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Autore: Adeia Di Elferas    23/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano aveva la testa pesante. Quando si fu risvegliato del tutto, ci mise qualche secondo a ricordarsi dove fosse. Le prime luci dell'alba rendevano la stanza quasi irriconoscibile, ma con uno sforzo di memoria, riuscì a orientarsi.

Dopo il Consiglio dei Quaranta, non era più rientrato alla rocca, passando il suo tempo dapprima in un'osteria e poi, al calar della sera, cercando qualcuno con cui passare la notte. Non aveva voluto tornare a Ravaldino solo ed esclusivamente per paura di imbattersi in sua madre.

Il giorno prima era riuscito a evitarla, ma sapeva che, dopo quell'ulteriore sua dimostrazione di incapacità – perché era palese che avesse sfigurato, paragonato a uomini come Dipintore o Marulli, anche se quel giorno, almeno, non si era arenato come durante la riunione cittadina plenaria – la Tigre non avrebbe avuto pietà di lui.

Con il passare delle ore, invece, si augurava che la Contessa trovasse cose più interessanti a cui pensare, finendo per dimenticarsi di arrabbiarsi con lui.

Rigirandosi tra le lenzuola ruvide in cui si era trovato ingarbugliato, il giovane si trovò davanti la donna che la sera prima aveva deciso di prendersi. Non era bella, né ordinata. Dal momento stesso in cui l'aveva provato un senso di repulsione, non solo verso di lei, ma anche verso se stesso, eppure non aveva fatto tante storie e, facendole vedere qualche moneta, l'aveva convinta a seguirlo in una locanda.

Di norma avrebbe preferito rintanarsi in un postribolo, ma aveva pochi soldi con sé, e, in più, la maggior parte dei lenoni di Forlì ormai lo osteggiavano apertamente, conoscendo i suoi modi maneschi, e finivano per rovinargli la serata e lasciargli toccare solo le ragazze che nessun altro aveva voluto.

E così aveva dovuto ripiegare su una poveraccia che aveva accettato le sue monete solo per fame.

Ubriaco com'era, il Riario non aveva avuto la forza di accanirsi su di lei come faceva di consueto, addormentandosi subito dopo averla usata come sfogo per le sue voglie, e ora se la ritrovava accanto, ancora addormentata e molto più vecchia e sporca di quanto non gli fosse sembrata alla luce delle torce.

Strizzando gli occhi nel risvegliarsi, la donna fece una smorfia e si risvegliò con un colpo di tosse e una bestemmia. Inorridito per quello che aveva davanti, Ottaviano quasi saltò in piedi, cercando con lo sguardo i propri abiti, lasciati in terra.

“Ma tu sei il figlio della Tigre... Non t'avevo mica riconosciuto...” fece la stracciona, stringendo un po' le palpebre e mettendosi seduta per guardarlo meglio.

Terrorizzato, non tanto per colei che aveva dinnanzi, ma quanto per il tono, che preludeva a qualcosa di spiacevole, il Riario si infilò in fretta le brache e afferrò il giubbone lasciato sul pavimento, senza perdere tempo a recuperare anche il camicione.

“Ma dove scappi?” fece la donna, levandosi dal letto e avvicinandosi, i capelli arruffati che le coprivano mezzo volto, dandole un aspetto spettrale: “Mi devi ancora pagare!”

Il giovane, con il cuore che batteva in petto rapido come quello di un passero, andò alla porta e tentò di aprirla. Un po' per colpa della frenesia, un po' della goffaggine dei suoi gesti, non ci riuscì, finendo per essere raggiunto dalla donna che esigeva i suoi soldi.

Avrebbe fatto prima a frugarsi in saccoccia e lanciare qualche moneta per allontanarla da sé e avere il tempo di sgusciare via, ma di fatto la cosa che gli risultò più naturale fare fu allungare le mani e serrargliele attorno al collo.

Strinse per un po', sentendo la voce strozzata della sua vittima rantolare. Mentre lei gli graffiava le dita per tentare di liberarsi, Ottaviano sentiva la mente annebbiata e confusa, perso in un pelago di paura e rabbia.

Di colpo, così come aveva cominciato a stringere, mollò la presa. La donna, che, senza accorgersene, lui aveva sollevato da terra, cadde con un tonfo sordo. Restò immobile qualche istante, e il Riario fu certo di averla uccisa. Anche per questo quando, invece, diede un segno di vita, tossendo, il ventenne cacciò un urlo.

“Taci!” le gridò, dandole un calcio tra le coste, ben visibili sotto la pelle sottile e scarna: “Non dire nulla a nessuno o t'ammazzo!”

La donna, accartocciata su se stessa, non ebbe il fiato nemmeno per lamentarsi. Ottaviano, le mani che tremavano e sanguinavano un po' per i graffi, finalmente prese qualche soldo e lo lanciò al suolo, dandosela poi subito a gambe levate, tanto veloce che l'oste, al piano di sotto, non riuscì nemmeno a fermarlo per farsi pagare la stanza.

 

Caterina era appoggiata alle merlature della rocca con entrambe le mani e guardava la città che si risvegliava pian piano davanti a lei. Era stanca e avrebbe voluto tornare in stanza e provare a dormire, ma da quando il castellano Bartolomeo da Cremona era andata a cercarla per consegnarle la missiva di Corradini, non era riuscita più a stare ferma, finendo per inerpicarsi sui camminamenti e aggirarsi avanti e indietro come un'anima in pena.

L'aria era umida e anche la pietra che stava sfiorando sembrava più fredda del solito. Tuttavia, per essere già novembre, la Contessa si diceva che il clima era abbastanza clemente. Negli anni passati, in fondo, in quel periodo già nevicava.

La missiva di Corradini, di per sé, diceva ben poco, ma quel poco era per la Sforza di grande importanza. Di fatto il Governatore di Imola, di cui lei poteva dire di fidarsi, le assicurava che Vincenzo Colli, l'uomo che le aveva scritto da Milano per consigliarle, tra le altre cose, di regalare un paio di cavalli al Marchese di Mantova, non solo era un referente molto affidabile e corretto, ma addirittura un osservatore eccellente e credibilissimo.

Un po' il contenuto della lettera, quindi, e un po' il frangente in cui se l'era vista recapitare, avevano messo la Leonessa in uno stato di profonda agitazione. Infatti, quando il castellano aveva bussato alla sua porta, poco prima che sorgesse il sole, la donna aveva appena chiesto al soldato che si era portata in stanza, di andarsene, per non farsi trovare lì da nessuno.

Era uno dei cremonesi arrivati proprio con Bartolomeo e Baccino, uno a cui Caterina non aveva mai fatto troppa attenzione fino alla sera prima quando, abbattuta e stanca, sentendosi sola e trovandosi per caso a chiacchierare con lui, non potendo far richiamare alla rocca Pirovano, aveva deciso di concederselo come amante per una notte.

Il soldato aveva avuto la pessima idea, nel sentire bussare, di andare personalmente ad aprire, prima che la Tigre potesse fermarlo. Trovandosi davanti proprio Bartolomeo da Cremona, il giovane aveva iniziato a balbettare e poi si era fatto da parte, rosso come il fuoco, per permettere al castellano di consegnare la lettera alla sua signora che, coprendosi con il lenzuolo, si era trovata a rimpiangere ancora di più il discreto Cesare Feo che, al posto del suo successore, avrebbe almeno abbassato lo sguardo, invece di fissarla con uno sguardo indecifrabile fino all'ultimo istante.

La Leonessa fece un sospiro, ricominciando a camminare, seguendo a spanne il percorso che facevano le guardie di ronda. Stava quasi per decidersi ad andare giù, quando vide, appena sotto la statua di Giacomo, suo figlio Ottaviano.

Sapeva che non tornava a casa dal pomeriggio prima e non aveva alcuna voglia di vederlo. Fin da quella distanza di capiva quanto fosse scapigliato e disordinato e trovarselo davanti conciato a quel modo le avrebbe solo reso più facile dare in escandescenze.

Non avendo né voglia né energie da sprecare per una causa che riteneva persa da sempre, la Sforza si limitò a restare dov'era, sperando che il suo primogenito si sbrigasse a infilarsi in camera, in modo da non doverlo nemmeno incrociare per errore.

 

“Ma non ti vergogni ad andare in giro conciato così?” chiese Bianca, sobbalzando, nel trovarsi accanto il fratello.

Ottaviano, che non si era accorto della presenza della sorella dietro alla colonna, incrinò le labbra e non rispose, lanciando però un'occhiataccia al giovane che era con la Riario e che sembrava molto seccato per quell'interruzione.

“Dovresti essere tu a vergognarti – disse dopo un po', accorgendosi del modo possessivo in cui il soldato teneva posata una mano sul fianco della giovane – a comportarti come una...”

“Attento a come parli!” si difese lei, arrivando, tuttavia, a scostare la mano del suo innamorato, tanto per evitare altri rimproveri: “Altrimenti lo dico a nostra madre e..!”

“Nostra madre!” sbottò il giovane, scuotendo il capo: “Proprio lei non dovrebbe parlare di queste cose, che sappiamo tutti che tipo di donna è.”

A quel punto, il soldato, incerto sul da farsi, sussurrò qualche parola all'orecchio di Bianca che, con un sospiro pesante, fece segno di no e disse: “Dai, vai... Ci vediamo dopo.”

Dopo che il ragazzo si fu allontanato, la Riario fronteggiò di nuovo il fratello, osservando schifata il suo giubbone tutto storto e rendendosi conto che sotto non portava nulla: “Con tutto il rispetto che ti porto, essendo tu mio fratello maggiore, sappi che è molto peggio quello che fai tu, di quello che fa nostra madre.”

“E tu chi sei per dirlo?” la incalzò Ottaviano, gli occhi cerchiati di chi non riesce a dormire normalmente da anni.

“Lascia stare...” fece la giovane, capendo che, come al solito, si stava infilando in un vicolo a sfondo cieco: “Piuttosto, dovresti cominciare a pensare al dopo... Quando dovremo lasciare Forlì, non potrai più vivere come vivi adesso. Impara a regolarti, o ci metterai in pericolo tutti.”

“Lasciare Forlì...” nel tono del primogenito della Tigre si mescolavano bene scetticismo e un filo di paura: “Tanto mica stiamo per andarcene davvero... Chissà quanto tempo ancora...”

“Dipende da quanto saranno veloci i francesi.” la voce della Sforza fece sobbalzare il Riario e anche Bianca, che, la visuale coperta dal fratello, non si era accorta dell'arrivo della madre.

“Quanto tempo credete ci vorrà?” chiese la ragazza, mentre Ottaviano si faceva da parte, tanto atterrito dal fatto che la Leonessa fosse andata a cercarlo – perché quello poteva essere l'unico motivo per cui era arrivata lì proprio in quel momento – da sentire tutta la pancia in subbuglio.

“Difficile dirlo...” fece la donna: “Ma non credo che ci sarà da attendere molto. Probabile che passeremo l'inverno sotto assedio.”

I suoi occhi verdi e distanti si posarono sul figlio più grande che, stringendosi un po' nelle spalle, chinò il capo, diventando terreo.

“Quindi ha ragione tua sorella – gli disse – impara a dominarti, o almeno prova a farlo, perché se dovesse capitare qualcosa ai tuoi fratelli per colpa tua, ti giuro che questa volta non ci sarà scampo per te: ti farò ammazzare ovunque ti andrai a rintanare. Siamo intesi?”

Il Riario annuì e poi, dandole un rapido sguardo, colse in lei un cenno che gli permetteva di andar via e così fece, a passo sveltissimo, senza più guardarsi indietro.

“Farò in modo che non parta assieme a tutti voi.” disse con amarezza la Contessa, rivolgendosi a Bianca: “Non voglio che vi metta in pericolo. Lui lascerà Forlì per conto suo.”

La Riario annuì, tutto sommato sollevata da quella decisione, e poi chiese: “Stavate cercando me?”

“Sì.” annuì Caterina: “E speravo che tuo fratello avesse avuto già il buon senso di chiudersi in stanza, ma...”

Il sospiro della Leonessa la disse lunga su cosa pensava di Ottaviano, tuttavia la ragazza non voleva gettare altra legna sul fuoco, e così fece: “Ditemi tutto.”

“Volevo parlarti proprio della partenza tua e dei tuoi fratelli...” ammise la Sforza: “Ma non qui. Su, andiamo a parlarne in un posto tranquillo... Nella stanza di Giovannino.”

Per quasi un'ora, Caterina ragguagliò la figlia sui dettagli che stava mettendo a punto assieme a Luffo Numai e a Michele Marulli, che aveva saputo proporre l'aggancio giusto per nasconderli, una volta che fossero arrivati a Firenze.

“Però per lui – fece la Tigre, indicando Giovannino, che giocava assorto con il suo cavaliere di legno sul tappeto – ci vorrà più attenzione.”

“Per via di Lorenzo Medici?” chiese Bianca, scorgendo sul volto della madre un tipo di preoccupazione molto più sottile rispetto a quella che di solito manifestava nei confronti della guerra imminente.

La Contessa annuì e poi precisò: “Alla fine capirà che voi tutti siete a Firenze e penserà che vostro fratello sia con voi. Ma lui non deve metterci sopra le mani, in nessun modo, o sarebbe la fine.” la sua voce tremò un momento e poi, tra la rabbia e la delusione, soggiunse: “Lui è mio cognato, il fratello di Giovanni, lo zio di mio figlio... Avrebbe potuto essere una sicurezza, per noi, invece è solo un pericolo.”

“Quindi cosa pensate di fare con Giovannino?” chiese la Riario, sentendo che, in qualche modo, la decisione della madre l'avrebbe coinvolta molto da vicino.

“Le Murate, secondo Fortunati, sono disposte ad aiutarci. Hanno preso con loro la figlia di Ottaviano...” nel dire quelle ultime parole, la Sforza sentì la bocca seccarsi, come sempre, quando si trovava a pensare di essere già nonna e, probabilmente, non solo di Cornelia, viste le abitudini del suo primogenito: “E sembrano ben disposte anche verso Giovannino. Ma bisognerà prendere degli accorgimenti, per lui.”

“Di che tipo?” s'informò la ragazza, stringendosi una mano nell'altra.

“Tanto per cominciare, sarebbe bene che passasse come una bambina.” spiegò la Leonessa: “In fondo è abbastanza piccolo... Con un po' di fortuna a nessuno verrà in mente di controllare cosa c'è sotto i suoi vestiti. E, cosa non trascurabile, nessuno ti conosce, a Firenze. Potresti passare facilmente per una giovane madre in difficoltà o una balia che...”

“Quindi dovrei andare in convento con lui?” chiese Bianca, deglutendo.

Caterina non capì che cosa significasse il tono della figlia. Poteva essere semplice paura, ma anche un rifiuto categorico espresso male...

“Sì.” soffiò la Tigre, improvvisamente molto tesa.

Se sua figlia si fosse rifiutata, non avrebbe saputo che fare. Avrebbe potuto mandare Argentina, ma poteva davvero fidarsi di una donna che era sua serva da così poco tempo? E, in alternativa, a chi altro avrebbe potuto rivolgersi? Nella sua schiera di conoscenze e amicizie, si era resa conto, c'erano praticamente solo uomini. Bianca era l'unica a cui potesse chiedere un favore così grande.

La Riario abbassò gli occhi blu scuro e restò per un po' in silenzio. Ciò che sua madre le stava prospettando era uno scenario che non aveva preso in considerazione nemmeno per sbaglio.

Si mise a ragionare principalmente su due aspetti di quella situazione. Innanzitutto si trattava di una condizione che sarebbe potuta durare anni. E, secondariamente, una volta che Giovannino fosse diventato troppo grande per poterlo far passare ancora per una femmina, che cosa avrebbero fatto?

Scuotendo il capo, per scrollarsi di dosso il panico che quelle domande le stavano mettendo, la ragazza, proprio quando la madre stava schiudendo la bocca per dire qualcosa, fece: “Va bene, lo farò.”

“Davvero?” chiese la Contessa, che si era già preparata a un rifiuto.

“Sì.” annuì con forza Bianca: “Giovannino è mio fratello e io vi devo molto. Starò con lui, e lo proteggerò.”

A quel punto Caterina non trovò altro da fare se non avvicinarsi un po' alla figlia e abbracciarla in silenzio. Restarono strette l'una all'altra per qualche minuto, senza sapere cosa dirsi, ma capendosi ugualmente alla perfezione.

Quando si allontanarono, la prima a parlare fu la Tigre: “Non sai quanto sia importante per me, sapere di poter contare su di te.”

La Riario fece un sorriso triste: “Io ho potuto contare su di voi per diciotto anni. E ho molto da farmi perdonare. Adesso è il momento di pagare il mio debito.”

Anche se la Sforza avrebbe preferito sapere che alla base della decisione della figlia ci fossero solo l'amore per il fratello e l'affetto per lei, apprezzò ugualmente quell'ammissione, trovando che la sincerità fosse una merce tanto rara da dover essere apprezzata più di tutto il resto.

Prendendo con sé il figlio più piccolo, la Contessa andò verso la porta e fece presente a Bianca che se l'avesse cercata, l'avrebbe trovata nella Sala della Guerra, perché doveva controllare delle cose e aveva bisogno di aver davanti una mappa dettagliata.

La giovane non fece ulteriori domande e, salutando la madre con un cenno del capo, si allontanò quasi subito, andando verso le scale. Proprio mentre faceva il primo gradino, qualcosa verso il fondo della rampa attirò al sua attenzione. La voce che la chiamò non suonò nuova alle orecchie della Contessa, che riconobbe subito il tono del ragazzo che aveva visto più volte assieme alla figlia.

Vide il viso di Bianca illuminarsi e subito dopo incupirsi, benché mantenesse il sorriso sulle labbra nel raggiungere il suo soldato. Non era difficile, per la Leonessa, capirne il motivo. In fondo, la Riario aveva appena accettato di chiudersi in convento chissà per quanti anni. Anche se non si trattava di prendere i voti, in un certo senso, avrebbe dovuto rinunciare a tutto ciò che c'era fuori dalle Murate chissà per quanto...

Con Giovannino in braccio, Caterina andò veloce verso la Sala della Guerra, riportando alla mente il profilo di Bianca, già così maturo da farla apparire molto più donna di quanto forse ancora non era. E ripensò a Ottaviano e alla sua imperdonabile ingovernabilità. E dopo di lui, ripensò a tutti gli altri, uno per uno, soffermandosi soprattutto su Bernardino e la sua irrequietezza.

Quando si trovò davanti alla mappa d'Italia, fece uno sforzo disumano per sgombrare la mente e, dando un rapido bacio in fronte al suo ultimogenito, sussurrò: “I tuoi fratelli mi stanno già sfuggendo di mano da anni... Non sarà troppo difficile, per loro, lasciarmi alle spalle e ricominciare...”

 

L'oratore veneziano annuì ancora una volta, mentre il Cardinale Raffaele Sansoni Riario continuava nella sua lunga trattazione.

“E quindi mi sentivo in dovere, in quanto parente prossimo del Conte, esprimermi con voi e cercare rassicurazione in merito all'amicizia che Venezia saprà riconoscere ai miei cugini...” stava dicendo il porporato, le mani dalle lunghe dita che si tormentavano l'una con l'altra, mentre cercava di cogliere ogni sfumatura dell'espressione del suo interlocutore: “In questi momenti concitati, noi italiani dobbiamo imparare a essere uniti... Gli affari sono affari, e di questo non dirò altro, e se il Doge ha deciso di appoggiare re Luigi, ha di certo i suoi vantaggi... Ma qui si tratta di poveri ragazzi in cerca di una protezione...”

“So che vostra cugina, madonna Sforza – fece a quel punto il veneziano, con un sorriso anonimo che avrebbe potuto significare qualsiasi cosa – ha già preso contatti anche con i messi dogali della Romagna, che, immagino, saranno più rapidi di me nel portare la sua richiesta a Venezia.”

“Sì, ma quello...” Raffaele si passò la lingua sulle labbra sottili, indeciso se insistere ancora o meno e poi, con aria cospiratrice, si chinò un po' sull'oratore, che era parecchio più basso di lui, e gli sussurrò, concitato: “Quello che intendo dire è che sarebbe bene che anche voi avanzaste questa richiesta da parte dei miei cugini, così che il Doge sia più convinto che mai ad accettare.”

“In effetti...” fece il messo, con un sospiro, arrivando finalmente a cambiare atteggiamento: “Ecco, in effetti il Doge accorda già protezione a fuoriusciti ed esiliati, non vedo perché non dovrebbe correre in aiuto di qualche ragazzino in difficoltà...”

Il Cardinale, che non aveva avuto pace fin dal momento in cui gli era arrivata la lettera scritta da Luffo Numai per conto di sua cugina Caterina, annuì veloce e confermò: “Infatti, infatti... Che capisca che si tratta di una giusta causa!”

“Tutto ha un costo, ovviamente...” soggiunse il veneziano, inclinando di lato la testa: “Lo Stato di vostra cugina si trova contro tutta Italia o quasi... Difendere i di lei figli non è certo una questione da poco. La Francia, il papa stesso... Siena, Firenze perfino... E chissà chi altri... Una lunga lista di gente che pagherebbe non poco pur di averli.”

Raffaele sentì un blocco di ghiaccio scendergli nella gola. Improvvisamente si rese conto di due cose. La prima: era stato avventato a incontrare il messo veneziano, per un motivo tanto delicato, tra le mura del palazzo papale. Anche se non aveva trovato un pretesto credibile per convocarlo da lui, capì di essere nella tana del lupo a parlare di come dargli la caccia, e quell'evidenza non fece altro che metterlo in difficoltà. La seconda: era stato il solito ingenuo di sempre. Si era illuso, in virtù di chissà quale principio morale, che Venezia non avrebbe preteso nulla, non nell'immediato, almeno.

“Ecco...” tossicchiò, sfiorandosi il crocifisso: “Quello è ovvio, è ovvio...”

Siccome l'oratore sembrava in attesa, come se si aspettasse che le prime monete necessarie a ungere l'ingranaggio stessero per scivolargli in mano, il Cardinale si toccò l'abito con fare eccessivamente scenico e po allargò le braccia.

“Io... Io non pensavo si arrivasse già a discorrere di certe cose e... E non ho con me nulla, per cui...” balbettò.

Il veneziano sospirò e poi, con fare mellifluo, si toccò la fronte, a mo' di saluto e, andando verso la porta della saletta, disse: “Non c'è fretta. O, almeno, io non ne ho. Cercate di capire quanta ne avete voi e quanta ne hanno i vostri cugini. In base a quello, capirete che fare.”

Lasciando Raffaele ad arrovellarsi su cosa fosse meglio fare – impicciarsi del tutto degli affari dei cugini, pagando di tasca propria, o lasciare alla Tigre di Forlì quella decisione – il messo uscì e si allontanò in fretta, senza badare troppo a chi incontrava. E così non si avvide di essere stato scorto da uno dei servi più fedeli del papa che, infatti, non appena vide anche il Cardinale Sansoni Riario lasciare la saletta, corse subito dal Santo Padre.

“L'oratore del Doge?” chiese Alessandro VI, guardando sconcertato il servitore.

Questi annuì febbrilmente, riferendo anche di come il porporato sembrasse turbato. Anche se tutti erano abituati a vederlo spesso pensieroso e teso, quella volta il savonese aveva qualcosa di diverso, come se la questione che lo stesse angustiando fosse molto più importante del solito.

“Dannazione...” soffiò il papa, capendo di colpo quale collegamento potesse esserci tra il Cardinale e il messo di Venezia: “Dannazione...”

Fino a quel momento era stato sicuro che la Sforza avrebbe o tenuto i suoi figli con sé, per evitare a loro di prenderglieli e usarli contro di lei, o che li avrebbe nascosti a casa di qualche suo uomo di fiducia, magari in campagna, o, perché no, perfino nel milanese. Aveva scartato subito Firenze, perché riteneva la Leonessa di Romagna abbastanza sveglia da capire che quella era per i suoi la città più pericolosa al mondo, vista l'ostilità sempre più manifesta di Lorenzo Medici.

A tutto, però, avrebbe pensato, fuorché a Venezia.

Di certo, a quel punto, gli erano chiare almeno due cose. Innanzitutto la Sforza aveva evidentemente deciso di fare la guerra senza bambini attaccati alle sottane e, in secondo luogo, era la via che portava a Venezia, quella da sorvegliare con maggior attenzione. E, in effetti, il fatto che Venezia avesse già deciso di mettere due condottieri come Giacomaccio e l'Alviano sul loro confine, ufficialmente per tutelarsi da eventuali scorrerie francesi non autorizzate, la diceva molto lunga sulla solidità dell'alleanza con la Serenissima...

Il grande naso adunco del Borja vibrò, annusando l'aria un po' chiusa del suo studio e poi, lanciando al suo servo un'occhiata compiaciuta gli disse: “Questa è un'informazione molto preziosa.” e poi, accigliandosi, ordinò: “Per questo pomeriggio fate sapere che sarò impegnato. Ho molte cose di cui discutere con chi di dovere...”

 

Il sole era appena sorto su Forlì, ma alla rocca c'era già fermento. Per la Sforza si trattava di un lunedì come tanti altri, anche se la controllata confusione che animava Ravaldino le sembrava più rumorosa del solito.

L'arrivo di qualche altro nuovo volontario sembrava aver ridato vigore alle truppe di stanza e, in un certo senso, anche la Contessa si sentiva più in forze. Forse era stato un caso, o forse avere la certezza dell'appoggio incondizionato di Bianca nell'accudire Giovannino, le aveva permesso di dormire in modo continuativo per tutta la notte, senza troppi incubi e senza mai risvegliarsi di colpo.

Per prima cosa, quindi, quella mattina era uscita per un'ispezione al Quartiere Militare e poi aveva deciso di andare anche un momento alla cittadella. Era scesa nelle stalle, per controllare ancora una volta la cavalla che il Marchese di Mantova sembrava desiderare tanto da parlarne addirittura coi dignitari stranieri, e poi aveva cercato Giovanni da Casale.

“Pensi che potremmo vederci, questo pomeriggio?” gli aveva chiesto, cercando di non lasciar trasparire granché dalla sua voce.

L'uomo, che non era abituato a vederla esitare a quel modo, aveva avvertito una spiacevole stretta allo stomaco, come un presentimento, ma poi aveva annuito subito: “Va bene... Dopo le quattro dovrei avere un paio d'ore libere.”

La donna l'aveva ringraziato e poi, ricordandogli che l'avrebbe aspettato al solito posto, se n'era andata. Tornata alla rocca, la Contessa aveva pensato di unirsi ai soldati che si stavano addestrando con l'artiglieria al mastio, tra cui c'era anche suo fratello Alessandro, ma proprio mentre saliva le scale, venne richiamata dal castellano.

Con un mezzo sbuffo, la Tigre si fermò e attese che Bernardino da Cremona la raggiungesse. In cuor suo sperava non si trattasse di nulla di importante. Galeazzo le aveva detto che secondo lui dal mastio c'erano dei punti ciechi molto importanti su cui non si sarebbe riusciti in nessun modo a puntare i cannoni e la Sforza voleva accertarsene di persona.

“Questa è per voi, me l'hanno appena consegnata.” disse il cremonese, allungandole una lettera.

La Leonessa ringraziò con un cenno del capo e ruppe subito il sigillo, che non portava stemmi, correndo subito alla firma. Quando lesse il nome di Vincenzo Colli, la sua schiena fu attraversata da un lieve brivido. Il Calmeta le aveva in effetti preventivato una seconda missiva, ma non credeva che sarebbe arrivata così presto.

“Se mi cercate, sono nella mia stanza.” disse in fretta, scendendo quei pochi gradini che aveva fatto in tempo sa salire, e andandosene in fretta.

 
 
   
 
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