Capitolo quinto
With a rope around my neck
In a world that's full of hate
Let me breathe and don't forget
It's not you, it's my own threat
Be my guide in these dark days
I cry out from far away
Don't, don't, don't lie to me
Don't, don't, don't lie to me
With a rope around my neck
I fight the demons in my head
Don't, don't, don't lie to me…
(“Don’t lie to me” – MoonSun)
Giovanni era
veramente fuori di sé dalla rabbia per ciò che Albizzi aveva detto a Cosimo.
Era stata una vera e propria carognata e poi, a dirla tutta, dentro di sé
temeva anche che il Medici, sentite quelle parole, potesse andare dal
Gonfaloniere e denunciare nuovamente l’uomo per aver assassinato suo padre…
insomma, come sempre Rinaldo Albizzi aveva incasinato tutto e lui doveva
rimettere le cose a posto!
“La prigione vi ha
dato alla testa? Ma per quale ragione, per l’amor di Dio, vi è saltato in mente
di dire a Messer Cosimo che avete avvelenato voi suo padre, quando tutti e due
sappiamo benissimo che non è così?”
esclamò il giovane, esasperato.
“Calma, ragazzino
impertinente, io non ho affatto confessato di aver ucciso il padre di Cosimo,
gli ho semplicemente fatto pensare che potrei
essere stato io” precisò Albizzi, con un sorrisetto. “E, ad ogni modo, tu sei
tanto sicuro che non sia davvero io il colpevole?”
“Certo che lo sono,
non siete stato voi” dichiarò sicuro il ragazzo.
“Come fai a saperlo?
Tu non eri nemmeno a Firenze, in quei giorni.”
“Lo so e basta. Voi
non siete così” insisté Giovanni, convinto. “Non dico che non avreste potuto
uccidere il padre di Messer Cosimo, so quanto lo odiavate e forse, in parte,
posso anche capirvi. Ma voi non lo avreste avvelenato. Il veleno è l’arma dei
codardi e voi non lo siete. Se aveste voluto uccidere Messer Medici, lo avreste
aggredito personalmente oppure avreste trovato il modo di farlo condannare a
morte dalla Signoria. Lo so, vi conosco, ormai. Vi sareste vendicato guardando
negli occhi il vostro nemico fino a vedere la vita fuggire via da lui, altro
che veleno…”
Rinaldo perse subito
tutto il suo spirito beffardo: quello che Giovanni aveva detto era
perfettamente vero e, ancora una volta, pensò che quel ragazzino fosse molto
più di ciò che sembrava. Gli aveva letto dentro con una facilità sconvolgente.
“Forse mi conosci fin
troppo bene” mormorò, ancora talmente sorpreso da lasciarsi scappare
l’ammissione che avrebbe voluto tenere per sé. “Hai ragione, io avrei fatto
così. Non ho avvelenato io il padre di Cosimo.”
“Questo lo sapevo
già” replicò il giovane, senza scomporsi. “Ma si può almeno sapere perché avete
voluto far credere a Messer Cosimo di essere stato voi?”
“Non è questo ciò che
ho fatto, in realtà. Ho detto quelle parole a Cosimo perché vivesse nel dubbio,
perché si torturasse per tutto il resto della sua vita chiedendosi se veramente
avesse salvato la vita a colui che aveva ucciso suo padre” spiegò Albizzi, come
se fosse la cosa più normale di questo mondo.
“Beh, allora siete
veramente un gran pezzo di… cioè, volevo dire che… insomma, è così che
ringraziate chi vi salva la vita? Allora io dovrò preoccuparmi parecchio”
commentò Giovanni, senza peli sulla lingua.
“No, tu no,
ragazzino” sorrise Rinaldo, che adesso si divertiva assai. “Il fatto è che
Cosimo credeva di essere a posto con la sua coscienza per avermi salvato, si
sentiva un grand’uomo, il generoso e misericordioso Cosimo de’ Medici. Pensava
che, per essermi venuto in aiuto oggi, io potessi perdonarlo per ciò che ha
fatto alla mia famiglia più di vent’anni fa… e io gli ho fatto capire che si
sbagliava di grosso. Quello che ha fatto allora, tradendo la mia fiducia e
distruggendo la mia famiglia, non potrà mai essere perdonato, qualsiasi cosa
Cosimo pensi di fare.”
“Santa pazienza, non
si può dire che siate uno che non porta rancore! Vi ricordate ancora, magari,
dei compagni di giochi che, quando eravate piccolissimi, vi hanno rotto un
giocattolo o tirato i capelli? O forse li avete già sfidati a duello e
ammazzati tutti?” commentò il ragazzino, caustico.
Rinaldo avrebbe
voluto offendersi, ma con Giovanni proprio non ce la faceva, il suo modo di
provocarlo e prenderlo in giro era per lui irresistibile e l’unica reazione che
ebbe fu scoppiare in una sonora risata.
“Ti prendi un sacco
di libertà con me, ragazzino insolente… guarda che non resterò sempre dietro
queste sbarre” lo minacciò scherzosamente.
“Oh, beh, allora devo
preoccuparmi davvero, a quanto pare mi avete messo nella vostra lista nera e tra vent’anni verrete a
cercarmi per tagliarmi la gola!”
In realtà Rinaldo
avrebbe voluto fare ben altro a Giovanni e proprio lì, in quella cella, senza
dover aspettare vent’anni… Tuttavia cercò di darsi un contegno.
“Immagino che andrai
a dire a Cosimo quello che, involontariamente, ti ho confessato e che il mio
piano di lasciarlo macerare nel dubbio sia fallito” disse, ma sembrava che, a
quel punto, non gli importasse nemmeno più di tanto.
“Vorrei ben vedere,
certo che lo farò! La vostra è stata una vera carognata… e pensare che io ero
venuto qui per dirvi che intendo venire in esilio con voi” ribatté il ragazzo.
Se Rinaldo era già rimasto
stupito, queste ultime parole di Giovanni lo lasciarono davvero senza fiato.
“Cosa hai detto? Tu…
vuoi venire in esilio con me, fino ad Ancona?” domandò, turbato. “Ma non eri
venuto a Firenze proprio perché volevi riabilitare il nome della tua famiglia e
vivere nella città dei tuoi antenati?”
Giovanni, questa
volta, ebbe la decenza di arrossire almeno un po’…
“Beh, mi sono reso
conto che Firenze è sopravvalutata e che starò benissimo anche ad Ancona”
rispose, naturalmente credendo che non si capisse che Firenze, senza Rinaldo,
perdeva tutto il suo fascino! “In quanto ai miei antenati, credo che sarebbero
orgogliosi di vedermi prendere le parti di un altro esiliato. E poi non è mica
detto che sia per sempre, magari anche voi farete come Messer Cosimo e, tra
qualche anno, potrete tornare qui.”
“E tu vorresti venire
con me e rischiare di non poter più tornare nella città che avevi sempre
sognato?” insisté Albizzi.
“Non fatela più
grande di quanto non sia” cercò di minimizzare Giovanni, a disagio. “Credevo
che Firenze fosse cambiata, dai tempi dei miei antenati, invece è sempre una
città in cui covano rancori e rivalità e dove le famiglie sono pronte a
distruggersi l’un l’altra. E poi non posso mica lasciarvi da solo ad Ancona…
chissà quante ne combinereste, di voi non ci si può fidare!”
Il ragazzino aveva
cercato di buttarla sullo scherzo, ma Rinaldo aveva capito anche quello che lui
non voleva dire. Allungò un braccio tra le sbarre della cella, prese Giovanni e
lo attirò a sé per stringerlo e baciarlo profondamente, un bacio lento,
intenso, caldo e intimo nonostante la separazione data dalle sbarre. Non voleva
ammetterlo nemmeno con se stesso, ma sapere che il giovane Uberti lo avrebbe
seguito nel suo esilio rendeva la partenza da Firenze meno dolorosa, meno
lacerante. Quel ragazzino aveva il dono di lenire le sue ferite, frenare la sua
rabbia e spesso, quando era insieme a lui, ritrovava in fondo a se stesso il
giovane scanzonato e allegro che era stato più di vent’anni prima, quella parte
di sé che credeva morta per il tradimento di Cosimo.
Giovanni lo faceva
sentire di nuovo se stesso.
“Se hai veramente
deciso così, allora dovrai prepararti, perché domattina, all’alba, io e Ormanno
lasceremo la città” gli disse poi, tenendoselo ancora vicino.
“Anche vostro figlio
è stato esiliato? Ma lui non ha fatto niente” si stupì Giovanni, poi un altro
pensiero lo colpì improvviso. “E intendete partire così, solo voi due, senza
nemmeno qualche servitore o una scorta?”
“Non abbiamo bisogno
di nessuno” replicò Albizzi. “Chi dovrebbe minacciarci? La Signoria ci ha
esiliati e noi ce ne andiamo, è ciò che vogliono.”
Giovanni non disse
niente, ma la cosa non gli piaceva. Aveva visto lo sguardo pieno di odio di
Andrea Pazzi quando la Signoria aveva decretato l’esilio al posto della
condanna a morte per Albizzi e non era tranquillo. No, non lo era per niente.
Tuttavia aveva già in
mente qualcosa per risolvere anche quel problema.
“Va bene, allora ci
incontreremo domattina all’alba, davanti alle porte di Firenze” disse, cercando
di sembrare allegro. “Sapete che non sono mai stato ad Ancona? Magari sarà una
bella città, e poi c’è anche il mare!”
Rinaldo scrollò la
testa, intenerito. Giovanni era proprio un ragazzino, eppure a volte sapeva
stupirlo con gesti che nemmeno un valoroso cavaliere avrebbe compiuto…
Lasciate le prigioni,
il ragazzo volle subito recarsi a Palazzo Medici per parlare con Cosimo. Doveva
a tutti i costi spiegargli che Albizzi aveva detto quelle cose solo per fargli
del male, ma che non c’era nulla di vero. Inoltre doveva anche avvertirlo che,
la mattina dopo, sarebbe partito anche lui con gli Albizzi, che li avrebbe
seguiti nel loro esilio ad Ancona. E, cosa più importante di tutte, aveva un
grandissimo favore da chiedergli…
Cosimo era nel suo
studio, da solo. Aveva scambiato pochissime parole con Papa Eugenio che voleva
ringraziarlo per ciò che aveva fatto per Albizzi, ma aveva bisogno di restare
solo con i suoi pensieri e di riflettere su ciò che Rinaldo gli aveva detto. Il tarlo del dubbio… Rinaldo aveva
ragione, cominciava già a farlo impazzire.
E poi nella sua
stanza, senza tanti complimenti, entrò Giovanni.
“Messer Cosimo, non
dovete angosciarvi così” gli disse subito, vedendolo tanto provato. “Ho parlato
proprio ora con Messer Albizzi e lui ha ammesso di non essere colpevole
dell’assassinio di vostro padre.”
Cosimo rivolse al
ragazzo uno sguardo freddo.
“E tu gli credi?
Perché avrebbe dovuto dire una cosa simile, allora?”
“Lo sapete anche voi
il perché: è un testardo orgoglioso e non vuole sentirsi in debito con voi per
avergli salvato la vita. E poi è il suo modo di vendicarsi per quella vecchia
storia di vent’anni fa. Ormai dovreste aver imparato com’è fatto, no?” tagliò
corto il ragazzo. “E sapete bene quanto me che Messer Albizzi non avrebbe
ucciso vostro padre con il veleno, a questo ci eravamo già arrivati e lo aveva
detto anche il vostro servitore, Marco Bello. Per cui non pensateci più,
altrimenti farete proprio il suo gioco, lui vuole che vi tormentiate.”
Cosimo non sapeva se
credere o no alle parole di Giovanni, ma dentro di sé sentiva che il ragazzo
aveva ragione, che Rinaldo voleva solo torturare la sua mente con il dubbio ma
che, se fosse stato davvero lui ad uccidere suo padre, avrebbe usato un metodo
diverso, non certo il veleno. Pian piano, le ombre che lo avevano soffocato
fino a quel momento parvero diradarsi.
“Con te è stato
sincero, dunque. Immaginavo che a me non avrebbe mai detto la verità” commentò,
già rasserenato.
“Sono contento di
vedere che state meglio” replicò Giovanni, “anche perché io… beh, volevo dirvi
che domattina partirò anch’io, ho deciso di andare in esilio con Messer
Albizzi, ad Ancona.”
Fu la volta di Cosimo
di restare sbalordito.
“Vuoi lasciare
Firenze, la città nella quale avevi sempre desiderato abitare, per seguire Rinaldo nel suo esilio?” esclamò,
pensando che, a quanto pareva, i suoi tentativi di avvicinare il ragazzo ad Albizzi erano andati fin troppo avanti!
“Credo che sia meglio
che qualcuno lo tenga d’occhio, per impedire che commetta qualche altra
stupidaggine… ne sarebbe capace, no?” scherzò Giovanni.
Cosimo sorrise e
annuì, ma comprese anche che non era solo per quello che il ragazzo voleva
seguire Rinaldo in esilio.
“Sì, forse è meglio
che ci sia qualcuno con lui a tenerlo a freno” commentò. “La Signoria non
sarebbe clemente con lui una seconda volta.”
“Appunto” ribadì il
ragazzo, facendo chiaramente capire che era anche quello che lo preoccupava. “E
a questo proposito, Messer Cosimo, avrei un immenso favore da chiedervi…”
“Dimmi pure” lo
invitò Cosimo.
“Non mi piace l’idea
che io, Messer Albizzi e suo figlio dobbiamo affrontare questo lungo viaggio da
soli, senza nessuno che ci accompagni. Lui non se ne preoccupa, ma io… io ho
visto lo sguardo di Messer Pazzi quando la Signoria ha votato per l’esilio e…
non lo so, non so se potrebbe tentare qualcosa, ma… Ecco, voi non potreste
privarvi di qualcuna delle vostre guardie solo per qualche giorno?” chiese
Giovanni, oppresso da qualcosa che nemmeno lui sapeva bene cosa fosse. “Quando
saremo giunti ad Ancona sani e salvi, ve le rimanderemo immediatamente. Ma
credo che sia giusto avere una scorta fin là… Mi capite, vero, Messer Cosimo?”
Sì, Cosimo lo capiva,
capiva che Andrea Pazzi era veramente un uomo pericoloso e che lui stesso
avrebbe dovuto guardarsi da lui, d’ora in poi; capiva che Giovanni era
preoccupato per l’incolumità dell’uomo che amava e che voleva saperlo al
sicuro; e capiva, sopra ogni cosa, che il ragazzo si metteva in pericolo
spontaneamente, accettando di condividere l’esilio con Albizzi e, anche se non
lo avrebbe forse fatto per Rinaldo, per la sicurezza di Giovanni era più che
disposto a concedere qualche guardia dei Medici come scorta ai tre viaggiatori.
“Va bene, avvertirò
le mie guardie e domattina, prima della partenza, avrai almeno quattro o cinque
uomini armati che scorteranno te e gli Albizzi fino ad Ancona” accettò il
Medici.
Giovanni lo gratificò
di un sorriso luminoso, il più aperto e spontaneo che Cosimo gli avesse mai
visto dipinto sul volto, e ancora una volta comprese quanto profondo fosse
ormai l’affetto che lo legava a Rinaldo.
“Grazie, Messer
Cosimo, sapevo di poter contare su di voi” esclamò. “Siete davvero un uomo
nobile e generoso, peccato che Messer Albizzi proprio non lo voglia capire! E’
più testardo di un mulo, quello!”
“Ma tu tornerai a
trovarci a Firenze, vero, Giovanni? Piero e Lucrezia ti sono molto affezionati
e anch’io e Lorenzo” disse Cosimo, cercando di non mostrare troppo la sua
commozione. “E poi Papa Eugenio IV domani stesso benedirà i lavori alla
Cattedrale, così che in pochi anni potrò far realizzare la cupola e, a quel
punto, le salme dei tuoi antenati saranno traslate in Duomo con tutti gli onori
e il nome degli Uberti ritornerà grande a Firenze.”
Il viso di Giovanni
si illuminò ancora di più.
“Ci sarò di sicuro,
contateci, Messer Cosimo, e… grazie, grazie anche per quello che farete per la
mia casata. Mio padre aveva ragione ad ammirarvi tanto, siete il più degno di
governare Firenze… e ve lo dice un Uberti!” replicò.
Più tardi, Cosimo si
ritrovò a pensare che l’allegria e il caratterino vivace di Giovanni sarebbero
mancati molto nell’austerità che regnava nel suo palazzo. Sperava davvero che
il ragazzo sarebbe tornato presto a Firenze.
Fine capitolo quinto