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Autore: thithdouthchebag    01/11/2019    0 recensioni
Il tempo di Asahi e Nishinoya sta per scadere; quello di Bokuto e Akaashi deve ancora iniziare.
Per Oikawa e Iwaizumi non c'è tempo da perdere; per Kuroo e Kenma tutto il tempo che hanno non è abbastanza.
Genere: Angst, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo

ATTO PRIMO:
Ottobre, o meglio,
Asahi diventa Gesù Cristo e ne
ssuno si accorge di lui.

________________

 

“Che cos’è?” chiese Asahi, seduto su una sedia in uno dei quattro bagni della villa di Sawamura, mentre la sua compagna di classe, Tooka, gli spalmava una sostanza fredda e cremosa sulla faccia con una spugnetta.

“Fondotinta,” rispose lei. “Cristo era più pallido di te, Asahi.”

Terminò l’opera sfregando con energia un punto del naso di Asahi che non la convinceva, a giudicare da come lei aveva arricciato il suo. Non contenta, si leccò un pollice e lo usò per grattare via qualcosa. Asahi fece un verso disgustato, Tooka gettò la spugnetta nel lavandino con noncuranza e recuperò un pennello dalla valigetta che aveva poggiato sul ripiano di marmo lì accanto.

“Non lamentarti,” disse, tuffando il pennello in una scatolina. “Io sono un’artista.”

Era vero: Tooka era un’artista. Il trucco che aveva sugli occhi scintillava di un colore diverso ogni volta che sbatteva le palpebre, era delicato e vibrante al tempo stesso e la faceva assomigliare a una di quelle rane esotiche, tanto colorate quanto letali.

“Quello cos’è?” Asahi rivolse lo sguardo al soffitto come lei gli aveva ordinato con un movimento dell’indice.

Tooka gli sfiorò le palpebre inferiori con le setole del pennello. “Ombretto. Stai morendo in croce,” disse, calcando un po’ la mano. “Non puoi non avere le occhiaie.”

“Hotaru!” Michimya, all’altro lato della porta, bussò con violenza tre o quattro volte. “Guarda che Asahi è un uomo impegnato. È inutile che ci provi con lui.”

“Ho finito,” rispose Tooka. Scosse la testa, roteò gli occhi. “Potete entrare. Potevate entrare anche prima, a dire la verità.”

“Hai detto che non volevi essere disturbata,” sbuffò Michimya, spalancando la porta. “E io non ti ho disturbata.”

Shimuzu entrò dietro di lei, vestita da principessa cadavere e con un tubetto di sangue finto tra le mani.

“Che paura,” disse, scrutandolo. “Hota-chan, sembra un morto.”

“Grazie?” disse Asahi. “È un complimento?”

“Grazie,” disse Tooka. “Adesso è tutto vostro.”

Michimya si schiarì la voce e si aggiustò i baffi finti che aveva appiccicati in faccia. Stava nascondendo qualcosa dietro la schiena.

“Ho un regalo,” annunciò. “Ci sto lavorando da quando mi hai detto da cosa volevi travestirti.”

Asahi la fissò per un attimo, senza capire. “Ma non è il mio compleanno.”

“È perchè sei un po’ giù ultimamente, con la decisione di lasciare la pallavolo e tutto,” rispose lei. Asahi la guardò di nuovo. “Ma non ce n’era bisogno.”

“Non sai neanche cos’è,” sbuffò Tooka. “Forza, Yui. Non abbiamo tutta la serata.”

Michimya fece apparire una corona di spine dal nulla. Sembrava essere stata intrecciata con legnetti di vimini e poi dipinta d’oro. “Daichi ha voluto pitturarla, ha detto che ti sarebbe piaciuta di più.”

Fu così che Asahi si ritrovò nel bagno assurdamente grande di Daichi Sawamura, il trentuno di ottobre del suo ultimo anno di liceo, a stringere tra le mani quello che avrebbe dovuto essere uno strumento di tortura e che ai suoi occhi parve il più bel regalo del mondo. Non aveva trovato una cosa come quella da nessuna parte e, alla fine, si era rassegnato a travestirsi da Gesù senza corona, anche se quella era la festa di Halloween che lui e i suoi amici stavano organizzando dall’inizio dell’anno e Asahi avrebbe voluto essere quello di cui la gente si sarebbe ricordata il giorno dopo, per una volta. Era stupido rimanerci male per una cosa tanto insignificante, lo sapeva, ed era stupido anche non voler cambiare costume. Però Asahi aveva rinunciato a tanto da quando era iniziata la scuola e almeno questo lo voleva. Eppure, era abituato a volere cose che non poteva avere e anche a rassegnarsi, perciò non riuscì a pronunciare una parola di fronte a quell’inaspettato capovolgimento di eventi.

“Prova come ti sta,” disse Shimizu.

Asahi si incoronò.

Un Uuh! collettivo riempì quel bagno assurdo in cui era permesso che tre persone stessero in piedi attorno a un’altra seduta su una sedia.

“Mi avete misurato la testa?” chiese Asahi.

“Nishinoya ci ha dato una delle tue fasce,” rispose Michimya. “A proposito, perché non è qui?”

“Yamamoto dava una festa,” disse Asahi. “È andato lì.”

Quella, però, era solo parte della verità. La verità completa era che Asahi non l’aveva voluto con sè perchè Nishinoya era arrabbiato con lui da quando aveva lasciato il club e perché lui non aveva una corona di spine con cui completare il suo costume e quindi non poteva fare bella figura con lui.

L’altra verità, quella che Asahi nascondeva anche se stesso, e che rischiava di mangiarlo vivo quando non riusciva a chiudere occhio, la notte, era che Nishinoya era il fuoco—lo era sempre stato e per sempre sarebbe rimasto tale— e Asahi, ultimamente, non riusciva a stargli dietro, ad ascoltarlo quando parlava, a interessarsi a lui.

“Posso metterti questo sangue finto sulla fronte?” fece Shimizu. Una volta che le ragazze ebbero finito di imbrattargli la faccia con quella roba puzzolente, Asahi si alzò in piedi e si specchiò.

Vide Gesù Cristo che lo fissava dallo specchio e fece i complimenti a Tooka per il trucco e ringraziò Michimya per la corona e disse a Shimizu che il sangue finto sembrava sangue vero.

Si chiese cosa avrebbe fatto sua madre se lo avesse visto in quel momento. Stai giocando, Asahi? Pensa a studiare, piuttosto.

Si chiese cosa avrebbe detto Nishinoya. Sei perfetto, perchè non mi credi?

“Che schianto!” fischiò Michimya.

Shimizu sorrise. “Secondo me sarà il costume migliore.”

“Povero il mio hot dog glamour,” sospirò Tooka. “Non può competere.”

Nel salone—anche quello enorme— in cui si sarebbe tenuta la festa, Sawamura stava controllando che le luci stroboscopiche e l’impianto audio funzionassero. I suoi genitori non avevano badato a spese per quella festa, non che badassero a spese per qualsiasi altra cosa.

La sala era addobbata da cima a fondo: sul televisore al plasma c’erano fotogrammi in loop di scene macabre e volutamente sgranate, sangue finto sulle pareti, barattoli con occhi e mani monche immersi in liquidi dalla dubbia provenienza seminati tra gli snack e una cortina di fumo finto proveniente da chissà dove che copriva il pavimento.

“Asahi!” disse Sawamura quando lo vide. “Ti è piaciuta?”

“Non lo vedi quanto è contento?” disse Michimya.

Sawamura si avvicinò e lo squadrò a braccia incrociate. Il distintivo da poliziotto che si era appuntato alla camicia blu scuro, brillò illuminato da raggi di luce multicolor. Gli sorrise e gli strizzò una spalla.

“Lo vedo.”

Da come lo disse, Asahi capì che non vedeva proprio niente.

Wohoo!

Sugawara sbucò correndo da un corridoio. Fendette il fumo pattinando sul pavimento solo con i calzini ai piedi, stringendo una bottiglia di vino in una mano e un bicchiere di vetro in un’altra. Si fermò prima di colpire il bordo del divano e mandò giù un grosso sorso del liquido vermiglio nel bicchiere. “Tuo padre aveva questo nel suo studio. È del millenovecentoventotto! Altro che birra.”

“Hai saccheggiato la credenza di mio padre?” chiese Daichi.

Michimya rise. “Hai appena fatto surf sul pavimento gridando ‘wohoo’?”

“Lo faccio sempre,” replicò Sugawara. “Asahi, sei orribile! Grandioso! Brindiamo!”

“Sei già ubriaco?” chiese Asahi.

“Questo è il mio primo bicchiere,” disse lui, scrollando le spalle. Le ali di plastica scure, che secondo lui erano da falena e che si era legato alle spalle, si scossero con lui.

“Primo e ultimo,” disse Sawamura, sequestrando la bottiglia. “Vado a rimetterla al suo posto.”

“Tanto per la cronaca: qui l’adulto sono io,” gli gridò dietro Sugawara, ma non cercò di fermarlo. “Tooka e Shimizu?”

“Hotaru aveva bisogno di aiuto per infilarsi nel suo hot dog,” disse Michimya.

Ci vollero altri dieci minuti prima che Tooka, traballante nel suo costume da hot dog, e Shimizu emergessero dal bagno. Intanto, il vino nel bicchiere di Sugawara era scomparso, Sawamura era tornato ad armeggiare con i telecomandi delle luci e Michimya stava mostrando un nuovo passo di danza a Asahi. Quando, cinque minuti dopo, il campanello della porta squillò per la prima volta, Asahi si era dimenticato che la festa non riguardava solo il suo gruppo di amici, ma tutti i terzi anni. Nonostante avesse desiderato partecipare a quell’evento con tutto se stesso e avesse aiutato con entusiasmo Sawamura a pianificarlo, fu sopraffatto dalla voglia di tornare a casa, strofinarsi via il trucco dalla faccia e seppellirsi sotto le coperte.

Che ingrato!

Sawamura andò ad aprire e, quando tornò, a seguirlo c’erano Kuroo in camice bianco e altre due figure mascherate, che non potevano essere altri se non Yaku e Kai perchè Yaku e Kai erano gli amici di Kuroo.

Asahi pensò che il costume di Kai—Testa di Mucca— fosse, per l’occasione, un travestimento migliore del suo. Insomma, in Giappone chi avrebbe potuto mai avere paura di Gesù? Tutti, però, conoscevano la leggenda di Testa di Mucca e quello che poteva succedere quando lo si nominava in un luogo affollato.

“Testa di Mucca e Hanako-san*?” disse Michimya. “Che fate se qualcuno si impressiona troppo poi?”

“Che festa di Halloween è se devi stare attento ai sentimenti degli altri?” rispose Yaku, da sotto la sua maschera dorata.

“Non succederà niente,” disse Kai. “A voi. Io però dentro quest’affare non respiro.”

Tooka, come Asahi sospettava, aveva catturato l’attenzione di Kuroo non appena era arrivato e adesso, insieme a Shimizu, lo stava ascoltando mentre lui indicava una polverina rossa all’interno di una provetta.

Il campanello squillò con frequenza sempre maggiore, la sala si riempì di gente, tanto che Sawamura, a un certo punto, aveva aperto le porte del balcone che dava sul giardino perchè dentro faceva troppo caldo.

Sulla pista da ballo, Sugawara e Sawamura si stavano baciando, in mezzo a tutti, l’unica immobilità in un mare di corpi che si dimenavano a tempo di musica.

Kuroo stava ancora parlando con Tooka, in disparte, sul divano, sorseggiando birra, e ad Asahi sarebbe piaciuto che smettesse di essere sempre tanto gentile con lei perchè l’avrebbe fatta soffrire e Tooka era sua amica e non se lo meritava.

Oikawa e i suoi erano appena arrivati alla festa e si guardavano attorno con espressioni divertite miste ad ostentato disgusto e Asahi avrebbe voluto che la smettessero di far finta di appartenere a un’altra razza.

Il palloncino rosso che Bokuto aveva legato al polso— troppo gonfio, troppo lucido— si agitava nell’aria e osservava tutti gli invitati dall’alto, come un’occhio dell’inferno.

Asahi, in un angolo, stringeva un bicchiere di plastica ricolmo di birra annacquata che stava diventando sempre più tiepida.

Nessuno si accorse di lui.
 

___________________
 

Note:

Nankurunaisa è una parola che ah un'origine non propriamente giapponese, ma deriva dal dialetto di Okinawa che rappresenta un mix tra le lingue indigene e la lingua giapponese. Il suo significato è: "Le cose si sistemeranno in qualche modo, andando a buon fine" o "Il tempo sistema ogni cosa."

Addio monti, sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo[...]- Alessandro Manzoni, Promessi Sposi, Cap. VIII

*Testa di Mucca e Hanako-san sono leggendo metropolitane giapponesi.

 

   
 
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