imbarazzata. Un po’ si sente ancora in colpa per come si è comportata; ma all’epoca era arrabbiata, e si sa: la rabbia non è mai la migliore consigliera.

«Mi hai chiamato, quella sera,» ricorda lui.

«Ero arrivata fino al cancello, dopo averti visto. Non mi sembrava giusto disturbarti in quel momento, ma non volevo che pensassi che ero ancora troppo arrabbiata con te da non volerti nemmeno salutare,» spiega, «Comunque è quella spiaggia, vero? È quello, il tuo palazzo mentale.»

«Sei un’ottima osservatrice.»

«Okay, quindi questo palazzo mentale come funziona?»

«È una tecnica antica. Pensa che la utilizzava anche Cicerone. Per iniziare, basta seguire cinque punti: progettare il proprio palazzo della memoria, dare un ordine preciso al percorso che farai nel palazzo, convertire le informazioni da memorizzare in immagini, associare le informazioni codificate in immagini dei luoghi all’interno del palazzo e passeggiare nel proprio palazzo della memoria. Bisogna goderselo e progettare gli ampliamenti.»

«E questo sarebbe semplice?»

«Ti assicuro che è più difficile spiegarlo che farlo. All’inizio si possono trovare difficoltà, specialmente perché siamo abituati a ricordare le cose concatenate tra loro; ma una volta imparato, scoprirai che è molto più utile. »

«Quindi è una cosa che chiunque con un po’ di pratica può imparare a fare?» chiede scettica. A lei, quella cosa, sembra tutto meno che semplice e alla portata di tutti.

«Sì, direi di sì,» conferma lui.

«Ma Sherlock ha detto che stava vivendo il caso Ricoletti, che ne era immerso. Cosa voleva dire?»

«Per ognuno il palazzo mentale è diverso. C’è chi nel proprio palazzo mentale non fa entrare nessuno e lo vive come un archivio, chi invece visualizza persone oltre le cose. Sherlock è senz’altro di questo secondo gruppo. Le persone che visualizza sono la rappresentazione di sentimenti come l’amicizia, la fiducia, ma anche il tradimento, e quel lato malvagio che è intrinseco in ognuno di noi ma che quasi sempre nascondiamo. Oltre il fatto che aveva tante di quelle droghe in corpo che è già tanto se non vedeva gli elefanti rosa volare per l’aereo.»

«Quindi Sherlock ha davvero vissuto l’avventura, come se fosse stato lì?»

«Lui c’era davvero, ragazzina. Quello che succede nella nostra testa a volte è molto più reale della realtà stessa,» dichiara, anche se a lei pare che lo stia dicendo più a sé stesso.

«Posso farti un’altra domanda?»

«Come se avessi modo di impedirtelo.» Un mezzo sorriso spunta sulle labbra dell’uomo.

Si chiede se per lui avere a che fare con una come lei possa essere stancante. È abituato a Sherlock, il quale ha un’intelligenza così simile a quella del fratello, eppure sono profondamente diversi. Entrambi sono veloci nelle deduzioni, svelti e in grado di risolvere i ragionamenti più complicati, lei invece è solo una persona normale, con un’intelligenza nella media. Sa di avere buone capacità, ma non è certo al livello degli Holmes, o di Moriarty. Per lei sono di un altro pianeta.

Però in una cosa è sicuramente brava: scoprire i segreti degli altri. «Che cos’è, o meglio, chi è Barbarossa?» chiede con finta innocenza. Non ha mai investigato, ma quel nome è uscito per caso in momenti non collegati tra loro ma che per lei avevano un chiaro denominatore comune: Sherlock.

«Come fai a sapere di Barbarossa?» le chiede Mycroft, non riuscendo a nascondere la sorpresa.

«Lo vuoi davvero sapere?» domanda lei con un sorriso furbo sulle labbra.

«No, meglio di no,» ammette lui.

«Però non ho indagato. Se non vuoi dirmelo, fa nulla. Non cercherò informazioni,» aggiunge, temendo di aver beccato un nervo scoperto.

«In realtà non c’è nulla di segreto, solo che riguarda Sherlock. Non è una questione di lavoro. Si tratta di famiglia.»

«Lo immaginavo.»

Lui solleva lo sguardo e la osserva con curiosità. Lei non può non domandarsi che cosa vede quando la guarda.

«Quando Sherlock aveva sui cinque, sei anni, proprio nell’estate di quel filmino, incontrò Victor un bambino della sua età. I genitori vivevano in una villa abbastanza vicino alla spiaggia che frequentavamo. Sherlock non aveva amici, non è mai stato molto a suo agio con le persone, ma a quel bambino sembrava non importare dell’intelligenza di mio fratello. Giocavano insieme, e io finalmente ero libero di tirare un sospiro di sollievo perché potevo leggere in santa pace senza venire trascinato a cercare tesori nascosti e stupidaggini simili.» Le sue mani si muovono nell’aria come a scacciare una mosca.

«Ammettilo: un po’ ti mancava.»

«Non so di che stai parlando...» nega subito, ma poi ammette: «Va bene, forse un po’, ma solo un poco.»

Lei si lascia scappare una risata, a cui Holmes risponde con un piccolo sbuffo.

«Comunque sia, giocavano e sembrava felice, quindi non mi sono preoccupato più di tanto. Un giorno, trovarono un cucciolo di setter. O meglio: somigliava a un setter. Essendo abbandonato, doveva essere qualche incrocio non voluto. Per la prima volta litigarono perché entrambi volevano tenerlo ed entrambi volevano dargli il nome. Ma Sherlock non poteva tenerlo, papà è allergico, così lo prese Victor. Ma non riuscivano a trovare il nome per il cane.»

«Lo chiamavano cane?» chiede scettica.

«Non mi sono mai posto il problema, sinceramente. Non facevo caso a tante cose, in quel periodo. Se l’avessi fatto, le cose sarebbero potute andare diversamente. Sherlock, se possibile, dopo il ritrovamento del cucciolo, passava ancora più tempo con Victor. Era invitato alla villa dei Trevor spesso e volentieri, e ogni volta che il tempo non era adatto per passare la giornata in spiaggia ci implorava di farlo andare da Victor. Nessuno trovava un motivo per non assecondarlo. Il problema è che Sherlock era un buon osservatore fin da bambino, e il padre di Victor non era esattamente il più innocente dei sudditi della Regina. Abbiamo scoperto che era un truffatore e aveva le mani in pasta in parecchi giri loschi.
Ovviamente allora non lo sapevamo, e Sherlock non aveva idea che dire la verità gli avrebbe fatto perdere l’unico amico che avesse avuto fino a quel momento.»

«Aveva notato qualcosa che non doveva?»

«Sì, ovviamente. Quell’uomo ha preso tutte le cose di valore e la famiglia, ed è sparito in una notte. Quando Sherlock andò alla villa, dopo un pomeriggio ad aspettare inutilmente il suo amico, la trovò vuota. C’era solo il cane con un biglietto al collo. Era di Victor che diceva a Sherlock che suo papà era molto arrabbiato per qualcosa che lui aveva detto e che quindi aveva deciso di partire. Gli lasciava il cane, perché non poteva portarlo con lui. “Sono felice di essere diventato tuo amico, ma è meglio che ti scordi di me, Barbagialla,” c’era scritto. “Non ci rivedremo più, addio”. Barbagialla era il nome con cui si faceva chiamare Sherlock quando giocavano ai pirati con Victor. Barbagialla e Barbarossa. Quando trovai Sherlock, era quasi notte. Era ancora alla villa e accarezzava il cane che scodinzolava ignaro di tutto. Mi fece leggere la lettera e mi implorò di tenere Barbarossa. Aveva scelto il nome del cane, evidentemente. Nostro padre ha accettato di tenerlo a patto che sarebbe stato in giardino e che ce ne saremmo occupati noi. Per fortuna la sua allergia non era particolarmente forte e con un antistaminico sempre a portata di mano non è andata tanto male. Barbarossa morì quando Sherlock era all’ultimo anno di liceo.»

«E tuo fratello si è sentito abbandonato di nuovo.»

«Mio fratello ha continuato a non avere amici. Non ci si trovava, non si fida facilmente delle persone.»

«E poi è arrivato John.»

«Sì, poi è arrivato John.»

La luce della mattina oramai è forte.

Si rende conto che il rapporto che ha con Mycroft Holmes è qualcosa di molto diverso da quello che credeva sarebbe diventato la prima volta che lo ha incontrato.

“Prendere un tè con un’amica”. Così ha detto, quindi quello significa avere un amico? Qualcuno con cui si può non avere segreti, che conosce il peggio di te ma non scappa?

«Forse è meglio se riposiamo un paio d’ore, che ne dici?» le chiede, gli occhi sono stanchi.

«Forse sì.» Si alza, avvicinandosi alla porta.

«Usa una delle stanze degli ospiti. Oscar ne prepara sempre una quando vieni qui.»

«Grazie.»

«Di niente. Ah, ragazzina?»

«Sì?»

«Quei due tizi che hanno preso nell’ufficio di Magnussen sono puliti. Sono stati pagati per permettere la fuga di Moran, ma non avevano alcuna idea di cosa volesse fare. Pensavano fosse semplicemente una spia industriale.»

«Li avete lasciati liberi?»

«Sì, ma li teniamo sotto controllo per sicurezza. Almeno fino a quando Moran è ancora tra noi. Ma non credo avremmo notizie da loro.»

«Grazie di avermelo detto.»

«Di niente. Ora vai a riposare.» Si alza dalla poltrona, avvicinandosi alla porta. «E credo che lo farò anche io.»




Continua...



Note: Lo so cosa aspettate e davvero, manca poco. In questo capitolo, che poi è un lungo dialogo tra Mycroft e la "sua" ragazzina, di azione non ce nè, ma credo fosse importante spiegare alcune cose, sistemarne altre e chiudere qualche capitolo. Per le "informazioni" sulla tecnica del palazzo mentale mi sono affidata a internet ovviamente, semplificando al massimo. Grazie come sempre per le recensioni e per il tanto amore che date a questa storia! Riuscirò venerdì prossimo ad accorgermi che è venerdì? Si aprino le scommesse XD
  
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