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Autore: RaggioDiLuna    30/07/2009    1 recensioni
"Si era sempre ritenuta capace di evitare di costruire castelli in aria da ragazzina sbadata, non aveva mai desiderato castelli di pietra perché mai si era sentita una principessa, e allora si era stabilita sulla spiaggia. I saloni, i balli, gli abiti e la cipria, i pettegolezzi, le dame. Tutto quello non faceva per lei. La spiaggia sì. Elegante, ma non sfarzosa. Qualcuno diceva di lei che aveva un’eleganza innata. Era bello quell’aggettivo. Innata. Naturale, non costruita. La spiaggia deserta, d’inverno, la sentiva simile a sé. Un po’ selvaggia, fuori dai canoni."
non pretendo nulla da questa "storia", se non che chi mi conosce mi veda nella sua protagonista. perchè ci sono io, qui dentro. Io che decido di ritornare a scrivere dopo averne perso il coraggio. la dedico a chi ama scrivere, a chi soffre per qualcuno, alle persone speciali che mi stanno accanto.
e a me stessa.
"Non capiva come avesse potuto lasciarsi trattare come un giocattolo, forse perché in fondo a lui, alle sue mani, alla sua timidezza, il beneficio del dubbio lo concedeva ancora."
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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cause it' never

Di nuovo qui.
Mesi che non scrivo, per non ricordare lui, che scrive come me, per non ricordare il momento in cui tutto è cominciato.
sono riflessioni, è uno sfogo il mio, senza pretese, non implorerò recensioni o altro. Serve a me, per buttare fuori tutto quello che ho e pubblicarla serve a rendere tutto più reale, anche la mia forza.
a dirmi, ogni volta che la vedrò nel mio profilo: almeno non gli hai permesso di allontanarti dalla scrittura.


cause it never began for us,
it’ll never end for us.


When we’ll wake up, some morning rain will wash away our pain.

‘cause it never began for us,
it’ll never end for us.

Svegliarsi.
Tutto ciò che chiede ora.
Chiede di svegliarsi, Stefania, da una notte bella, bellissima, e lunga, troppo lunga.

Una notte durata mesi, di sogni, cuore scoppiato, lacrime amare, speranze deluse, risollevate, suscitate, sbattute a terra.
Su e giù.
Su.
Giù.

Su.
Uno sguardo, una carezza, una parola, un gesto.
Condividere un attimo fugace, che sa di dolcezza, ricordi di zucchero, dita fra i capelli, nelle orecchie una canzone immaginaria che detta il ritmo dei movimenti, che riempie un silenzio di tenero imbarazzo.
Quando due visi si avvicinano portando con sé il cuore, quando il naso porta il profumo dell’altro e gli occhi vedono solo altri occhi.
E poi?

Poi giù.
L’indifferenza, la distanza, uno sguardo fuggito.
La freddezza.

Il non capire.
Beh, ecco, il non capire era la cosa peggiore, per lei.
Di fronte al suo comportamento scostante, al suo cercarla e il giorno dopo fuggire, al suo svelare e ritrarre, ai suoi scatti di rabbia improvvisi, immeritati, prima di un abbraccio e di un sussurro…e poi di nuovo la fuga… di fronte  a tutto questo, Stefania non capiva nulla, non ci aveva mai capito nulla.
L’unica certezza era sempre stata quel su e giù, su e giù.
L’unica costante di quello strano rapporto in bilico tra amicizia e chissà cosa, era il perenne oscillare del suo umore, l’eterno vacillare di deboli e prepotenti speranze dalle ali mozzate.
Non capiva lui, non capiva quel ragazzo così estroverso con tutti, faccia di tolla col mondo, che a volte si ritraeva nel guscio e la mollava lì, la cretina di turno, seminuda di fronte agli occhi della presa in giro, tra le braccia l’ennesima illusione  caduta, come un fagotto ingombrante, pesante.
Non capiva il perché la sua voce a volte l’accarezzasse con complimenti velati per poi sferzarla di rabbia o punirla di gelida indifferenza.
Dubbi.
Dannati, fottuti dubbi, proprio a lei, spirito dalla natura razionalizzante, soffocata dalla necessità di trovare un perché a tutto.
E allora domande, sempre di più, sempre senza risposta. E poi lacrime.
E chiedersi cosa ci fosse di male, in lei, cosa lo allontanasse, cosa gli facesse paura proprio quando lo sentiva più vicino.
Toccata e fuga.
Usa e getta.
E dopo le lacrime, a volte, la rabbia, come un’ancora.
Rabbia che veniva da un orgoglio grande, forse lasciato un po’ troppo libero di crescere negli anni, ma soprattutto ferito.
Erano quelli i momenti di lucidità in cui Stefania sentiva di dover dire basta, chiudere per sempre, e cercava di convincersi  di aver travisato tutto.
Pensava, Stefania, ragionava su tutti i gesti che aveva frainteso, complice la speranza…
…e poi ci ricadeva.
Accadeva dopo un sorriso, dopo una serata passata a guardarsi negli occhi e parlare solo così, con mute occhiate parlanti.
Puff.
Spariti, tutti i suoi bei ragionamenti, nella sua testa solo lo spazio per la voglia di vederlo il giorno dopo, nei corridoi, la nuova spinta a cercare un vestito carino, a sembrare più bella.
E il giorno dopo svegliarsi prima del suono della sveglia, allegra, viva, incapace di sopportare la lentezza delle lancette dell’orologio a muro della classe.
Voglia di risentire le sensazioni della sera prima.
Voglia inutile, perché lui l’avrebbe a mala pensa salutata, quella mattina, se proprio costretto.
Di nuovo, come un eterno ciclo.
Illusione.
Felicità.
Speranza.
Disillusione.
Tristezza, e, forse, orgoglio e rabbia.

Andava avanti da troppo quel sogno.
Gli era penetrato troppo nelle vene, non la lasciava stare. Bastava una giornata di pioggia, di quelle un po’ uggiose, a farla pensare a lui, alle poche volte che l’aveva abbracciata lasciandole intuire qualcosa.
O forse non aveva intuito un bel nulla.
Aveva costruito.
Si era sempre ritenuta capace di evitare di costruire castelli in aria da ragazzina sbadata, non aveva mai desiderato castelli di pietra perché mai si era sentita una principessa, e allora si era stabilita sulla spiaggia.
I saloni, i balli, gli abiti e la cipria, i pettegolezzi, le dame. Tutto quello non faceva per lei.
La spiaggia sì. Elegante, ma non sfarzosa.
Qualcuno diceva di lei che aveva un’eleganza innata.
Era bello quell’aggettivo. Innata. Naturale, non costruita.
La spiaggia deserta, d’inverno, la sentiva simile a sé. Un po’ selvaggia, fuori dai canoni.
Si era illusa che lui potesse apprezzare il suo essere donna senza vestire di rosa, che potesse capire che la sua eleganza, a volte severa, e tutto il suo razionale rigore, non toglievano nulla al suo essere fragile, al suo bisogno di coccole… che la sua efficienza a volte era solo insicurezza.
Lì, armata di tutte le sue stramaledette certezze, aveva preso paletta e secchiello, e pian piano, e-mail dopo sms, cene dopo battute, occhiate dopo abbracci, aveva costruito il suo castello.
Bello.
Splendido.
Enorme.
Con maestria aveva impastato la sabbia e aveva eretto muri alti, aveva scavato gli interni e le porte.
E ci era entrata.
Là si era lasciata cullare dal rumore ritmico delle onde.
Era rassicurante perché era regolare, come il battito del cuore quando non lo vedeva, quando non si sentiva trapassata dai suoi occhi color cielo.
E quando i battiti impazzivano, la sua mente la portava sulla spiaggia, dentro il castello, e sintonizzava il cuore con le onde, fino a calmarlo, ad occhi chiusi.
Perché era così che viveva, ormai. Ad occhi chiusi, per non vedere, per non capire che era tutta un’illusione.
E mentre se ne stava lì, protetta dalle sue palpebre abbassate, non aveva visto le onde accumulare sabbia davanti alla sua porta fino a sigillarla.
Il suo castello era diventato una prigione.
Il suo sogno, una gabbia.
E da dentro, ancora, continuava a non capire.
Non capire lui, ma non capire prima di tutto se stessa.
Non capiva come avesse potuto lasciarsi trattare come un giocattolo, forse perché in fondo a lui, alle sue mani, alla sua timidezza, il beneficio del dubbio lo concedeva ancora.
Non capiva perché, nonostante tutto, sentiva in ogni fibra del suo corpo che sarebbe bastata la sua voce a farla ritornare lì, da lui, ovunque lui fosse.
Perché era un bisogno quasi fisico.
Non capiva perché non riuscisse ad abbattere il castello dentro cui aveva trovato rifugio e prigionia.
Non capiva perché voleva, e non voleva, e poi voleva di nuovo, forse non volendo.

E tante cose possono essere scritte, su un dannato foglio di carta che non da risposte.
Ma le domande continuano a rodere la mente come un tarlo, negano la pace, offrono tormento.
E ancora una volta, Stefania non capisce.
Non sa che fare, perché ancora non riesce a capire se rimpiangerà di più l’essersi lasciata trattare come un giocattolo, o l’averlo rifiutato.
Cerca le risposte che ha sempre avuto, ricerca se stessa, quella di prima. Ma la spiaggia d’inverno, ora, le sembra solo vuota.

‘cause it never began for us,
it’ll never end for us.
  
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