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Autore: Yugi95    04/11/2019    1 recensioni
Quando si perde l’unica cosa al mondo che abbia davvero importanza; quando si perde una parte di sé che mai più potrà essere ritrovata; quando si perde l’amore della propria vita senza poter fare nulla per impedirlo… è in quel momento, è in quel preciso momento che si cede lasciando che il proprio cuore sia corrotto dalle tenebre. Si tenta il tutto per tutto senza considerare le conseguenze, senza pensare al dolore che si possa causare. Se il male diventa l’unico modo per far del bene, come si può definire chi sia il buono e chi il cattivo? Se l’eroe, che ha fatto sognare una generazione di giovani maghi e streghe, si trasforma in mostro, chi si farà carico di difendere un mondo fatto di magia, contraddizioni e bellezza? Due ragazzi, accomunati dallo stesso destino, si troveranno a combattere una battaglia che affonda le proprie radici nel mito e nella leggenda; una battaglia che tenderà a dissolvere quella sottile linea che si pone tra ciò che è giusto e ciò che è necessario.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Gabriel Agreste, Maestro Fu, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo XIX - Una strana sensazione

 
I cinque trascorsero il resto della mattinata a darsi battaglia con la neve. Sfere, grosse quanto bolidi, sfrecciavano in tutte le direzioni. La maggior parte delle volte si infrangevano con un “plof” sul bersaglio designato, altre si perdevano nell’aria finendo a terra o contro le insensibili mura del castello. Quel gioco, all’apparenza così insignificante, fu una piacevole parentesi di gioia e serenità; gli attacchi improvvisi erano un lontano ricordo, nulla poteva andare storto.

«Chloé! Prendi al volo.»

«Dupain-Cheng, cos…» il fiato della ragazza le si mozzò in gola, mentre veniva colpita in fronte da una gelida massa di neve.

Juleka e Marinette risero a crepapelle: stavano aspettando il momento opportuno per coglierla di sorpresa e questo non si era fatto attendere. Livida di rabbia per l’affronto appena subito, la Serpeverde sfoderò la bacchetta dalla tasca interna del suo cappottino. La agitò per aria senza sillabare alcuna parola, lo sguardo lugubre fisso sulle sue prossime vittime sacrificali. «Questo trucco me l’ha insegnato Zio Gabriel, adesso vedrete!»

Uno spesso strato di neve fresca si staccò dal suolo e, ondeggiando in maniera incerta, galleggiò verso la punta della bacchetta. Nello stesso istante la massa informe iniziò a condensarsi formando una specie di sfera che si ingrandiva sempre più. Le due Corvonero, impressionate da ciò che stava accadendo, rimasero immobili ad osservare la scena. Il globo di neve triplicò le sue dimensioni, poi con un sibilo avido di vendetta Chloé recitò l’incanto «Relascio!»

L’immensa palla di neve, che aveva ormai superato le dimensioni di una cattedra, si separò dalla bacchetta e si scagliò a tutta velocità contro i suoi obiettivi. Marinette fu svelta, forse più rapida di quanto avesse mai potuto immaginare. Si appiattì a terra e, tirando Juleka per la sciarpa blu e argento, evitò che il colpo andasse a segno. La sfera continuò la sua corsa e, quasi fosse rimasta indispettita dall’aver mancato il suo obiettivo, si accontentò di un altro più a tiro.

Il povero Luka, intento a riscaldare con una scoppiettante fiammella azzurra dei marshmallow, fu investito in pieno. Non ebbe neanche il tempo di realizzare cosa lo avesse colpito, che si ritrovò disteso per terra con le gambe all’aria. L’imprecazione della sorella fu coperta dallo strillo acuto della piccola Bourgeois che, portandosi la mano alla bocca preoccupata, corse verso di lui. «Perdonami Coso, scusa, intendevo Luka. Sì, Luka! Perdonami tanto, non volevo colpire te.»

Si gettò goffamente al suo fianco e, presa dal panico, iniziò a tastargli varie parti del corpo chiedendogli dove gli facesse male. Juleka arrivò poco dopo, scura in volto come mai prima di allora. “Se gli ha rotto qualcosa” – pensò furente tra sé e sé – “le brucio tutto il guardaroba e… e… e i capelli!” Fortunatamente, il ragazzo, sebbene dolorante, sorrideva massaggiandosi la nuca. L’urto, per quanto potesse essere stato forte, non aveva causato danni.

«Non c’è nulla da temere» esclamò, divertito, Adrien poggiando una mano guantata sulla spalla di Marinette. «Papà non le ha mai insegnato nulla di troppo rischioso. Forse immaginava che certi incantesimi nelle mani di Chloé potessero diventare delle bombe ad orologeria.»

«Non l’avrei mai detto…» mugugnò l’altra voltandosi verso di lui guardandolo con attenzione, gli occhi verdi che risplendevano come smeraldi alla luce del sole.
«Cosa? Che quella testa calda possa distruggere la scuola se le si serve una portata non gradita.»

«No, che tuo padre possa essere stato così premuroso da insegnarvi qualcosa.»

Ebbe l’impressione di essere stato appena colpito da una padellata. Si sentì insignificante, un’ameba priva di cervello. Possibile che fosse stato meschino fino a quel punto? La sua amica aveva ragione, aveva centrato pienamente la questione. Del resto come darle torto: erano mesi che si lamentava di suo padre e di quanto fosse stato assente in tutti quegli anni. Il suo stesso rifiuto per la Nimbus Duemila era l’ennesima riprova.

Eppure, dentro di sé sentì una sorta di serpente che si attorcigliava ai visceri stritolandoglieli. “Sarà il senso di colpa”, si disse cercando di non dare a vedere quanto fosse combattuto al momento. Un conto era che lui parlasse male del grande Gabriel Agreste, che rivelasse i suoi più oscuri segreti, un altro era che lo facessero i suoi amici. Non era arrabbiato con Marinette, ma piuttosto con se stesso per aver permesso a chi gli stava attorno di essersi fatti un’idea così sbagliata.

«Un tempo, prima che diventasse il mago più famoso di tutti i tempi» bofonchiò il ragazzo in risposta allo sguardo interrogativo della compagna. Si lasciò cadere sulla neve morbida e, senza pensarci, disegnò con il corpo un angelo. Marinette lo osservò dall’alto in basso: aveva gli occhi lucidi, un sorriso forzato, facile preda dei ricordi passati. Le fu evidente che anche quel “gioco” gli fosse stato insegnato da qualcuno, un qualcuno di cui Adrien sentiva terribilmente la mancanza.

Poco prima di pranzo, zuppi ed esausti, tornarono al castello. Il cielo, benché sereno, si era leggermente incupito minacciando l’approssimarsi di una tempesta. Prima di dirigersi in Sala Grande, i ragazzi si divisero e raggiunsero i loro dormitori. Coperti di fango e nevischio, avevano il disperato bisogno di darsi una ripulita. In particolar modo Chloé che, non avendo fatto altro che ripeterlo nelle due settimane precedenti, era ansiosa di indossare il suo nuovo vestito.

«Fortuna Maior!» trillò il giovane Agreste al quado della Signora Grassa che, con un piccolo inchino di riverenza, si spalancò dandogli modo di entrare nello stretto passaggio.

La torre dei Grifondoro era deserta: ad eccezione di Adrien, nessuno degli altri studenti aveva deciso di rimanere per le vacanze. Si guardò attentamente intorno rendendosi conto di quanto si fosse ormai abituato alla solitudine. Si sentì sporco e monco, come se una parte della sua umanità gli fosse stata strappata via. Non era come gli altri e, nonostante si sforzasse di provarci, non lo sarebbe mai stato.

Trascinandosi, si arrampicò lungo la scala a chiocciola ed entrò nel proprio dormitorio. La stanza era immacolata, sembrava quasi che non vi fosse nessuno ad occuparla. Vide Plagg appallottolato sul suo letto, sonnecchiava tranquillo. Avrebbe voluto accarezzarlo solo per provare un po’ di calore, per avere un contatto con qualcuno, ma vi rinunciò. Impiegò una ventina di minuti per prepararsi: non aveva molta voglia di scendere a pranzo, i suoi amici però lo aspettavano.

«Bene, mi sembra di aver preso tutto» disse ad alta voce, consapevole che nessuno avesse potuto trovare strambo quel suo modo di fare. «Adesso non mi resta che… Ehi, ma questo cos’è?»

Si avvicinò al comodino e prese tra le mani un pacchetto lì poggiato. Si guardò intorno con fare circospetto pensando di vedere qualcuno. Possibile che non lo avesse notato quella mattina? Si rigirò il regalo tra le dita, a differenza degli altri non era firmato. Alla fine si decise a scartarlo: era una custodia in pelle di drago, decisamente elegante e costosa. La aprì e al suo interno vi trovò tre oggetti: un pendente di smeraldo, una vecchia fotografia e un biglietto scritto a mano.

Adrien, perplesso e incuriosito da quegli strani doni, si apprestò a studiare il messaggio. Era scritto in una grafia elegante e minuta. Notò immediatamente che al messaggio mancava la firma, ma non ci diede peso. Aveva capito che chiunque gli avesse fatto quel regalo desiderava restare anonimo. I suoi occhi verdi saettarono sulla carta. Non ci mise molto a leggere quanto vi fosse scritto, ma dovette ripetere quattro volte l’operazione per essere sicuro di aver compreso bene.
 
“Tua madre mi prestò questo ciondolo diverso tempo fa. Purtroppo, non sono mai stato in grado di ritornarglielo di persona. Credo sia arrivato il momento di restituirtelo, Adrien. Con la speranza che tu possa farne buon uso.”
 
Rimase imbambolato, incapace di articolare alcun pensiero di senso compiuto. Il pendente di smeraldo luccicava all’interno della scatola in pelle. Il suo brillio catturò l’attenzione del ragazzo che, mettendo da parte il biglietto, lo strinse nel pugno. All’apparenza sembrava un normalissimo ciondolo, un oggetto certamente prezioso ma privo di qualsiasi eccezionalità. Non sapendo cos’altro fare, staccò il gancetto posto sul filo e se lo mise al collo.

Un calore intenso, piacevole e rassicurante, s’irradiò dalla pietra a tutto il suo corpo. Provò una strana sensazione: era difficile da spiegare, neanche lui riusciva a comprenderla appieno. Ebbe l’impressione di provare un piacere simile a quando ci si rivede con un vecchio amico; come se lui e il ciondolo si fossero ricongiunti dopo secoli di separazione. Inspirò profondamente cercando di liberarsi di quello stato di grazia così spiacevolmente inspiegabile.

I suoi occhi tornarono a posarsi sul biglietto, lo rilesse sperando di captare un qualcosa che prima gli fosse sfuggito. Non ottenne nulla di nuovo: le parole erano inequivocabili e non potevano celare alcun significato nascosto. Chi mai gli aveva inviato quel regalo? Suo padre forse? Scosse immediatamente la testa scartando quell’ipotesi. Non si sarebbe mai rivolto a sua moglie con l’appellativo “tua madre”. Doveva essere qualcun altro, un qualcuno legato a lei.

Mentre si scervellava in cerca di una soluzione, si ricordò di aver ricevuto un terzo dono oltre il pendente e il messaggio: una fotografia. A differenza di quelle a cui era abituato, questa non era animata. Ingiallita dal tempo e dall’usura, raffigurava due persone che si stagliavano sullo sfondo di un magnifico paesaggio portuale. Un bambino di circa dieci anni, dagli occhi a mandorla e con i capelli rasati a zero, gli sorrideva in modo vispo e allegro.

Al suo fianco vi era una donna, più grande di lui, dai lunghi capelli biondi, raccolti in una morbida coda di cavallo. Era vestita con una camicetta sbottonata all’altezza del collo, lasciando intravedere un ciondolo dall’aria familiare, e sulla testa portava un cappello paglierino a falda piatta. Ad Adrien ricordò gli esploratori inglesi che colonizzarono l’asia e l’india almeno due secoli prima. I suoi occhi, seppur in bianco e nero, erano luminosi e dolci.

Il vedere sua madre in una foto a lui sconosciuta gli provocò un tuffo al cuore. Perché non gli era mai stata mostrata? Possibile che nessun’altro della famiglia ne fosse a conoscenza? Pose attenzione sui lineamenti del ragazzino, ma non riuscì a riconoscere nessuno. Né un familiare, né un amico di lunga data, né un conoscente. Studiando attentamente l’immagine, notò il riflesso di una scritta sul retro. La girò e con sua grande sorpresa riconobbe la grafia di sua mamma.
 
Nanchino, 28 agosto 1842
 
«Ehi Adrien, come mai sei così silenzioso?» gracchiò Chloé, seduta di fronte a lui all’unico tavolo posto al centro della Sala Grande, «Plagg ti ha per caso mangiato la lingua?»

«Non è niente…» sibilò, debolmente, il ragazzo, lo sguardo era spento, perso nel vuoto. «Credo… credo che mi sono affaticato troppo questa mattina.»

«Oh, Adrien caro. Non dovresti sciuparti fino a questo punto: la tua è una bellezza che va preservata.»

A quelle parole il succo di zucca, che Luka stava bevendo, gli andò di traverso. La piccola Bourgeois, però, nonostante si trovasse al suo fianco, parve non accorgersi dell’accaduto. Era troppo preoccupata per il suo migliore amico. Benché il giovane Agreste cercasse di nasconderlo, aveva intuito che quella non fosse la verità. Aveva delle strane occhiaie e i suoi occhi erano rossi, iniettati di sangue. Molto probabilmente aveva pianto, ma per quale motivo restava un mistero.

Intanto risate, urla di festa e lo scoppio di una moltitudine di Schiopparelli magici riempivano l’aria all’interno della sala. Non vi erano più di cinquanta studenti che, sebbene appartenenti a Case diverse, si erano disposti di buon grado attorno a quell’unica tavolata. Di solito nel periodo delle festività vi erano più allievi: molti, infatti, desideravano trascorrere almeno una volta nella loro carriera un Natale ad Hogwarts.

Quell’anno però, a causa dei ripetuti attacchi, la maggior parte, di concerto con le loro famiglie, aveva preferito tornare a casa. In questo modo si sentivano più protetti di quanto non lo fossero a scuola e i loro insegnanti non potevano dargli torto. Quelli rimasti, invece, non l’avevano di certo fatto per coraggio, piuttosto per necessità dal momento che i loro familiari erano impegnati durante le vacanze.

Adrien e Chloé, com’era prevedibile, non fecero eccezione. I loro padri erano troppo presi dal lavoro per trascorrere il periodo di Natale a casa; di conseguenza i due avevano scelto di rimanere al castello. Ormai erano abituati a trascorrere lunghi periodi da soli, per questo motivo furono felici (anche se la piccola Bourgeois non lo avrebbe mai ammesso) di essere in compagnia dei loro compagni.

Anche Juleka e Luka avevano deciso di restare per un motivo simile. La loro mamma, il Capitano Anarka Couffaine, era impegnata in una pericolosa crociera fluviale in Mozambico. Non volendo mettere in ulteriore pericolo i suoi figli, dal momento che bastava prendere una Passaporta per raggiungerla, gli aveva ordinato di rimanere a scuola: sapeva che non vi fosse posto più sicuro in tutto il modo.

Il discorso era invece diverso per Marinette. Quel Natale i suoi genitori avrebbero raggiunto la loro unica nipote, impegnata in uno scavo archeologico in Cina, per trascorrere le vacanze con lei. La figlia del Signor Dupain sarebbe stata davvero felice di rivedere sua cugina, ma dentro di sé sentiva il dovere di rimanere ad Hogwarts. Doveva capire per quale motivo si stessero verificando tutti quegli attacchi. Attacchi di cui aveva preferito non avvisare i propri genitori.

«Un momento di attenzione, prego.»

Il vocio di sottofondo, che accompagnava il rumore di piatti e posate, cessò all’istante. Al richiamo della Professoressa Bustier, le teste degli studenti si voltarono immediatamente verso il tavolo degli insegnanti. A quel punto il Preside, dapprima intento a giocherellare con un buffo sombrero cantilenante uscito da uno Schiopparello, si alzò in piedi. Benché non superasse il metro e trenta, sembrò dotato di una levatura tale da sovrastare l’intera Sala Grande.

«Perdonate questa mia intrusione» incominciò Fu schiarendosi la voce con un colpo di tosse, «Vi prometto che sarò breve, ma ho l’urgenza di comunicarvi un paio di avvisi. Innanzitutto, permettetemi di farvi, da parte mia e da quel po’ che resta del mio corpo insegnanti, i nostri più sentiti auguri di un sereno e felice Natale. Che questi giorni di festa possano essere per tutti noi un balsamo lenitivo, una piacevole pozione curativa per i mali che in questi mesi ci hanno sovrastati.»

Si levò un brusio d’assenso dal tavolo degli studenti, ma fu rapidamente messo a tacere da un gesto del Preside che continuò il proprio discorso. «In secondo luogo, è con grande gioia e soddisfazione che vi annuncio l’imminente organizzazione di una festa all’interno di questa scuola. Il trentuno di questo mese infatti, per festeggiare l’ingresso del nuovo anno, si terrà un gran ballo, proprio qui, nella Sala Grande. Spero di cuore che ciascuno di voi partecipi a questa iniziativa.»

Questa volta il mormorio di sottofondo si fece più insistente e concitato. Il banchetto sembrava aver perso quel suo irresistibile appeal: i ragazzi erano ormai interessati ad altro. Non capivano per quale motivo Fu avesse deciso di preparare quella festa. Da quando aveva ereditato le “redini” della scuola, non aveva mai (e di tempo ne aveva avuto parecchio) fatto nulla del genere. Alcuni studenti del settimo anno, seduti a capotavola, si guardarono tra di loro con sospetto.

Al contrario gli allievi più giovani, tra cui i pochi membri rimasti della redazione dell’Eco di Hogwarts, erano eccitati all’idea di poter prendere parte ad un’iniziativa del genere. Chloé, in particolare, era su di giri. Aveva estratto dalla tasca dei propri jeans una penna biro e un piccolo bloc-notes, sul quale iniziò a prendere freneticamente degli appunti. I suoi compagni, impressionati da tanto zelo, la osservavano incuriositi ridacchiando di tanto in tanto.

«Si può sapere cosa stai scrivendo?!» sbottò, all’improvviso, Marinette mimando un gesto che tradiva le sue ascendenze italiche. «Sei arrivata alla sesta pagina! Il Preside ha parlato di una festa, non di un compito a sorpresa.»

«Quanto sei ignorante Dupain-Cheng. Non sto scrivendo la lista degli ingredienti per una pozione della Mendeleiev. Questo – e nel dirlo la piccola Bourgeois sventolò le pagine davanti i grandi occhioni azzurri della compagna - è l’elenco degli abiti da cerimonia che ho portato ad Hogwarts.»

«Stai scherzando, vero? Saranno una settantina: come hai fatto a metterli tutti nel baule?»

«”Incantesimo di Estensione Irriconoscibile”» cantilenò la figlia del Primo Ministro, mentre il petto le si gonfiava soddisfatto, «Non hai idea di quanto possa essere utile. A casa mia, a Parigi ovviamente, ho un armadio così capiente da poter far entrare un cane a tre teste pienamente cresciuto.»

«Non mi starai dicendo che… che…» balbettò Juleka stringendosi nelle spalle, spaventata dalla possibile risposta.

«Si chiama Fuffi, ha tre anni e mezzo. È un vero giocherellone, ma guai a chi si azzarda a toccare i miei vestiti: potrebbe essere l’ultima cosa che fareste.»

Un brivido corse lungo la schiena di chi la stava ad ascoltare, ad eccezione di Adrien. Il discorso del Preside gli era difatti arrivato alle orecchie come un eco lontano. Troppo assorto nei proprio pensieri, si alzò in silenzio dal tavolo e, senza dire nulla, ritornò solitario al proprio dormitorio.

 
 
   
 
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