La
Città Eterna
<<
Mi dispiace che tu sia costretta a farmi da balia. >>
Glielo aveva detto in un italiano talmente perfetto che, per un
momento, Lia
era rimasta senza parole. La tazza di caffè in mano,
sollevata a mezz’aria,
vicina alle labbra.
Jeannot
sapeva parlare l’italiano, e lei lo sapeva, l’aveva
sempre saputo, anche se non
si aspettava che fosse così bravo, che non avesse un accento
o un pronuncia
anche solo vagamente francese.
<<
Oh, nessun problema, >> sorrise lei, cecando di non dare
a vedere la
sorpresa << stai rendendo il mio stage decisamente
più interessante di
quanto avrebbe dovuto essere in origine. >>
Lui
piegò le labbra in un sorriso appena accennato, e le rivolse
un inchino
scherzoso. Lia si sentì orgogliosa per quel sorriso:
l’attore era a Roma da un
mese ormai, e non l’aveva mai visto sorridere, non davvero.
Il
suo stage a Cinecittà non le dispiaceva: sarebbe potuta
andarle molto peggio;
sarebbe potuta finire a fare la segretaria e fare caffè e
fotocopie, invece
poteva mettere mano alle sceneggiature, adattare copioni, aiutare,
occasionalmente, a sistemare i set esterni e interni e assistere alle
riprese
di numerose scene. Aveva già conosciuto diversi registi,
attrici e attori, fra cui
Jeannot.
Non
aveva capito bene le dinamiche del fatto, sapeva solo che
l’attore rifiutava di
parlare italiano, pertanto aveva bisogno di un interprete, e,
evidentemente,
per quel lavoro non c’era persona più adatta di
una stagista che lavorava
gratis.
Fare
da interprete, mostrare Roma a un attore abbastanza famoso da poter
essere
riconosciuto era un bel cambiamento per una sempre abituata a stare
dietro le
quinte, ed era anche l’occasione per imparare qualcosa di
nuovo. Sarebbe stata
sempre riconoscente nei confronti della sua supervisor per
quell’opportunità.
Jeannot
rimase in silenzio. Si passò una mano fra i ricci castani,
poi sospirò
guardandosi distrattamente la sua tazzina di caffè ormai
vuota. Dalla tasca
della giacca prese l’accendino e il pacchetto di sigarette
<< fumi? Ti dà
fastidio se… >> chiese in francese, prendendo
una sigaretta e
portandosela alle labbra. Lia scosse la testa, e lo osservò
fumare in silenzio,
mentre lei terminava il suo macchiato.
Avevano
tutto il tempo del mondo per rilassarsi in quel piccolo bar quasi
sconosciuto
pur essendo vicino al Pantheon.
Sarebbe
stato difficile che qualcuno potesse riconoscere Jeannot, nessuno
passava per
Via Oscura perché voleva passarci, a meno che non abitasse
lì, ovvio. Spesso ci
arrivava chi si perdeva, turisti o romani. Lia la conosceva per quel
motivo,
con la differenza che lei amava perdersi, allontanarsi dalla folla, dal
caos
cittadino e scoprire tutti i luoghi segreti della Città
Eterna, quelli meno
visiti, quelle strade che sembravano disabitate, fuori dal tempo e
dallo
spazio.
<<
Merci d’être
si patiente. >>
Lia
sorrise. Aveva sentito delle voci, principalmente per via del suo
lavoro, degli
ambienti che frequentava, non solo per via di internet.
<< L’italiano è
una lingua difficile, >> tentò. Se lui avesse
voluto confermare le voci
che lei aveva sentito, sarebbe stata una decisione interamente sua, lei
non
avrebbe fatto nulla per saperne di più. Era curiosa ma,
trovandosi dall’altra
parte, sarebbe certamente stata estremamente gelosa della sua privacy.
<<
Mia madre me l’ha insegnato sin da quando ero bambino,
>> disse lui,
sorridendo a mo’ di scuse, la sigaretta in mano.
<< L’Italia mi ricorda
Peter. Anche se il film l’abbiamo girato a
Venezia… >> scosse la testa e
aspirò una boccata di fumo. << Avrai sentito
le voci su di noi, immagino.
>>
Lia
annuì << la gente parla tanto, anche di
ciò che non capisce o non
conosce. >>
Jeannot le rivolse uno sorriso triste. << Grazie per
avermi consigliato
il caffè: il mal di testa mi è passato.
>>
<<
Funziona solo col mal di testa causato dallo stress. È un
consiglio che mi
aveva dato una studentessa di medicina. >>
Niente
confessioni.
Se
le voci fossero vere o meno, sarebbe rimasto un segreto; un argomento
che
sarebbe stato oggetto di pettegolezzi ancora per un po’,
finché non sarebbe
capitato qualcosa di più interessante di cui parlare. Lei,
dal canto suo, stava
cominciando a pensare che doveva esserci almeno un fondo di
verità in tutto
quello che la gente diceva.
Era
passato poco più di un anno da quando ‘ Concerto
per arpa e flauto ’ era uscito
nelle sale, quasi due, da quando era stato girato a Venezia. Erano
passati
quasi quattro mesi da quando la co-star di Jeannot in ‘
Concerto per arpa e
flauto ’, Peter O’Leary, era stato dichiarato
disperso nelle Alpi svizzere,
mentre faceva un escursione. Quasi quattro mesi senza notizie,
trascorsi
nell’incertezza e nella speranza. Nessun corpo era stato
ritrovato, ma il tempo
trascorso era tanto.
<<
Ti è mai capitato di… vivere qualcosa, ma non
fino in fondo, rinunciando a
tante occasioni, e quando tutto finisce, ripensi a cosa sarebbe potuto
accadere,
e capisci che tante cose non sono capitate e la colpa è tua
e… >> si
interruppe e scosse la testa << scusa. Quello che dico
non ha nemmeno
senso. >>
<< No. No, credo di aver capito. Non vivere qualcosa fino
in fondo, e
desiderare una seconda occasione, perché col senno di poi si
sa sempre cosa
fare. >>
<<
Sì, una seconda occasione: è questo quello che
vorrei. >> Spense la
sigaretta sul posacenere.
Forse
non si era reso di ciò che aveva finché non
l’aveva perso, o forse l’aveva
sempre saputo, ma non aveva mai voluto prendere in considerazione
quell’eventualità. Perché, dopotutto,
cosa sarebbe potuto andare storto? E
perché proprio a lui?
Perché
a me? No, a me non
capiterà. L’illusione
più grande di ogni essere umano.
Aveva
dato per scontata la presenza di Peter nella sua vita,
l’aveva considerata
talmente scontata che si era accontentato di averlo anche solo come
amico,
tutto pur di averlo. Era stato stupido, e ingenuo, sarebbe dovuto
essere stato
più egoista.
Gli
era rimasta una vecchia chat, che non aveva il coraggio di cancellare,
ma
nemmeno di rileggere.
A
Febbraio sarò in Francia.
Dovremmo vederci ;-)
Certo
J
Aveva
sempre avuto paura di mostrarsi troppo affettuoso nei suoi confronti,
in
privato. In pubblico, invece, aveva sempre dato spettacolo.
Alcuni
lo trovavano ‘tenero’, altri pensavano che fosse
‘un ragazzetto in cerca di
attenzioni’. E poi c’era anche chi ci aveva visto
giusto definendolo ‘talmente
innamorato da non potergli stare lontano per più di un
secondo. ’
Come
va sulle Alpi?
Quello
era l’ultimo messaggio, e la risposta non era mai arrivata.
Il
primo mese senza notizie l’aveva trascorso al pc a vedere
tutta la filmografia
di Peter, e aveva perso il conto di quante volte aveva rivisto il film
che li
aveva fatti conoscere, ascoltato la colonna sonora solo per illudersi
di essere
ancora a Venezia, sul set, con lui.
C’erano
tante cose che avrebbe voluto dirgli, di cui avrebbe voluto parlare, ma
aveva
avuto paura, si era convinto che non avrebbero avuto futuro e, forse
era stata
solo una sua impressione, ma gli era sembrato che, in qualche modo, lui
avesse
capito, e avesse cercato di tenerlo lontano.
Dopotutto,
undici anni di differenza erano tanti; e dopo qualche tempo si sarebbe
dimenticato di lui, avrebbe conosciuto un’altra persona, si
sarebbe innamorato
di nuovo e… no. Sarebbe successo, lo sapeva, la sua vita
continuava, ma quel
pensiero non lo faceva stare meglio, anzi. Andare avanti lo faceva
sentire
colpevole, come se smettere di soffrire avesse voluto dire dimenticare,
ignorare quello che aveva provato per Peter.
Il
rimpianto, il dolore voleva tenerseli stretti, perché
finché avrebbe sofferto,
Peter sarebbe stato reale, sarebbe potuto tornare a casa.
Lia
era rimasta in silenzio per tutto il tempo in cui lui si era perso nei
propri
pensieri. << Scusa. Solitamente non sono così.
>>
<<
Ti va una passeggiata prima di tornare in albergo? Conosco tutte le
zone meno
frequentate, e non pericolose. >>
Jeannot
annuì. Gli avrebbe fatto bene camminare un
po’ e prendere una boccata
d’aria fresca. Si sarebbe schiarito le idee, e magari quella
notte sarebbe
riuscito a riposare decentemente.
E
doveva ammettere di trovare piacevole la compagnia di Aur- Lia.
Adorava
il vero nome della sua interprete:
Aurelia. Non tanto per il significato, che si era fatto spiegare,
quanto per il
suono, che sapeva di antico, una storia appartenuta a
un’altra epoca. Tuttavia,
l’interprete in questione non era del suo stesso avviso, e
preferiva essere
chiamata semplicemente Lia.
‘Aurelia
è un nome importante’ gli aveva detto
‘un nome da palcoscenico. Ma io mi trovo
meglio dietro le quinte. ’
La
notte, nella sua stanza d’albergo, rimase a lungo sdraiato a
fissare il soffitto
in attesa di prendere sonno. Nella sua mente continuavano a succedersi,
come
fotogrammi di un vecchio film, scene vissute assieme a Peter, ricordi
che si
teneva stretto.
Il
loro primo incontro, la prima scena girata assieme, la prima uscita
–un’idea di
Peter- ‘ ti vedo teso. Hai bisogno di rilassarti un
po’: questa sera usciamo. ’
Non aveva avuto la possibilità di rifiutare e, se doveva
essere onesto, non
l’avrebbe fatto.
Ancora
dieci giorni e avrebbe lasciato Roma per tornare in Francia, ancora
dieci
giorni e sarebbe cominciato Febbraio e, lo sapeva, sarebbero stati
altri giorni
senza notizie di Peter.
Era
morto. Era passato troppo tempo perché potesse essere ancora
vivo. Avrebbe
dovuto farsene una ragione, ma non voleva.
Si
sedette sul materasso, le coperte strette attorno al suo corpo come a
proteggersi dal mondo, e lasciò che le lacrime gli rigassero
le guance.
L’ultima
volta che si erano visti era stato a Londra.
Erano
usciti, e lui aveva bevuto un po’ troppo, come faceva quando
era nervoso. Quella
volta era stato sul punto di rivelargli tutto, c’era andato
davvero molto
vicino.
Aveva
cominciato a dirgli quanto fosse importante per lui, quanto sentisse la
sua
mancanza ogni volta che erano lontani, poi Peter l’aveva
interrotto ridacchiando
sommessamente, e gli aveva tolto il bicchiere di mano. <<
Qualcuno ha
bevuto un po’ troppo, mi sembra. >>
L’aveva riaccompagnato in albergo, e
la loro serata era terminata lì.
Jeannot
tornò a sdraiarsi sotto le coperte, desiderando sparire, non
doversi alzare la
mattina seguente per andare a lavoro, non doversi alzare mai
più. Voleva che il
mondo si fermasse, che il sole smettesse di sorgere, la vita di
continuare come
se nulla fosse capitato.
Da
qualche parte, forse gliel’aveva fatta leggere sua madre,
aveva visto una
vignetta di Mafalda: fermate il mondo, voglio scendere! Ecco, era
così che si
sentiva.
§
La
moneta roteò su se stessa un paio di volte prima di cadere
nell’acqua della
fontana, assieme a tutte le altre.
Il
sole stava tramontando su Roma, e il cielo aveva assunto tinte fra il
rosa e il
dorato. Quello era per Jeannot il momento peggiore delle giornata: il
momento
in cui il giorno finiva, ma non era ancora notte, e non poteva
concedersi il
lusso di dormire e smettere di pensare.
La
Fontana di Trevi era imponente, magnifica, aveva una
maestosità che non
traspariva minimamente dalle foto che le venivano scattate e, in un
altro
momento, con uno stato d’animo diverso, sarebbe stato ben
felice di poterla
ammirare.
Aveva
deciso di buttare una monetina nelle sue acque
perché… bè, perché era
stupido,
non c’erano altri motivi. Di certo Peter non sarebbe tornato
in vita per lui,
povero idiota, che aveva espresso un desiderio e l’aveva
affidato a una
fontana.
Eppure
Roma gli sembrava una città magica, dove tutto poteva
accadere e poi, la
speranza era tutto ciò che gli era rimasto.
Si
allontanò dalla Fontana deciso a tornare in albergo,
sperando di non perdersi.
Era solo, Lia non era con lui. Non sarebbe dovuto essere lì,
non sarebbe
nemmeno dovuto uscire. Sarebbe dovuto restare nella sua stanza a
riposare,
starsene tranquillo, così, magari, il giorno dopo avrebbe
evitato di
insanguinare nuovamente il set.
Dopo
cena aveva provato a mettersi subito a letto e addormentarsi, ma non ne
era
stato in grado, allora aveva deciso di uscire. Tanto, peggio di
così…
Cominciò
a camminare allontanandosi dalla fontana, ma senza badare alla strada
che stava
percorrendo e, senza quasi rendersene conto, arrivò in
Piazza del Popolo.
C’era
gente. Tanta. Troppa. E lui era davvero stanco, stordito. Il mondo
prese a
girargli attorno.
Tolse
il cellulare dalla tasca della felpa, e cercò
l’applicazione della mappa.
<<
Jeannot? Jeannot che ci fai qui? >>
<<
Lia? >> per poco il cellulare non gli cadde di mano.
<< Ehm… io…
>>
Lei
scosse la testa << scusa, non sono tua madre, non mi devi
rispondere. Mi
sono solo preoccupata. Insomma, dopo questo pomeriggio… non
ti sarebbe
convenuto restare in albergo a riposare? >>
L’attore
annuì distrattamente. << A-avevo bisogno di un
po’ d’aria fresca.
>>
Lia
lo osservò con attenzione. << Sai come tornare
all’albergo? >>
<<
Ah… ehm, >> si schiarì la gola
<< temo-temo di essermi perso.
>>
Lei
annuì << Roma è fatta per perdersi.
Anche le persone nate e vissute qui
faticano a orientarsi. Andiamo, ti accompagno. >>
<<
Oh, no, insomma, tu sarai qui con qualcuno… io
non-non… >>
<<
Jeannot, stai bene? >>
<<
Scusa. >>
<<
Andiamo, ti accompagno in albergo, >> decise, allungando
una mano e
posandola sul braccio di lui.
<<
Scusa. Ormai sono tre mesi che mi fai da balia. Dovresti davvero farti
pagare.
>>
<<
Su, su vieni con me: sei stanco. >>
Lia
lo guidò per le strade di Roma, allontanandosi da Piazza del
Popolo, diretta
verso doveva sapeva essere l’albergo in cui alloggiava
l’attore.
<<
Roma è davvero bella di notte. Sembra quasi magica.
>>
<<
Dì un po’, hai bevuto? >>
scherzò.
<<
No. È solo che mi sembra davvero che tutto sia possibile.
Guarda la luna:
sembra fatta di latte, d’argento liquido che cola sui tetti.
>>
<<
Senti, magari non sono affari miei, ma dovresti parlarne con qualcuno.
E, no,
cambiare argomento in quel modo non funziona. >>
L’attore
rallentò fino a fermarsi sul marciapiede, e lei si
fermò a sua volta con un
sospiro << c’è qualcosa che ti
tormento, lo so, è palese, lo capirebbe
chiunque, e dovresti parlarne con qualcuno. >>
<<
No, >> scosse la testa << non serve. Si
tratta solo di idiozie… non
è nulla di cui preoccuparsi… >> la
voce si spezzò, e lui sollevò la testa
verso l’alto per impedire alle lacrime di scendere, tenendo
con le mani il
cappuccio della felpa perché restasse al suo posto
coprendogli la testa. Quando
abbassò nuovamente lo sguardo, gli occhi brillavano di
lacrime. << Peter
O’Leary non era un semplice amico. Io per lui ero ancora un
moccioso, anche se,
quando ci siamo conosciuti, avevo ventidue anni. Dopotutto, undici anni
di
differenza sono tanti, >> si strinse nelle spalle,
apparendo
incredibilmente piccolo e fragile << lui non è
mai stato… mio e
->> si interruppe deglutendo
a vuoto, incapace di continuare a parlare.
Non
c’era altro da aggiungere. Lui non era mai stato suo, pertanto non aveva il diritto di
farsi vedere in lacrime, di
portare un lutto così sofferto per colui che era stato solo
un amico,
conosciuto da nemmeno tanto tempo.
Lia
si passò una mano sul volto, cercando di pensare
velocemente. Poteva
riaccompagnare Jeannot in albergo, augurargli la buona notte, e sperare
di
trovarlo vivo e in condizioni più o meno accettabili il
giorno dopo, ma poi
sarebbe certamente stata lei a passare la notte in bianco per via del
senso di
colpa. L’uomo era solo e disperato: non poteva lasciarlo solo
in una città
sconosciuta.
Casa
sua non era lontana. Era un piccolo condominio a due piani con due
ingressi, il
suo appartamento era al piano terra. E gli inquilini del piano di sopra
erano
tranquilli e riservati.
Le
sembrò già di vedere la notizia su tutti i
giornali: Scintilla scocca fra
star del cinema e stagista.
E
cos’avrebbe detto a lavoro? Eppure, l’altra notizia
che rischiava di leggere
suonava tanto come: star si suicida nel bagno
dell’albergo.
Bè,
forse la seconda era un po’ troppo tragica.
<<
Vieni a casa mia, dormi da me questa sera. Ho una stanza in
più, anche se non è
certo un albergo a cinque stelle. >>
<<
Non voglio disturbarti ancora. >>
<<
E io non voglio lasciarti solo. Mi sembri davvero distrutto, lascia che
ti aiuti.
Non devi dirmi nulla, ma, bè: non mi sento tranquilla
sapendoti da solo in una
stanza d’albergo. >>
Lui
la guardò a lungo, prima di abbassare la testa a disagio e
annuire. Effettivamente,
non voleva stare da solo.
Quella
notte dormì nella stanza accanto a quella di Lia, in un
piccolo appartamento
vicino a Piazza del Popolo, che la donna condivideva con un grosso
gatto
tigrato, il vero proprietario di tutto il condominio che, pertanto,
poteva
andare da un appartamento all’altro a suo piacimento, per
ricevere cibo,
affetto, o un posto in cui dormire.
Tiberio
Lucrezio Scipione, il gatto, quella notte scelse di dormire nel letto
di
Jeannot, forse intuendo la tristezza di quello sconosciuto che era
stato portato
in casa sua. Si sistemò vicino alla sua schiena, e attese
che prendesse sonno;
si arrampicò sopra una sua spalla, durante la notte, quando
lo sentì agitarsi,
e prese a fare le fusa vicino al suo orecchio fino a calmarlo.