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Autore: Mekkatorqueen    27/10/2019    2 recensioni
“Perché devo prendere le medicine?”
“Vedi, Hizashi, perché hai bisogno di aiuto. Devi capire che sei un bambino intelligente, divertente e tutti qui ti vogliamo un gran bene, credimi, ma…”
“Ma non posso farcela da solo almeno finché non imparerò a controllare le mie emozioni e il mio quirk.” Cantilenò lui sapendo già la risposta
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Shouta e il mondo erano due cose diverse.
Esisteva il mondo, brulicante di persone che si muovevano nella frenesia della loro vita e poi, distante anni luce da tutto questo, su un piccolo pianeta fatto solo di gatti, tisane e solitudine, c’era Shouta Aizawa.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Present Mic, Shōta Aizawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ORO
I muri erano sempre azzurrino chiaro, le sedie sempre scomode e l’odore dell’ambiente sapeva sempre di plastica, macchina nuova e vomito.
Wow.
“Non hai voglia di chiacchierare oggi? Di solito ti piace tanto farlo.” la donna che sedeva dietro la scrivania aveva sempre il solito foulard, i soliti orecchini e la solita acconciatura un po’ datata. Ma non glie lo diceva nessuno alla dottoressa Esposito che ormai faceva abbastanza schifo abbinare orecchini e collana, specialmente se quest’ultima era pacchiana e dava l’impressione di pesare un quintale? Ci allenava le cervicali con quell’aggeggio?
“Perché devo prendere le medicine?”
La dottoressa sospirò, ma continuò comunque a sorridere: anni e anni di lavoro avevano temprato Shirley Esposito ad imbalsamarsi dietro il suo scudo professionale.
“Vedi, Hizashi, perché hai bisogno di aiuto. Devi capire che sei un bambino intelligente, divertente e tutti qui ti vogliamo un gran bene, credimi, ma…”
“Ma non posso farcela da solo almeno finché non imparerò a controllare le mie emozioni e il mio quirk.” Cantilenò lui sapendo già la risposta mentre la sua gamba destra iniziò a tremolare sotto la scrivania. Le sue mani continuavano a rigirarsi freneticamente un piccolo modellino di astronave e uno dei  suoi sopraccigli si inarcò nervosamente, ma il sorriso dalla sua faccia non scomparve.
Quanto tempo ancora doveva starsene buono e fermo su quella sedia? Fuori c’era il sole e le sue gambe non riuscivano a stare ferme al pensiero del nuovo passaggio segreto che aveva scoperto per arrivare sul tetto.
“Ti voglio mostrare una cosa, guarda attentamente.” La dottoressa Esposito iniziò a tracciare una linea sul foglio di carta davanti a lei.
“Ecco, questo è il mio stato d’animo durante la giornata, ci sono momenti belli, per esempio quando so che qualcuno di voi sta meglio e ottiene risultati…” e la sua penna andò in alto creando una leggera curva, per poi riallinearsi.
“Momenti tranquilli, quando studio, cucino o preparo le mie cose…” la penna tornò a tracciare una retta.
“E momenti in cui sono triste, per esempio quando so che qualcuno di voi soffre per qualcosa e devo capire come aiutarlo…” e stavolta la curva scese verso il basso. “Ipocrita” pensò Hizashi continuando a sorridere.
“Adesso vediamo la tua linea, ti va?” domandò la dottoressa con voce fin troppo coccolosa e in falsetto. Hizashi continuò a sorridere senza dire nulla.
“Dunque…questo sei tu quando ti svegli.” La dottoressa tracciò un lunghissimo e acuto arco verso l’alto, talmente appuntito che pareva una guglia.
“Ti alzi, inizi a saltare sul letto, schizzi via in corridoio e svegli tutti. Adesso vediamo quello che dovrebbe essere un momento medio, ti lavi i denti, ti vesti…” altra guglia acuta, verso l’alto.
“Cambi uno spazzolino o due al mese per quanta energia usi per lavarti i denti e usi le stringhe delle scarpe troppo strette o per la fretta troppo larghe, ma ora veniamo a noi…” per una brevissima fase la linea tornò intermedia, ma poi scese vertiginosamente in basso, una guglia capovolta.
“Ecco che litighi con un compagno e allora ti arrabbi e reagisci male…”
La linea rischizzò in alto creando un'altra guglia che superò in altezza la precedente.
A fine spiegazione la dottoressa alzò il foglio e quello che vi era disegnato sembrava la fedele riproduzione dell’elettrocardiogramma di un grave caso di tachicardia.
Hizashi continuò a guardarla e sorridere, un po’ per sfida, un po’ perché non ce la faceva più a stare lì seduto ad aspettare. Doveva uscire fuori a correre, esplorare il nuovo passaggio e chiedere a Jerry quella cosa che gli era venuto in mente stanotte e lo aveva tenuto sveglio fino alle quattro.
“Posso uscire fuori, adesso?”
“Non vuoi parlare ancora con me?” la testa di Hizashi scoppiava: il passaggio segreto, il giardino, le sue gambe che fremevano e quella cosa importantissima che doveva chiedere a Jerry.
“Io non voglio più prendere le pillole. Posso farcela a controllarmi, non sono malato e poi la maschera mi prude dopo un po’ che la indosso.” Si lamentò, ma dottoressa sorrise sospirando e si appoggiò allo schienale della sedia girevole:
“Certo che ce la puoi fare!” disse smielata.
“Solo che hai bisogno di, come dire…una stampella, ecco, no anzi: uno sgabello! Prova a vedere il tuo obiettivo di stare meglio come un oggetto in cima ad un armadio, un armadio aaalto alto e per raggiungerlo usi lo sgabello, no?”
“Ma io sto GIA’ bene!” protestò Hizashi stringendo i pugni. Perché la gente non capiva? Lui stava bene, benissimo anzi: era felicissimo, euforico, voleva correre, saltare, spaccare, avrebbe spaccato! Adesso!
“Hizashi, ascolta…”
“No, non voglio ascoltare, siete stupidi e non capite che non sono malato, solo che non volete farmi tornare a casa, IO NON SONO MALATO, CHIARO? IO STO BENE EVOGLIO TORNARE A CASA!” non appena il volume della sua voce si alzò la porta alle sua spalle si spalancò violentemente e due figure in camice bianco si palesarono. Una afferrò le spalle del ragazzino biondo che iniziò a dimenarsi mentre l’altra cercava di passargli sulla bocca una bizzarra museruola nera con doppio gancio.
“Frank, cazzo, aiutami.” Ringhiò uno dei due uomini.
“Un attimo, fammi immobilizzare le…OUH…braccia!” ormai la maschera aveva disattivato il quirk del piccolo Hizashi Yamada e adesso non c’era più pericolo.
“Sssh, va tutto bene, ok?” sussurrò uno dei due infermieri al bimbo.
“Adesso facciamo un bel sonnellino. Non preoccuparti.”
Bastò un secondo e Hizashi sentì un acuto e pungente dolore al collo.
“Sssh, bravo.” L’uomo che rispondeva al nome di Frank gli stava accarezzando i capelli e, senza che lui se ne fosse accorto, lo aveva preso in braccio. Aveva creduto e giurato di aver lottato con tutte le sue forze, ma l’uomo lo aveva sollevato senza alcuna difficoltà. Provò ad alzare un braccio, ma lo sentiva improvvisamente pesantissimo. La testa si abbandonò contro il petto di Frank. Provò a parlare, ma la maschera glie lo impedì.
“Portatelo direttamente a letto, assicuratevi che ci resti fino a domani mattina.”
“Sì, signora.”
No! Doveva uscire, giocare con gli altri, esplorare il passaggio segreto per il tetto, chiedere a Jerry quella cosa importantissima e poi…
“Chiamerò io la sua famiglia, se sarà necessario aumenteremo il dosaggio giornaliero.”
No…Il passaggio segreto…giocare fuori…chiedere a Jerry, importante…ma i contorni della stanza si stavano già facendo sfocati e stava calando il buio nonostante fossero solo le tre del pomeriggio.
 
Decisamente non era più giorno e decisamente quello non era il soffitto dello studio della signorina Esposito.
Hizashi riconobbe subito il suo materasso e gli altri letti della camerata. La stanza era immersa nel più totale silenzio, si sentivano solo i respiri lenti e regolari degli altri ragazzi.
Si sentiva ancora un po’ assonnato, ma non intontito, solo piacevolmente rilassato e adesso riusciva a muovere bene braccia e gambe. Qualcuno gli aveva tolto la maschera e messo addosso il pigiama, nella penombra intravide i vestiti piegati sulla sedia accanto al letto. Sconsolato si lasciò sfuggire un sospiro, la giornata era andata persa: non aveva scorrazzato in cortile con gli altri, non era stato sul tetto, ma una cosa poteva ancora farla.
Piano piano si sporse per guardare la branda superiore del letto a castello su cui alloggiava il suo amico.
“Psst, Jerry?”
Niente.
“Jerry?”
Ancora niente.
“Jerry?”
“Eh…”
“Jerry…”
“Che c’è…”
“Jerry!”
“CHE VUOI?” rispose scocciato il ragazzo da sopra.
“Senti mi chiedevo, uhm…tu sei bravo in scienze, vero?”
Stufo il ragazzo sospirò.
“Quindi?”
“Ecco, ma secondo te…gli astici, visto che stanno in acqua, sono un po’ come le sirene degli scorpioni?”
“Yamada, che cazzo, SONO LE QUATTRO DI NOTTE!”
 
“Sì, buon giorno, parlo con la signora Yamada?...Chiamo dal centro correttivo, la informo che suo figlio ha quasi aggredito la dottoressa Esposito, inoltre abbiamo riscontrato più è più episodi di mancanza di controllo di quirk, deficit di attenzione e… non è che potrebbe…sì…sì…certo, capisco che in questo momento è a lavoro, ma vede suo figlio…n-non le sto chiedendo la luna, si tratta solo di una- pronto?...pronto?” arresosi il dottor Cooper riagganciò e tornò a guardare il bambino biondo che sedeva sorridente davanti a lui.
“Ora posso tornare fuori con gli altri?”
 
Hizashi Yamada abitava in quel posto fin da quando aveva memoria.
Non era stupido, sapeva di avere una famiglia e sapeva benissimo anche cosa fosse una famiglia: la famiglia era quel gruppo di persone che ti venivano a trovare durante le feste e una volta al mese per parlare delle tue pillole, del tuo comportamento e dei tuoi disegni insieme ai dottori. Questa era la famiglia e Hizashi era più che sicuro che per i bambini in tutto il resto della Florida e del mondo funzionasse così. E sapeva, anche se sotto sotto non lo accettava, che era giusto così e che doveva essere così, visto che era stato lui a rovinare i timpani di mamma e papà. Sua madre, Mabel Fortress, californiana estroversa e grintosa, aveva perso la carriera di ballerina (e con ciò anche il suo carattere solare) a causa della sua incapacità nel non sentire più il ritmo come prima ed era già una fortuna che il suo fastidioso e problematico quirk non avesse danneggiato anche il mestiere di astronomo di Eichiro Yamada, suo padre. Fortunatamente le onde sonore non avevano nessun effetto su un quirk che comportava il poter vedere con gli occhi a distanze stellari.
Eppure, tutto sommato, i progressi c’erano stati: quando era piccolo non riusciva ad aprire bocca senza attivare involontariamente il suo quirk, mentre adesso, con tanta pazienza, psicologia e logopedia, parlava come tutti gli altri. Le uniche cose che rimanevano da aggiustare erano il pianto e le risate, il che rappresentava un bel problema, viste le frequenti oscillazioni dell’umore.
Hizashi camminò lungo il solito corridoio scortato da due infermieri. Oggi indossava un nuovo paio di jeans. Nuovo per modo di dire: li aveva ereditati da un ragazzo dell’istituto più grande, così come la felpa gialla tarocchissima, che recitava l’errata scritta “GRAN TORTINO”. Ok, Gran Torino non era il suo idolo preferito in assoluto, ma gli piaceva comunque e in ogni caso credeva che un eroe meritasse il giusto rispetto.
“Siediti, arriveranno fra poco. Vedi di non fare casino.” Disse svogliatamente uno dei due infermieri, ma non fece in tempo a finire di dirlo che la porta si aprì lasciando entrare una figura bionda, alta, snella con un rosso maglione scollato e un paio di esagerati e sfarzosissimi occhialoni da sole. La stanza si riempì subito di una forte fragranza al sandalo, tant’è che l’altro infermiere rimasto in disparte storse il naso.
“E quei jeans?” domandò la donna squadrandolo da capo a piedi. Hizashi abbassò subito gli occhi iniziando a giocherellare con un lembo della sua felpa, le guance si tinsero di rosso.
“M-me li ha passati Nigel, lui è cresciuto di altri dieci centimetri.” Spiegò lui facendo un gesto con le mani. Sua madre annuì lentamente con aria semi contrariata.
“Mmh, capisco…beh, che aspetti? Non vieni a salutarmi?”
Hizashi si rizzò quasi come sull’attenti e si avvicinò titubante alla donna. Lei si chinò facendo tintinnare tutti i bracciali ai polsi e così il suo zigomo ossuto sfiorò la guancia arrossata di Hizashi.
“Ciao, mamma.”
“Siediti, ti devo parlare…”
“Dove sono Penny e papà?” disse lui gesticolando un segno di domanda. Sua madre sentiva, ma il suo udito era ovattato e arrivava con un lieve ritardo a causa delle vibrazioni e dell’impatto sonoro avvenuto dopo il parto.
“Papà è al planetario con uno studente e Penny lezione di danza, non verranno oggi.” Hizashi parve rabbuiarsi per un attimo.
“Quindi fino al prossimo mese n-non…”
“No, esatto, non verranno. Ad ogni modo ti dovevo parlare di una cosa importantissima siediti.” Fece lei indicandogli la sedia.
“A papa è stata finalmente riofferta la possibilità di tornare alla Todai.”
Silenzio
“Tu sai dove si trova la Todai, vero?”
Altro attimo interminabile di silenzio. Sapeva bene dove si trovasse quell’università.
“I-in Giappone?”
“Esatto.”
La tensione ora si poteva affettare con un coltello. Hizashi aveva una mezza idea di cosa volesse dire questo, ma quello che più lo preoccupava era una condizione di questo possibile trasferimento, una condizione che lo spaventava a morte.
“Tuo padre ormai ha una buona posizione alla UCLA e sai che, anche se ormai è molto conosciuto qua, non è mai riuscito a tornare a Tokio a causa del cattivo rapporto con quello che era stato il suo relatore, quando era giovane e aveva appena finito il dottorato. E poi sai quanto è nostalgico papà, gli manca tanto il Giappone.”
“S-sì, ma perché adesso improvvisamente può tornare in Giappone e prima non poteva? Cosa è cambiato?” chiese Hizashi aiutandosi coi gesti. L’espressione fin troppo seria di sua madre continuava a non piacergli. Per niente.
“E’ successo un incidente, il suo vecchio relatore è stato coinvolto in un brutto incidente d’auto. E’ rimasto in coma per due anni, poi alla fine i parenti hanno deciso di staccare la spina. Possiamo dire che adesso tuo padre ha nuovamente campo libero. C’è una cattedra di astronomia alla Todai che lo aspetta.”
Hizashi inspirò profondamente: doveva farsi coraggio e chiedergli quella cosa, ma non voleva farlo in modo troppo diretto.
“T-tu come farai col tuo lavoro?”
“Per me non sarà un problema, così come trovo clienti qui li potrò trovare anche là. Aprirò un nuovo studio anche là.”
“E-e Penny?”
“Meglio ancora per lei, dovrà andare al liceo, inizierà da capo lì e le troveremo una scuola di danza. Ad ogni modo non devi preoccuparti, sarà tutto sotto controllo e la dottoressa Esposito mi ha assicurato che ci farà trovare una camera sempre libera e gratuita per quando ti verremo a trovare.”
Eccola lì, la sua paura.
Allora era deciso, loro in partenza e lui no, incatenato in questo squallido istituto per bambini problematici. Loro la famiglia perfetta, lui il problema, il difetto.
Inspirò a fondo, cercando di controllarsi:
“Mamma, l-lo sai che la dottoressa ha detto che ho fatto un sacco di progressi?” balbettò lui cercando di sorridere.
“Tesoro, mi devi aiutare i-io non capisco…” fece lei scuotendo il capo e indicandosi l’orecchio. Hizashi fece un altro grande respiro, questo più tremolante:
“L-la dottoressa Esposito a d-detto che ho f-fatto tanti progressi e-e-e c-che…” ora stava gesticolando in modo sconnesso, la voce lo stava per tradire e le sue guance avvampavano.
“M-mamma, ora che sto per finire le elementari v-voglio iniziare le scuole medie in una una scuola come gli altri, s-sono migliorato, p-posso controllarmi, dico davvero.” Balbettò protendendosi in avanti.
“Tesoro, ascolta la mamma, lo dico per il tuo bene.” Sussurrò lei con quella che doveva essere un’aria contrita e dispiaciuta.
“Tu soffriresti in Giappone; qua hanno il migliore istituto per quirk problematici al mondo, è riconosciuto ufficialmente, niente ci da la garanzia di trovare altrettanto a Tokyo.”
“Ma mamma…” balbettò lui ormai in lacrime.
“Tesoro, non sai quanto ti voglia bene, un bene dell’anima, e non sai quanto sia stato difficile e doloroso per me e per tuo padre prendere questa decisione, ma il Giappone è un mondo difficile, così rigido, così serio…inflessibile e tu sei così, così…”
“Pazzo? Avanti dillo!” scattò lui rabbioso.
“No, amore…intendevo dire c-con un po’ più di energia del dovuto, un po’ troppo dinamico, fuori dagli schemi ecco…e tu…”
“No, mamma, ti prego…” bisbigliò lui con la voce spezzata, le sue spalle ormai tremavano. Non aveva gesticolato, ma a Mabel ormai non servivano i gesti per capire il suo dolore.
“Per favore, portatemi con voi, c-chiamate la dottoressa Esposito, fatemi parlare con lei, lei ti dirà che i-io…”
Sua madre fece il giro del tavolo per abbracciarlo, inizialmente Hizashi oppose resistenza, ma poi si limitò a nascondere il viso nel suo petto, scosso dai forti singhiozzi, continuando a mormorare sconnesse suppliche, lacerato dalla delusione e dal dolore.
Ora sentiva solo il battito del suo cuore e quella fortissima fragranza al sandalo.
Aveva abitato lì, sempre lì, aveva più oggetti personali lì che in camera sua, a casa, camera che i suoi genitori tenevano come un’immacolata stanza per gli ospiti. Pensò alla sua brandina a castello, piena di foto, alle sue macchinine, al poster del suo eroe preferito, Tasha the vicious bard, i modellini di All Might, Crismon Riot il giovane Endeavor e alla sua collezione di tappi di bottiglia colorati. Pensò al giardino del loro centro, le mattinate a lezione e ai tediosi pomeriggi fra i compiti e le sedute psicologiche. Tutto questa noiosa e grigia routine infernale era destinata a non spezzarsi mai, MAI.
“Ti prego, portami con te.” Singhiozzò mentre sentiva la mano di sua madre passagli fra i capelli.
“Posso migliorare a-ancora di più, ho imparato a parlare sottovoce. G-guardami!” Insistette indicandosi la bocca e abbassando sempre più il tono della sua voce per dimostrarglielo. Mabel scosse il capo con aria afflitta. Ora anche lei stava piangendo.
“Guardami, mamma, sto piangendo come fate v-voi, s-sotto v-voce, s-senza quirk, g-guardami, mamma, s-senza quirk.” Insistette disperato lui, con gli occhi ormai rossi e il viso completamente bagnato.
“A-hem, fra poco c’è la cena, i ragazzi dovranno scendere a mensa, le dispiace?” disse uno dei due infermieri indicando l’orologio.
“Oh, s-sì, certo…chiedo scusa.” Convenne Mabel alzandosi.
“Hizashi.” Mabel guardò il figlio negli occhi.
“Verremo tutti insieme il prossimo mese, ok? Chiederò il permesso per l’intera giornata, così ci faremo una bella gita fuori tutti assieme, promesso. Mi raccomando…c’è ancora tempo prima del trasloco, non preoccuparti. Vedrai che andrà tutto bene.” disse lei con voce rotta.
“No…” boccheggiò lui mentre la vide raccogliere la giacca e la borsa.
“Aspetta, NO!” Mabel si incamminò verso l’uscita, aprì la porta e…
“ASPETTA!” con uno scatto, sfuggendo al controllo degli infermieri, anche Hizashi era riuscito a fiondarsi in corridoio, seguendo sua madre.
“Signora, non si preoccupi, vada che lo teniamo noi.”
“No, lasciatemi, stronzi!”
Mabel camminò con lo sguardo fisso verso la porta dell’uscita e il volto ormai rigato dalle lacrime.
“Mamma, MAMMA!”
“Continua a camminare, non voltarti” si impose di pensare Mabel, mentre sentiva il sordo rumore dei suoi tacchi rimbombare nel corridoio.
“NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!”
Fu un attimo e poi avvenne tutto troppo velocemente.
Mabel e i due infermieri vennero sbalzati all’indietro sul pavimento e la forte onda d’impatto ruppe in un sonoro CRASH tutti i vetri delle finestre. Il televisore appeso in alto esplose facendo piovere i suoi resti su Hizashi, il quale era rimasto inginocchiato a terra, i pugni stretti, viso e gola infuocati.
L’allarme scattò e si iniziò a sentire il classico fuggi fuggi dei soccorsi, ma Yamada non lo percepiva nemmeno. Inginocchiato a terra, abbracciatosi, sentiva solo il caldo liquido rosso scorrergli dalle tempie fino al collo.
“Ho rovinato tutto” pensò “anche questa volta, come al solito, ho distrutto tutto.”
Riuscì a intravedere la figura di sua madre che si chiudeva la porta alle spalle, appena in tempo prima che quattro forzute braccia lo inchiodassero con forza bruta al pavimento. Riconobbe l’ormai familiare dolore pungente al collo e poi tutto si fece nero.
 
“Flamme Rouge?”
“Ce l’ho.”
“Mystic Enachanter?”
“Ce l’ho.”
“Recovery Girl?”
“Quale, la giapponese? Aspetta questa mi manca!”
“Tieni…tu cos’hai?”
“Corvo Mietitore.”
“Ce l’ho…”
“Bad Kidd?”
“Mi manca, dammelo.”
“Ok, poi Tasha the vicious bard? Questi ne ho due, è il preferito di Yamada, magari ne avanza uno per lui, non appena si sveglia…”
Buck e Nigel sedevano sul pavimento della loro camerata, intenti a scambiarsi figurine di eroi, poco prima si erano visti entrare Frank e Buster, i due infermieri, e mettere a letto un’incosciente Hizashi.
“Mollateglielo sul comodino, ah a proposito quando torna Dave?”
A parlare era stato Jerry che, seduto sulla branda sopra quella di Hizashi, era intento a leggere l’ultimo numero di “Le avventure di Hammer Odin”
“Non lo so, perché?”
“Oggi era in uscita libera con suo zio, magari è riuscito a portare un po’ di materiale interessante.”
Hizashi riconobbe le voci dei suoi compagni, ma la vista era ancora sfocata.
“Che ore sono?” gracchiò con voce debole provando a girare la testa, ma il mondo girò vertiginosamente sotto sopra.
“Buongiooorno principessa, complimenti per aver fatto le scintille la fuori in corridoio!”
“E-eh?” biascicò Hizashi sentendo una gran sete.
“Già, grazie a te ci siamo tutti giocati la prossima gita, grazie tante amico!”
“Naah, io penso che abbia fatto bene, sai? Magari è la volta buona che chiudono questo posto di merda e ci rimandano tutti a casa! Ben fatto, ‘Zashi.” Si complimentò Buck intascandosi soddisfatto le figurine.
“Bravo scemo…e chi una famiglia non ce l’ha?” controbatté Nigel, il quale si trovava esattamente in quella situazione.
“Mai sentito parlare di adozione?” rispose Jerry senza staccare gli occhi dal giornalino.
“C-che ore sono?” chiese Hizashi con voce flebile.
“Le nove di sera, tieni…di questi ne avanzavano due.”
“C-che cos’è?” Buck era vicino alla sua branda e stava poggiando qualcosa sul comodino.
“Tasha The Vicious Bard, è il tuo preferito, no?” ma non appena poggiò la figurina sulla superficie un’affilatissima lama schizzò fuori dal legno.
“Ouh!”
Subito dopo, un’altra decina di lame germogliarono a gran velocità sul pavimento e la scala del letto.
“Indietro, STATE INDIETRO!”
“Santo cielo, Buck!”
“Aiutatelo!”
Nel giro di qualche secondo Jerry e Nigel avevano preso Buck per le spalle, immobilizzandogli mani e braccia.
“Calmati, va tutto bene…calmati Buck!”
“Ok…ok, basta, potete lasciarmi! Sono calmo.” rispose lui, sembrava aver riacquisito il controllo del suo quirk e ora le lame stavano scomparendo. Non c’era da stupirsi perché Buck fosse lì: avere un’incontrollabile quirk che permetteva di far germogliare un’illimitata quantità di lame ovunque toccasse il proprio corpo non era cosa con cui scherzare.
“Hey…” Buck si girò verso il letto.
“Grazie per la figurina.” Sorrise Hizashi prendendola in mano.
“Bah, contento tu. Tienila pure, a me quel genere di eroi non piace.”
Hizashi riuscì a mettersi finalmente seduto, si girò verso le spalle del letto e incominciò a scegliere dove avrebbe potuto appenderla.
Proprio in quel momento entrò Dave sbattendo la porta.
“Beh?” fece Jerry.
“Mio zio è uno stronzo, ecco tutto.” Grugnì lui andando a buttarsi in branda e afferrando il primo giornalino che gli capitò a tiro.
“Hey, trattalo bene, è il penultimo numero di Hammer Odin!” lo rimproverò Jerry.
“A proposito, hai niente di nuovo?”
“Entro annunciando che ho uno zio stronzo al quale non frega niente del suo unico nipote…secondo te ho roba interessante da darvi?” ribatté Dave cupo.
“E che diamine, scusa ho solo chiesto.”
“Visto?” intervenne Buck allargando le braccia.
“Questo posto è una merda! A prescindere dall’avere una famiglia o meno. Tanto vale che ce ne andiamo via tutti!”
“Sì, certo. E i soldi per vivere là fuori ce li da la fata madrina.” Commentò sarcastico Nigel.
“Io dico che Buck ha ragione e che oggi Yamada è l’ennesima dimostrazione di tutto ciò.” Disse Jerry mettendosi al centro della stanza. Ora tutti ascoltavano, compreso Hizashi che aveva posato la figurina e si era messo in ginocchio sul materasso per ascoltare.
“Dave ha uno zio egoista che viene solo per dargli qualche giornalino raro per poi scomparire nuovamente nel nulla, io e Nigel siamo orfani, tu Buck beh…quant’è che non vedi tuo fratello maggiore? Glie ne frega davvero qualcosa da quando ha perso un braccio a causa tua? E tu Hizashi, davvero pensi di avere una famiglia normale?”
“Hey, la mia famiglia è normalissima!”
“Andiamo, quanto tempo è che siamo qua dentro, da una vita!”
“M-ma mia madre ha detto che…”
“Tua madre e tuo padre non ti odiano, non voglio dire questo, ma hanno paura di te.”
“Cosa?
Hizashi si fermò a riflettere: questo era un aspetto che non aveva mai preso in considerazione.
“Esatto, ci avete mai pensato? Tutti noi siamo un problema, in realtà però non siamo difettosi, anzi siamo talmente potenti che tutti ci temono, persino quei cretini che gestiscono questo posto!”
Hizashi visualizzò il viso sorridente della dottoressa Esposito. Era forse dovuto a quello lo sforzo di sorridere?
“Ma non lo vedete come ci imbottiscono di farmaci? E’ perché nemmeno loro hanno idea di come gestirci, di cosa fare. Sono terrorizzati.”
Terrorizzati, gli adulti, quelle che lui aveva sempre visto come figure autoritarie, erano terrorizzati da loro, dei minorenni.
Paura, una tremenda e fottuta paura. Era questo che aveva fatto scappare i suoi in Giappone? Era questo che aveva impedito loro tante volte di firmare il famoso foglio delle dimissioni per farlo tornare a casa?
Quindi il mondo funzionava così? Bambini spaventosi che fanno scappare le famiglie?
Queste nuove parole di Jerry avevano reso la camerata carica di adrenalina e dubbi. Ora si guardavano tutti e cinque in silenzio.
“Scappiamo.”
Tutti si girarono, a parlare era stato il sesto membro della camerata.
“Philip!?” dissero tutti. Il ragazzetto lentigginoso dai capelli rossi annuì.
“Da quanto tempo eri qui ad ascoltare?”
“Da quando Jerry ha iniziato a parlare e penso che sia esattamente così. Anche la mia famiglia si comporta così e credo che non glie ne fregherebbe nulla se scappassi da qui. Tanto sono a farsi la loro bella vita a Dallas. Abbiamo i nostri quirk, niente può fermarci.”
Altro scambio di sguardi silenzioso fra tutti e sei.
“Ragazzi, abbiamo il permesso di stare un’ora in salotto per la TV, scendete?” chiamò qualcuno da fuori.
Altro silenzio.
“Rispondi tu.”
“No, TU!”
Bisbigliarono un po’ tutti.
“No, grazie.” Rispose alla fine Buck un po’ teso, affacciandosi alla porta.
“Stiamo già giocando a Super Hero’s quest!”
Passò un altro attimo di silenzio fra i sei finché Philip prese parola.
“Sentite io credo che non dovremmo dirlo a nessuno, facciamolo solo noi sei. E’ troppo rischioso coinvolgere altra gente.” Propose e subito gli altri cinque annuirono.
“E comunque ora siamo troppo tesi per pianificare quindi direi che involontariamente Buck ha proposto una bella idea.” Concluse Nigel tirando fuori il suo mazzo da gioco.
“Hizashi, vieni anche tu?”
“O-ok!”
E così sgomberarono il pavimento per impostare un mini torneo a sei per il gioco di carte collezionabili dei super eroi più in voga del momento. Hizashi sospirò accennando un sorriso e prese il suo mazzo aggiungendovi la sua nuova figurina, sollevato di poter mettere da parte i brutti pensieri della giornata.
Fecero quello che a Hizashi parve il torneo più entusiasmante del secolo e quella notte, al momento di spegnere le luci, sorrise al buio sentendo un brivido di eccitazione lungo la schiena.
“Loro mi temono” pensò stringendo a sé la figurina di Tasha sotto le coperte “mio padre, l’uomo dei pianeti e delle stelle, colui che ha sempre ragione, mi teme!”
 
“Ragazzi, devo davvero, davvero complimentarmi con voi. Dico sul serio, congratulazioni a tutta la camerata 6, del terzo piano!” Disse il direttore Perkins con un largo sorriso, mentre misurava a grandi passi il suo ufficio.
Hizashi Yamada, Philip Goodman, Buck Anderson, Jerry Hudston, Dave Collins e Nigel Donovan sedevano tutti e sei davanti alla sua scrivania, ricoperti di terriccio e ramoscelli.
“Non solo vi siete spinti nel corridoio, nossignore, nemmeno nel parcheggio, ma addirittura nella foresta dietro l’istituto, i miei più vivi complimenti! Avete sperato anche solo per un attimo di uscire da una struttura sorvegliata giorno e notte, costruita APPOSTA per quelli come voi!” sentenziò fermandosi sul posto e arrivando a un centimetro dal naso di Dave.
“D-d-direttore?”
“Yamada, che vuoi?” ringhiò l’uomo fulminandolo con lo sguardo.
“C-c-credo c-c-che ce ne sia un altro…n-n-nei p-p-pantaloni, AAAAAAAAHHH!”
Un’enorme scolopendra fece capolino dal risvolto sinistro delle sue braghe per poi zampettare libera sul parquet dello studio.
“AIUTOAIUTOAIUTOAIUTO!” strillò dimenandosi e scuotendo la camicia e la maglia.
Dopo la fuga era stato ritrovato in un fosso pieno di arbusti evidentemente ricco di un po’ troppa fauna. Lo avevano ricondotto dentro sotto shock, brulicante di formiche, grilli, ragni, cavallette, scolopendre e falene mentre gli altri responsabili erano intenti a tirare le orecchie agli altri cinque della combriccola dei fuggitivi.
“Ossignore ti prego dammi la pazienza, perché se mi dai la forza faccio una strage.” Mormorò Perkins massaggiandosi le tempie.
“Comunque, sto facendo venire i vostri genitori qua, per parlarvi, in ogni caso sappiate che vi aspetta una bella punizione, non so ancora cosa, ma qualcosa mi inventerò. Adesso scendete di sotto, che già incominciano a prudermi le mani.”
Prima fu il turno Philip.
Da fuori Yamada sentiva sua madre sbraitare nel tipico accento da becero sudista dal grilletto facile. Provò a immaginarsi quello che sarebbe stato il colloquio con suo padre: una goffa conversazione a senso unico dove lui gli avrebbe detto cose serie e responsabili mentre lui si sarebbe tolto gli ultimi ragni dai capelli e dalla camicia.
“Yamada, dentro.” Chiamò uno dei responsabili. Entrando, Hizashi intravide lo stampo rosso di cinque dita sulla guancia destra di Philip mentre questo se ne usciva dalla stanza a testa bassa.
“Signora Goodman, cortesemente, può aspettare di essere FUORI prima di fumare?” la madre di Philip ricacciò dentro l’accendino trascinando per la collottola il figlio verso l’uscita.
Suo padre lo aspettava già seduto dentro la stanza, impassibile, immobile, perfetto, con nemmeno un capello del riporto lucido fuori posto. Hizashi deglutì prima di sederti.
“Stavo per ricredermi, sai?” disse con tono calmo e inflessibile.
“Dopo quello che mi aveva detto tua madre stavo davvero per cambiare idea, ma poi tu mi hai dato la conferma che tutto sommato avevo fatto la scelta giusta.”
Passò un attimo di silenzio ingombrante dove Hizashi tossì e il signor Yamada si sistemò il colletto della camicia.
“Tu sei instabile, Hizashi e hai bisogno di cure, tante cure. Il mondo quotidiano non ti appartiene e hai bisogno di un posto per quelli come te per condurre un’esistenza degna di essere vissuta.”
“V-vi lascio un attimo soli, mi hanno chiamato al primo piano, ok?” Hizashi seguì con lo sguardo l’infermiere chiudersi la porta alle spalle.
Ora erano soli.
“Dimmi, Hizashi, cosa pensi di fare da grande?”
Si fermò come colto di sorpresa.
Questa domanda suo padre non glie l’aveva mai fatta.
“Esattamente, stai per cominciare le scuole medie, ma non hai nemmeno un’idea, un desiderio, insomma. La tua mente è in costante frenesia tutto il giorno, pensi solo cosa succederà il minuto dopo, ma non hai una visione a lungo termine delle cose, non pensi in grande. Tu vivi alla giornata e-…”
“Voglio fare l’eroe.”
Silenzio.
Nemmeno Hizashi sapeva perché lo aveva detto, per zittire suo padre? Per dimostrargli di saper rispondere? In effetti non aveva mai pensato a farlo. Più che altro forse qualche volta aveva desiderato fare l’attore o il musicista o lavorare nello spettacolo, ma l’eroe mai. Forse l’atmosfera di sfida gli aveva fatto salire il desiderio di zittire suo padre con qualcosa di grande.
“L’eroe.” Ripeté suo padre squadrandolo di obliquo.
“Col quirk che ti ritrovi, l’eroe?”
Hizashi inspirò nervosamente.
“Sì.”
“E sentiamo, come pensi di aiutare le persone? Assordandole come hai fatto con tua madre? Scassando i loro timpani fino a farli sanguinare?”
Hizashi abbassò lo sguardo giocherellando con un lembo della sua camicia.
“C-c’è u-un eroe che…” balbettò piano.
“Cosa?” chiese suo padre sporgendosi in avanti.
“Scandisci bene quando parli con me e alza quegli occhi, capito?”
“C’è un eroe che usa i suoni…per combattere. L-lui è capace di immagazzinare qualsiasi rumore sentito da fuori e di rilasciarlo quando vuole, cambiandone il volume a piacere.”
“E sentiamo, chi sarebbe questo GRANDE eroe di cui parli.”
“T-Tasha il bardo.”
“Tasha il bardo?”
“L-lavora nella sua agenzia di Montreal, in Canada. Si fanno chiamare La fazione degli Arpisti.”
“HAHAHAHAHAH!”
La risata di suo padre lo investì malamente, strinse i pugni sentendo la rabbia e la frustrazione invaderlo.
“Non ridere.” Suo padre si interruppe tornando a guardarlo.
“Come, prego?”
“N-non ridere. Io farò l’eroe.” Continuò Hizashi alzandosi in piedi.
“Tu non farai un bel niente, mi hai capito? Tu non combinerai mai niente nella tua vita. Tu sei malato, MALATO!”
“Loro ci temono.”
Il volto di Jerry gli apparve come un flash nella mente.
Inspirò con le braccia lungo i fianchi e…
Il signor Yamada si chiuse a conchiglia coprendosi istintivamente le orecchie. Hizashi si rilassò abbassando le spalle e di riflesso suo padre allontanò i palmi dai lobi.
Hizashi accennò un piccolo movimento con le spalle e subito di nuovo anche le spalle di suo padre si ricontrassero.
Si scrutarono per qualche secondo, come due bestie in un recinto.
Altro movimento di spalle di Hizashi, altro scatto del signor Yamada.
“Scusate il ritardo, rieccomi…tutto a posto?” chiese l’infermiere facendo capolino dalla porta. Il signor Yamada si risedette cercando di riacquistare il suo contegno impassibile e Hizashi sorrise facendo altrettanto sentendo scorrergli fra nelle vene una nuova e soddisfacente sensazione potere che non aveva mai provato.
“Loro ci temono.”
Jerry aveva ragione.
Fottutamente ragione.
  
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