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Autore: Mispon_    19/10/2019    2 recensioni
I pokémon sono creature misteriose che vivono negli habitat più disparati: dalle impervie montagne innevate ai bui fondali oceanici, dalle foreste più selvagge alle grandi metropoli industrializzate. Questi esseri vivono in perfetta armonia con gli esseri umani e il loro legame viene a concretizzarsi nel fenomeno delle lotte tra pokémon.
In questo contesto uno scienziato, il Prof. Y. Okido, crea il Pokédex, un'enciclopedia multimediale che raccoglie i dati di tutti i pokémon della regione di Kanto. Il suo desiderio è quello di affidare il Pokédex a due giovani allenatori per testarne il funzionamento. Ma qualcosa va drammaticamente storto...
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blue, Red
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Videogioco
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Capitolo 6 - Le radici di un conflitto


“Takeshi è stato ucciso il 15 novembre. Il giorno dopo anche Kasumi è stata ritrovata priva di vita. Oggi è il 20, è passato molto più di quanto mi sarei aspettato. Mi chiedo che cosa tu abbia combinato in questi quattro giorni. Forse qualcosa non è andato per il verso giusto? Eh, brutto bastardo?”
L’uomo era seduto a terra con le gambe incrociate. Aveva una corporatura robusta, sembrava tenersi molto in forma per uno della sua età. Il portamento militare, i capelli biondi squadrati, lo sguardo fermo e penetrante non lasciavano spazio a interpretazioni: il suo spirito era quello di un soldato temprato dalla guerra. Dall’altro lato dell’arena il ragazzino con la visiera abbassata lo fissava con attenzione. Stava studiando la situazione in attesa di fare la sua mossa.
“Non preoccuparti. Qui ci siamo solo io e te. Dopo aver saputo quello che hai fatto non avrei mai potuto mettere in pericolo i miei uomini come se nulla fosse successo. Ma non credere di ritrovarti di fronte a uno sprovveduto: giocherò tutte le carte che ho in mano per schiacciarti. Ti farò provare un dolore mille volte superiore a quello che hai provocato ai miei compagni.”
Non ottenne risposta. L’intruso si guardava attorno, probabilmente alla ricerca delle telecamere di sicurezza. “Se non hai intenzione di dire nulla allora lascia che sia io ad avere l’onore di fare la prima mossa. Tu lo sai già ma il mio codice morale mi impone di presentarmi: io sono Mathias Surge, capopalestra di Kuchiba specializzato nel Tipo Elettro.” E così dicendo premette il pulsante di un telecomando che estrasse dalla tasca dei pantaloni.
Di colpo dal pavimento fuoriuscirono numerosi cilindri. Il ragazzo indietreggiò rapidissimo: erano dei generatori di corrente ad alta tensione ed egli si trovava proprio nel bel mezzo dei flussi. Un passo falso e sarebbe morto folgorato in pochi istanti. Surge si alzò ed estrasse numerose Pokéball da uno scompartimento che si apriva dalla parete di fondo della Palestra. Dai dispositivi fuoriuscirono decine di pokémon della stessa specie: erano delle sfere metalliche in grado di levitare, con un grande occhio al centro e due calamite collegate al corpo principale; alcune di esse erano organizzate in gruppi da tre. Si trattava di Magnemite e Magneton. I pokémon si disposero in cerchio attorno l’assassino, legandosi tra loro sfruttando la forza attrattiva delle calamite, e iniziarono a ruotare a gran velocità. Avevano generato una vera e propria tempesta magnetica: le orecchie del ragazzo iniziavano a fischiare, quell’attacco gli stava causando un fortissimo mal di testa. La distanza tra i generatori era troppo breve perché potesse schierare un pokémon di grandi dimensioni senza che questo venisse danneggiato dai flussi e lo sciame di Magnemite riduceva ulteriormente lo spazio di manovra. Se voleva uscire da quella situazione doveva pensare a una strategia. I generatori erano quindici, disposti su tre file parallele; se il pavimento fosse stato un piano cartesiano, la corrente avrebbe percorso un tragitto che collegava i cilindri sull’asse verticale e su quello orizzontale. Non li collegava sulla diagonale, o sarebbe stato già colpito in pieno, ne sembrava estendersi al di sopra dei cilindri in quanto non interferiva con i Magnemite. Si delineavano così otto “caselle” approssimativamente quadrate separate le une dalle altre da intensi flussi di corrente. Egli si trovava nella casella di fronte al capopalestra, ma nella fila più distante.

Ragionando sulla disposizione di quella trappola mortale al ragazzo balenò in testa un’idea.
Lanciò una Pokéball verso l’alto, al di sopra della schiera di nemici: a mezz’aria si materializzò Raichu. In quell’istante pokémon e allenatore incrociarono i propri sguardi. Non c’era bisogno di parole, la bestia intese subito la strategia del suo compagno osservando la posizione delle sue mani. Invece di toccare il suolo il topo elettrico utilizzò la coda per aggrapparsi ad un Magnemite. Gettandosi in avanti, riuscì a portare il pokémon calamita al di fuori dello sciame principale e atterrò a qualche metro di distanza dal suo allenatore. Adesso Raichu e Magnemite si trovavano in una “casella” della trappola differente da quella iniziale, si erano spostati in avanti a sinistra. Surge osservò la posizione del mostro avversario e si preparò al contrattacco. Si diresse di nuovo verso la parete di fondo per scegliere la sua prossima arma. Quando si voltò, però, l’assassino era di fronte a lui. Tirò un pugno sorprendentemente potente per un ragazzino e il capopalestra cadde al suolo, di fianco. Il tonfo ruppe in mille pezzi il telecomando con cui prima erano stati attivati i flussi, che si dissolsero.
Ancora un po’ intontito Surge si rialzò. Il ragazzo aveva adesso indietreggiato, recuperato la Pokéball di Raichu e ritirato il suo compagno. Lo sciame di Magnemite e Magneton era già stato messo fuori gioco. Inizialmente il capopalestra non aveva realizzato: era stato tutto incredibilmente veloce, non aveva avuto il tempo di riflettere. Ma per uno specialista del Tipo Elettro non era così difficile capire le dinamiche dell’accaduto: “Un condensatore, eh?”, fece rivolgendosi al ragazzo. Aveva ragione: la coda di Raichu e la calamita di Magnemite si erano inserite nel flusso di corrente e avevano funto da armature di un condensatore. La cosa era possibile perché entrambi erano pokémon elettrici. Il condensatore è un elemento circuitale che permette il passaggio di corrente e che tuttavia costituisce quello che in gergo viene chiamato “aperto”. Se la corrente che circola supera la capacità portante del condensatore, lo spazio vuoto tra le armature interrompe il flusso e genera un cortocircuito. Sfruttando questo principio era quindi possibile disattivare in una sola mossa ben cinque generatori, quelli disposti in serie su una riga. La sequenza minima di mosse da compiere, perciò, era la seguente: generare un condensatore per disattivare la seconda riga, avanzare nella seconda casella, generare un condensatore per disattivare la terza riga (questo avrebbe riattivato la seconda, quindi i movimenti dell’allenatore e di Raichu dovevano essere perfettamente sincronizzati), avanzare. Questo era l’unico modo per sconfiggere la trappola e quel ragazzo era riuscito a capirlo in pochi secondi.
“Sei stato impressionante”, affermò Surge (lo pensava davvero), “Ma la vera battaglia inizia adesso, bastardo.” Il capopalestra schierò all’unisono quattro pokémon: Magnezone, un ammasso metallico simile a un disco volante generatosi dalla fusione dei tre corpi che formano un Magneton; Electabuzz ed Electivire, due enormi scimmioni in grado di generare corrente ad alto voltaggio; Jolteon, evoluzione di Eevee di Tipo Elettro dalla pelliccia altamente ionizzata. Quella squadra aveva il potenziale bellico di dieci plotoni. Alcuni di quei pokémon non erano nemmeno originari della regione: Surge aveva girato il mondo con quei suoi fedeli alleati. L’assassino, come di suo solito, schierò un singolo pokémon: era Venusaur, un mastodontico rettile quadrupede sul cui dorso cresceva un bellissimo fiore dalle tinte rosacee. Poteva sembrare una mossa sciocca, ma aveva senso nell’ottica di chi si crede di molto superiore all’avversario: se avesse mandato sei pokémon contemporaneamente la situazione sarebbe stata caotica e difficile da prevedere. In questo modo i pokémon nemici avevano soltanto due possibilità: attaccare Venusaur o scagliarsi contro il suo allenatore. Per prevenire il secondo scenario Venusaur, rispondendo ad uno schiocco di dita del compagno, creò una barriera di resistenti radici che fuoriuscirono dal terreno racchiudendo l’allenatore in una sorta di bozzolo: un uso inconsueto della mossa Radicalbero. Da uno spiraglio frontale l’assassino poteva osservare e dirigere lo scontro. A schierarsi in prima linea furono Electabuzz ed Electivire. Nonostante fossero di Tipo Elettro conoscevano le mosse Fuocopugno e Gelopugno (Tipo Fuoco e Ghiaccio), entrambe devastanti per un Tipo Erba come Venusaur. Sulle retrovie Jolteon attaccava sparando i suoi rigidissimi peli ionizzati sul nemico: colpiva così con la mossa Missispillo senza esporsi a inutili rischi. Magnezone levitava al di sopra dell’arena grazie ai suoi campi magnetici; attendeva il momento giusto per colpire il bozzolo di radici. La battaglia entrò in fase di stallo per alcuni minuti: Venusaur riusciva a colpire i due oppositori più vicini sfruttando radici e le due grosse liane che gli sporgevano dalla base del fiore, ma allo stesso tempo aveva incassato numerosi pugni. Mentre Electabuzz sembrava iniziare a cedere, il più robusto Electivire sembrava essersi appena riscaldato.
La situazione ebbe una svolta quando Venusaur, utilizzando le sue liane, deviò i proiettili di Jolteon verso l’alto creando una breccia nel soffitto. Il sole del tardo pomeriggio filtrò nell’arena: era un enorme vantaggio per il rettile! Utilizzando la mossa Sintesi il fiore che aveva sulla schiena poteva infatti convertire in energia la luce solare. Sarebbe stato più efficacie nelle ore più calde della giornata, ma quella tecnica bastava per rendere Venusaur praticamente imbattibile. Surge se ne accorse molto presto: in men che non si dica una radice colpì duramente Electivire e mise definitivamente fuori gioco il suo compagno, che il capopalestra riuscì fortunatamente a ritirare in tempo. Ma l’uomo non si perse d’animo. Aveva avuto un’idea: “C’è uno spiraglio. Ma non esiste vittoria senza sacrificio.”
A un suo ordine Jolteon scattò in avanti e si diresse con Electivire verso il nemico. Dovevano avvicinarsi il più possibile per poi rilasciare un grandissimo quantitativo di scariche elettriche. Mosse come Tuono o Sprizzalampo sarebbero state sufficienti. Venusaur non indietreggiò e anzi si preparò a ricevere il colpo. Delle radici fuoriuscirono dal terreno. Entrambe le parti colpirono il bersaglio. Ma se Venusaur non sembrava che aver riportato lievi ferite, la spalla della scimmia elettrica era stata interamente trafitta mentre Jolteon giaceva al suolo. Aveva vinto. Si preparava a utilizzare nuovamente Sintesi. Ma un brivido percorse i muscoli della bestia: faceva fatica a muoversi. Surge dall’altro lato dell’arena sorrise trionfante mentre ritirava nelle proprie Pokéball i due compagni esausti: “Il tuo pokémon è stato paralizzato. E non solo: il tempo che impieghi per curarti con la luce solare, quello che intercorre tra una fuoriuscita delle radici e l’altra, tutto quanto volge a mio favore. Sarai troppo lento per fare qualsiasi cosa. Magnezone, adesso!” Il pokémon calamita aveva avuto tutto il tempo di raggiungere il bozzolo che proteggeva l’assassino. Con Venusaur intento a recuperare era assolutamente indifeso. Quello di Electivire e Jolteon era stato un diversivo suicida. Era finita: Magnezone canalizzò un raggio di energia luminosa e lo sparò sull’involucro di radici, che esplose in mille pezzi.
Fu solo dopo alcuni istanti che il capopalestra se ne accorse: quell’involucro era vuoto. L’assassino era dietro di lui. Per tutta la durata dell’incontro le radici di Venusaur avevano scavato le fondamenta della Palestra. Dal bozzolo avevano creato un tunnel che aveva permesso all’allenatore di muoversi indisturbato per poi risalire e coglierlo alle spalle. Non avrebbe mai potuto accorgersene: l’avversario era stato silenzioso come sempre, non era strano che non avesse detto una parola. Improvvisamente iniziò a sentire freddo. Aveva una lama conficcata nel petto.


Sembrava un giorno come tanti altri. Alla base erano tutti quanti indaffarati nelle proprie faccende. Le nuove reclute si stavano adattando a quell’ambiente caotico. Alcuni soldati giocavano d’azzardo all’insaputa dei superiori, molti dormivano, i più volenterosi si allenavano e davano una mano nella manutenzione della struttura. Due giorni prima erano arrivati dei rifornimenti alimentari dall’entroterra e tutti erano più sereni del solito. Verso le tre giunse la notizia: un aereo americano era stato intercettato presso lo stretto di Bering; i prigionieri - tre soldati semplici e il pilota - sarebbero stati portati alla base a momenti. Ad arrivare però fu soltanto uno: i soldati si erano suicidati lungo il tragitto per non rivelare informazioni al nemico. Il pilota, un ragazzo alto e magro dai capelli dorati, fu accolto dalle truppe giapponesi con insulti e sputi. Venne condotto in una cella nei sotterranei della fortezza. Trascorse molti giorni senza che nessuno gli rivolgesse la parola e dovette andare avanti con un misero pasto al giorno. Ebbe una paura indescrivibile. Temeva di essere dimenticato lì. Ma ancor di più temeva le torture che avrebbero potuto infliggergli i giapponesi. Aveva deciso che qualsiasi cosa gli avessero chiesto avrebbe risposto. Onore? A che serve l’onore da morti? Ma poi si chiedeva: che cosa avrebbe detto se gli avessero chiesto qualcosa di cui non era a conoscenza? Gli avrebbero creduto? E se invece per sicurezza avessero provato a torturarlo? Vomitava al solo pensiero. Egli era solo un giovane pilota: non era così che avrebbe voluto trascorrere la sua vita. Fino a pochi anni fa gli era ancora concesso di fare tutto quello che voleva. Dove erano finiti quei giorni in cui poteva permettersi di festeggiare tutta la notte con i suoi amici accompagnato da un bel boccale di birra? Avrebbe voluto trascorrere un’esistenza semplice come quella, senza pretese o ambizioni, e invece adesso si trovava coinvolto in questo eterno conflitto. La birra in quei momenti gli mancava davvero tantissimo.
Non seppe dire da quanto era dentro quando lo vennero a trovare per la prima volta in cella. Settimane? Mesi? Il tempo lì dentro non aveva significato. Ma ad un certo punto arrivò. Era un ragazzo giovane e in forma. I capelli mossi che facevano filtrare la luce solare dall’esterno della cella gli conferivano un aspetto etereo. Ma ciò che più colpì il prigioniero furono i suoi occhi. Profondi, freddi, indecifrabili, era possibile cogliere al loro interno infinite sfumature di colore. Era ipnotizzato: sarebbe potuto restare a fissare quegli occhi in eterno. “Alzati! Abbiamo delle domande da farti.” Anche la sua voce era singolare. Sembrava toccare frequenze diverse da quelle dei normali esseri umani. Una sensazione difficile da esprimere a parole.
Il pilota si affrettò a seguire quell’uomo. Aveva a malapena la forza di reggersi in piedi ma in quel momento non ci fece caso. Fu attirato come un magnete dal carisma di quella persona. Quando arrivò nella sala dell’interrogatorio tornò in sé: a dirigere la serie di domande era un altro soldato, un anziano signore che dava tutta l’aria di non essere granché sveglio. Il ragazzo dagli occhi ipnotici aveva il fianco appoggiato a una parete e seguì tutto con grande attenzione. In meno di un’ora il vecchio terminò il suo lavoro e rispedì il prigioniero in cella: non era emerso nulla di interessante. Si trattava soltanto di un gruppo di sprovveduti che si era convinto di poter attraversare la frontiera in volo per fare colpo sull’esercito. Eppure chiunque sa che le temperature sono troppo basse in quel punto per una traversata del genere. Riassaporata la libertà per così poco, il pilota doveva ora tornare in quella buia topaia per chissà quanto altro ancora. E se fosse rimasto lì per sempre? Tremava. Ma il suo soggiorno da quel momento sarebbe stato molto più piacevole.
Pochi minuti dopo il suo rientro una voce lo chiamò: il ragazzo di prima era tornato. “Allora, ti va di ricominciare? Perdona quel vecchio rimbambito per aver gestito così male l’interrogatorio. Deve essere sfinito da così tanti anni di servizio.”
“Che cosa vuole? Ho già detto tutto quello che sapevo.” Il prigioniero era consapevole che, a prescindere dall’impressione che quel ragazzo gli aveva fatto, stava pur sempre conversando con un giapponese. Non era nella posizione di poter rispondere a tono ma era almeno necessario sondare le intenzioni del nemico.
“Hai solo risposto a tutto quello che ti hanno chiesto. Come ti chiami?” Nel mentre si accendeva una sigaretta.
“Surge. Mathias Surge. È così importante?” Non capiva che cosa quel personaggio stesse davvero cercando.
“Certo che è importante. I nomi rivelano molto delle persone. Il tuo ad esempio vuol dire “dono della divinità”. Lo sapevi?”
“No. In realtà no.” Non aveva mai pensato al significato del suo nome.
“È un bel nome: dovresti andare fiero del significato che porta. Nei nomi sono contenute le aspettative che le nostre famiglie ripongono in noi. Per questo dobbiamo impegnarci affinché i loro significati si concretizzino nelle nostre vite.”
“Lei come si chiama?”
“Aka. Furiko Aka. E puoi darmi del tu.” Sorrise. Il suo volto non si limitava a ispirare fiducia. Era come se conoscesse quel ragazzo da una vita. Avrebbe potuto confessargli i suoi segreti più intimi senza sentirsi a disagio.
“E che cosa vuol dire, il tuo nome?” Ci fu una pausa.
“Nulla. Purtroppo non vuol dire nulla. Solo una serie di caratteri privi di significato. Evidentemente la mia famiglia non ha mai riposto nessuna speranza in me. Per questo ti dico di andare fiero del tuo. Sembri molto giovane. Quanti anni hai?”
“20. Sono dovuto entrare nell’esercito due anni fa.”
“Tu pensa! Abbiamo la stessa età. La guerra deve essere stata davvero dura. Io sono arrivato alla fortezza solo da qualche mese. Ho trascorso quasi due anni nei territori interni, dove i disordini sono più rari e facili da sedare.” Gli porse una sigaretta. Mathias, un po’ imbarazzato temendo di essere scortese, accettò.
“Siete stati voi giapponesi a iniziare tutto. La vostra mania di dominio ci ha portati alla rovina. Avete ucciso, derubato, bombardato. Mia madre è stata uccisa da un soldato della tua nazione. Dimmi: come faccio a soddisfare le aspettative che aveva riposto in me se lei è morta?” Si era aperto. Tutto ciò che pensava di quel conflitto era uscito fuori. Furiko sorrise ancora.
“Credi che siano stati i giapponesi a far scoppiare la guerra? Dimmi una cosa: quando sei arrivato alla base hai avuto modo di dare un’occhiata alla gente che abita in questa fortezza. Chi hai visto? Gente arrabbiata, gente stanca, gente onesta e gente terribile; sono sicuro che te ne avranno dette di ogni tipo. Ma per caso hai visto anche gente soddisfatta della guerra? Credi davvero che anche solo un soldato nell’intera nazione non speri che quella di domani sia l’ultima battaglia? A causare la guerra non sono stati né i giapponesi né gli americani, bensì il Giappone e l’America. Forze superiori e interessi volatili che possono essere compresi soltanto dalle persone che realmente hanno il potere di decidere le sorti di questo mondo. Noi tutti viviamo nel sogno di gloria di quelle persone. L’unica cosa che possiamo fare è adeguarci. Tuttavia questo non vuol dire annullare il proprio codice morale ed essere in balia delle circostanze. Al contrario la virtù è l’affermazione dei propri valori in contesti avversi. In altre parole, io credo che anche in periodo di guerra, in una fortezza nemica, un americano e un giapponese debbano poter discutere senza che la dignità di nessuno venga schiacciata dall’altro.” Mathias era stato muto per tutto il tempo. L’eloquenza di quel ragazzo era fuori dal comune. Come riusciva ad apparire così puro in mezzo a tanto orrore? Per la prima volta nella sua vita stava invidiando una persona. Aveva deciso che voleva essere come quel soldato giapponese.
Furiko continuò: “Toglimi una curiosità. Come speravate di fare? Ad attraversare lo stretto con quell’aeroplano, intendo. Non credo che foste davvero così sprovveduti.”
“Io sono un pilota e un meccanico. Avevo scoperto che sfruttando l’energia elettrica prodotta da alcuni pokémon è possibile evitare che il motore si spezzi a causa del freddo. Il mio fidato Raichu, però, è morto durante il tragitto. Non è stato abbastanza forte.”
“Interessante. Ma non dirlo in giro: una fonte di energia del genere facilmente può essere utilizzata come arma.” Ci fu un breve momento di silenzio. L’aria si fece leggermente pesante: “E perché non ti sei suicidato?” A Mathias raggelò il sangue. Il modo in cui aveva detto una cosa tanto pesante, così naturalmente, aveva dell’inquietante. “I tuoi compagni hanno deciso di porre fine alle loro vite. Perché tu non hai fatto lo stesso? Detto in altro modo: cos’è che ti spinge a vivere?”
Mathias non sapeva cosa rispondere. Aveva deciso di vivere semplicemente perché era un codardo. Non aveva mai pensato che ci dovesse essere un motivo per vivere. Si vive e basta, no? O forse quella era la scusa che si raccontava per non aver mai avuto uno scopo? Adesso per la prima volta, però, un obiettivo ce l’aveva: doveva diventare come lui. Ovviamente il ragazzo non disse nulla di tutto ciò.
“E tu invece? Che cosa ti spinge ad andare avanti?”
“Anche la mia famiglia è morta sotto i bombardamenti. Ma nella mia regione, a Kanto, in una piccola cittadina di campagna, c’è una persona che mi sta aspettando. Quando tutto questo sarà finito mi piacerebbe vivere tranquillo con lei. Ora però devo pensare al mio ruolo qui: non esiste vittoria senza sacrificio; e a tal proposito devo salutarti. Verrò a trovarti ogni giorno, fino a quando non sarai fuori di lì. A domani!”

La guerra terminò tre mesi dopo. Con un trattato di pace l’Unione Americana Settentrionale cedeva la propria sovranità alla Repubblica Nazionale del Giappone. Le politiche di integrazione volute dal governo della RNG permisero a centinaia di soldati americani di arruolarsi nell’esercito nazionale. Mathias Surge scalò in pochissimo tempo le gerarchie militari, divenendo Luogotenente. Mantenne aperti i rapporti con Furiko, che intanto si era sposato e aveva abbandonato la carriera militare. In seguito all’ondata pacifista degli anni ’90 e allo sfoltimento dell’organico militare anche Mathias appese il fucile al chiodo e aprì la sua Palestra a Kuchiba, nel Kanto.


Il primo incontro con Furiko gli passò davanti in pochi attimi. Sentiva l’anima lentamente fuoriuscire dal corpo: “La verità è che da quando sei morto non ho più nessun motivo per vivere. Ma ora che è qui vicino a me, ora che ha affondato una lama nelle mie carni, ora che riesco a guardarlo negli occhi ne sono sicuro: questo è il demone che ti ha ucciso. Non è vero, Furiko?”. Con le sue ultime forze Surge si rivolse al ragazzo urlando: “Stai sottovalutando la forza di un soldato, bastardo! Il codice è “Stretto di Bering”!” A quelle parole dalle pareti fuoriuscirono centinaia di grosse sfere bianche e rosse. Sembravano delle Pokéball, ma erano troppo grandi. Erano Electrode: un pokémon elettrico utilizzato in guerra per la sua potenza esplosiva. L’intero edificio saltò in aria.
   
 
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