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Autore: Rosette_Carillon    05/11/2019    0 recensioni
Non è vero che non ci si rendo conto di quello che si ha finché lo non si perde. semplicemente, nessuno vuole prendere in considerazione l'idea di poter perdere chi ci fa star bene. E una volta che quella persona è persa, si desidera sempre avere una seconda occasione per poter dare voce a tutto ciò che è rimasto in sospeso, nascosto.
Jeannot la pensava così, solo non sapeva che avrebbe fatto così male.
Dal testo: Non c’era altro da aggiungere. Lui non era mai stato suo, pertanto non aveva il diritto di farsi vedere in lacrime, di portare un lutto così sofferto per colui che era stato solo un amico, conosciuto da nemmeno tanto tempo.
Lia si passò una mano sul volto, cercando di pensare velocemente. Poteva riaccompagnare Jeannot in albergo, augurargli la buona notte, e sperare di trovarlo vivo e in condizioni più o meno accettabili il giorno dopo, ma poi sarebbe certamente stata lei a passare la notte in bianco per via del senso di colpa.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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                                  La Città Eterna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<< Mi dispiace che tu sia costretta a farmi da balia. >>
Glielo aveva detto in un italiano talmente perfetto che, per un momento, Lia era rimasta senza parole. La tazza di caffè in mano, sollevata a mezz’aria, vicina alle labbra.

Jeannot sapeva parlare l’italiano, e lei lo sapeva, l’aveva sempre saputo, anche se non si aspettava che fosse così bravo, che non avesse un accento o un pronuncia anche solo vagamente francese.

<< Oh, nessun problema, >> sorrise lei, cecando di non dare a vedere la sorpresa << stai rendendo il mio stage decisamente più interessante di quanto avrebbe dovuto essere in origine. >>

Lui piegò le labbra in un sorriso appena accennato, e le rivolse un inchino scherzoso. Lia si sentì orgogliosa per quel sorriso: l’attore era a Roma da un mese ormai, e non l’aveva mai visto sorridere, non davvero.

Il suo stage a Cinecittà non le dispiaceva: sarebbe potuta andarle molto peggio; sarebbe potuta finire a fare la segretaria e fare caffè e fotocopie, invece poteva mettere mano alle sceneggiature, adattare copioni, aiutare, occasionalmente, a sistemare i set esterni e interni e assistere alle riprese di numerose scene. Aveva già conosciuto diversi registi, attrici e attori, fra cui Jeannot.

Non aveva capito bene le dinamiche del fatto, sapeva solo che l’attore rifiutava di parlare italiano, pertanto aveva bisogno di un interprete, e, evidentemente, per quel lavoro non c’era persona più adatta di una stagista che lavorava gratis.

Fare da interprete, mostrare Roma a un attore abbastanza famoso da poter essere riconosciuto era un bel cambiamento per una sempre abituata a stare dietro le quinte, ed era anche l’occasione per imparare qualcosa di nuovo. Sarebbe stata sempre riconoscente nei confronti della sua supervisor per quell’opportunità.

Jeannot rimase in silenzio. Si passò una mano fra i ricci castani, poi sospirò guardandosi distrattamente la sua tazzina di caffè ormai vuota. Dalla tasca della giacca prese l’accendino e il pacchetto di sigarette << fumi? Ti dà fastidio se… >> chiese in francese, prendendo una sigaretta e portandosela alle labbra. Lia scosse la testa, e lo osservò fumare in silenzio, mentre lei terminava il suo macchiato.

Avevano tutto il tempo del mondo per rilassarsi in quel piccolo bar quasi sconosciuto pur essendo vicino al Pantheon.

Sarebbe stato difficile che qualcuno potesse riconoscere Jeannot, nessuno passava per Via Oscura perché voleva passarci, a meno che non abitasse lì, ovvio. Spesso ci arrivava chi si perdeva, turisti o romani. Lia la conosceva per quel motivo, con la differenza che lei amava perdersi, allontanarsi dalla folla, dal caos cittadino e scoprire tutti i luoghi segreti della Città Eterna, quelli meno visiti, quelle strade che sembravano disabitate, fuori dal tempo e dallo spazio.

<< Merci d’être si patiente. >>

Lia sorrise. Aveva sentito delle voci, principalmente per via del suo lavoro, degli ambienti che frequentava, non solo per via di internet. << L’italiano è una lingua difficile, >> tentò. Se lui avesse voluto confermare le voci che lei aveva sentito, sarebbe stata una decisione interamente sua, lei non avrebbe fatto nulla per saperne di più. Era curiosa ma, trovandosi dall’altra parte, sarebbe certamente stata estremamente gelosa della sua privacy.

<< Mia madre me l’ha insegnato sin da quando ero bambino, >> disse lui, sorridendo a mo’ di scuse, la sigaretta in mano. << L’Italia mi ricorda Peter. Anche se il film l’abbiamo girato a Venezia… >> scosse la testa e aspirò una boccata di fumo. << Avrai sentito le voci su di noi, immagino. >>

Lia annuì << la gente parla tanto, anche di ciò che non capisce o non conosce. >>
Jeannot le rivolse uno sorriso triste. << Grazie per avermi consigliato il caffè: il mal di testa mi è passato. >>

<< Funziona solo col mal di testa causato dallo stress. È un consiglio che mi aveva dato una studentessa di medicina. >>

Niente confessioni.

Se le voci fossero vere o meno, sarebbe rimasto un segreto; un argomento che sarebbe stato oggetto di pettegolezzi ancora per un po’, finché non sarebbe capitato qualcosa di più interessante di cui parlare. Lei, dal canto suo, stava cominciando a pensare che doveva esserci almeno un fondo di verità in tutto quello che la gente diceva.

Era passato poco più di un anno da quando ‘ Concerto per arpa e flauto ’ era uscito nelle sale, quasi due, da quando era stato girato a Venezia. Erano passati quasi quattro mesi da quando la co-star di Jeannot in ‘ Concerto per arpa e flauto ’, Peter O’Leary, era stato dichiarato disperso nelle Alpi svizzere, mentre faceva un escursione. Quasi quattro mesi senza notizie, trascorsi nell’incertezza e nella speranza. Nessun corpo era stato ritrovato, ma il tempo trascorso era tanto.

<< Ti è mai capitato di… vivere qualcosa, ma non fino in fondo, rinunciando a tante occasioni, e quando tutto finisce, ripensi a cosa sarebbe potuto accadere, e capisci che tante cose non sono capitate e la colpa è tua e… >> si interruppe e scosse la testa << scusa. Quello che dico non ha nemmeno senso. >>
<< No. No, credo di aver capito. Non vivere qualcosa fino in fondo, e desiderare una seconda occasione, perché col senno di poi si sa sempre cosa fare. >>

<< Sì, una seconda occasione: è questo quello che vorrei. >> Spense la sigaretta sul posacenere.

Forse non si era reso di ciò che aveva finché non l’aveva perso, o forse l’aveva sempre saputo, ma non aveva mai voluto prendere in considerazione quell’eventualità. Perché, dopotutto, cosa sarebbe potuto andare storto? E perché proprio a lui?

Perché a me? No, a me non capiterà. L’illusione più grande di ogni essere umano.

Aveva dato per scontata la presenza di Peter nella sua vita, l’aveva considerata talmente scontata che si era accontentato di averlo anche solo come amico, tutto pur di averlo. Era stato stupido, e ingenuo, sarebbe dovuto essere stato più egoista.

Gli era rimasta una vecchia chat, che non aveva il coraggio di cancellare, ma nemmeno di rileggere.

A Febbraio sarò in Francia. Dovremmo vederci ;-)

Certo J

Aveva sempre avuto paura di mostrarsi troppo affettuoso nei suoi confronti, in privato. In pubblico, invece, aveva sempre dato spettacolo.

Alcuni lo trovavano ‘tenero’, altri pensavano che fosse ‘un ragazzetto in cerca di attenzioni’. E poi c’era anche chi ci aveva visto giusto definendolo ‘talmente innamorato da non potergli stare lontano per più di un secondo. ’

Come va sulle Alpi?

Quello era l’ultimo messaggio, e la risposta non era mai arrivata.

Il primo mese senza notizie l’aveva trascorso al pc a vedere tutta la filmografia di Peter, e aveva perso il conto di quante volte aveva rivisto il film che li aveva fatti conoscere, ascoltato la colonna sonora solo per illudersi di essere ancora a Venezia, sul set, con lui.

C’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, di cui avrebbe voluto parlare, ma aveva avuto paura, si era convinto che non avrebbero avuto futuro e, forse era stata solo una sua impressione, ma gli era sembrato che, in qualche modo, lui avesse capito, e avesse cercato di tenerlo lontano.

Dopotutto, undici anni di differenza erano tanti; e dopo qualche tempo si sarebbe dimenticato di lui, avrebbe conosciuto un’altra persona, si sarebbe innamorato di nuovo e… no. Sarebbe successo, lo sapeva, la sua vita continuava, ma quel pensiero non lo faceva stare meglio, anzi. Andare avanti lo faceva sentire colpevole, come se smettere di soffrire avesse voluto dire dimenticare, ignorare quello che aveva provato per Peter. 

Il rimpianto, il dolore voleva tenerseli stretti, perché finché avrebbe sofferto, Peter sarebbe stato reale, sarebbe potuto tornare a casa.

Lia era rimasta in silenzio per tutto il tempo in cui lui si era perso nei propri pensieri. << Scusa. Solitamente non sono così. >>

<< Ti va una passeggiata prima di tornare in albergo? Conosco tutte le zone meno frequentate, e non pericolose. >>

Jeannot annuì. Gli avrebbe fatto bene camminare un po’ e prendere una boccata d’aria fresca. Si sarebbe schiarito le idee, e magari quella notte sarebbe riuscito a riposare decentemente.

E doveva ammettere di trovare piacevole la compagnia di Aur- Lia.

Adorava il vero nome della sua interprete: Aurelia. Non tanto per il significato, che si era fatto spiegare, quanto per il suono, che sapeva di antico, una storia appartenuta a un’altra epoca. Tuttavia, l’interprete in questione non era del suo stesso avviso, e preferiva essere chiamata semplicemente Lia.

‘Aurelia è un nome importante’ gli aveva detto ‘un nome da palcoscenico. Ma io mi trovo meglio dietro le quinte. ’

La notte, nella sua stanza d’albergo, rimase a lungo sdraiato a fissare il soffitto in attesa di prendere sonno. Nella sua mente continuavano a succedersi, come fotogrammi di un vecchio film, scene vissute assieme a Peter, ricordi che si teneva stretto.

Il loro primo incontro, la prima scena girata assieme, la prima uscita –un’idea di Peter- ‘ ti vedo teso. Hai bisogno di rilassarti un po’: questa sera usciamo. ’ Non aveva avuto la possibilità di rifiutare e, se doveva essere onesto, non l’avrebbe fatto.

Ancora dieci giorni e avrebbe lasciato Roma per tornare in Francia, ancora dieci giorni e sarebbe cominciato Febbraio e, lo sapeva, sarebbero stati altri giorni senza notizie di Peter.

Era morto. Era passato troppo tempo perché potesse essere ancora vivo. Avrebbe dovuto farsene una ragione, ma non voleva.

Si sedette sul materasso, le coperte strette attorno al suo corpo come a proteggersi dal mondo, e lasciò che le lacrime gli rigassero le guance.

L’ultima volta che si erano visti era stato a Londra.

Erano usciti, e lui aveva bevuto un po’ troppo, come faceva quando era nervoso. Quella volta era stato sul punto di rivelargli tutto, c’era andato davvero molto vicino.

Aveva cominciato a dirgli quanto fosse importante per lui, quanto sentisse la sua mancanza ogni volta che erano lontani, poi Peter l’aveva interrotto ridacchiando sommessamente, e gli aveva tolto il bicchiere di mano. << Qualcuno ha bevuto un po’ troppo, mi sembra. >> L’aveva riaccompagnato in albergo, e la loro serata era terminata lì.

Jeannot tornò a sdraiarsi sotto le coperte, desiderando sparire, non doversi alzare la mattina seguente per andare a lavoro, non doversi alzare mai più. Voleva che il mondo si fermasse, che il sole smettesse di sorgere, la vita di continuare come se nulla fosse capitato.

Da qualche parte, forse gliel’aveva fatta leggere sua madre, aveva visto una vignetta di Mafalda: fermate il mondo, voglio scendere! Ecco, era così che si sentiva.

 

§

 

La moneta roteò su se stessa un paio di volte prima di cadere nell’acqua della fontana, assieme a tutte le altre.

Il sole stava tramontando su Roma, e il cielo aveva assunto tinte fra il rosa e il dorato. Quello era per Jeannot il momento peggiore delle giornata: il momento in cui il giorno finiva, ma non era ancora notte, e non poteva concedersi il lusso di dormire e smettere di pensare.

La Fontana di Trevi era imponente, magnifica, aveva una maestosità che non traspariva minimamente dalle foto che le venivano scattate e, in un altro momento, con uno stato d’animo diverso, sarebbe stato ben felice di poterla ammirare.

Aveva deciso di buttare una monetina nelle sue acque perché… bè, perché era stupido, non c’erano altri motivi. Di certo Peter non sarebbe tornato in vita per lui, povero idiota, che aveva espresso un desiderio e l’aveva affidato a una fontana.

Eppure Roma gli sembrava una città magica, dove tutto poteva accadere e poi, la speranza era tutto ciò che gli era rimasto.

Si allontanò dalla Fontana deciso a tornare in albergo, sperando di non perdersi. Era solo, Lia non era con lui. Non sarebbe dovuto essere lì, non sarebbe nemmeno dovuto uscire. Sarebbe dovuto restare nella sua stanza a riposare, starsene tranquillo, così, magari, il giorno dopo avrebbe evitato di insanguinare nuovamente il set.

Dopo cena aveva provato a mettersi subito a letto e addormentarsi, ma non ne era stato in grado, allora aveva deciso di uscire. Tanto, peggio di così…

Cominciò a camminare allontanandosi dalla fontana, ma senza badare alla strada che stava percorrendo e, senza quasi rendersene conto, arrivò in Piazza del Popolo.

C’era gente. Tanta. Troppa. E lui era davvero stanco, stordito. Il mondo prese a girargli attorno.

Tolse il cellulare dalla tasca della felpa, e cercò l’applicazione della mappa.

<< Jeannot? Jeannot che ci fai qui? >>

<< Lia? >> per poco il cellulare non gli cadde di mano. << Ehm… io… >>

Lei scosse la testa << scusa, non sono tua madre, non mi devi rispondere. Mi sono solo preoccupata. Insomma, dopo questo pomeriggio… non ti sarebbe convenuto restare in albergo a riposare? >>

L’attore annuì distrattamente. << A-avevo bisogno di un po’ d’aria fresca. >>

Lia lo osservò con attenzione. << Sai come tornare all’albergo? >>

<< Ah… ehm, >> si schiarì la gola << temo-temo di essermi perso. >>

Lei annuì << Roma è fatta per perdersi. Anche le persone nate e vissute qui faticano a orientarsi. Andiamo, ti accompagno. >>

<< Oh, no, insomma, tu sarai qui con qualcuno… io non-non… >>

<< Jeannot, stai bene? >>

<< Scusa. >>

<< Andiamo, ti accompagno in albergo, >> decise, allungando una mano e posandola sul braccio di lui.

<< Scusa. Ormai sono tre mesi che mi fai da balia. Dovresti davvero farti pagare. >>

<< Su, su vieni con me: sei stanco. >>

Lia lo guidò per le strade di Roma, allontanandosi da Piazza del Popolo, diretta verso doveva sapeva essere l’albergo in cui alloggiava l’attore.

<< Roma è davvero bella di notte. Sembra quasi magica. >>

<< Dì un po’, hai bevuto? >> scherzò.

<< No. È solo che mi sembra davvero che tutto sia possibile. Guarda la luna: sembra fatta di latte, d’argento liquido che cola sui tetti. >>

<< Senti, magari non sono affari miei, ma dovresti parlarne con qualcuno. E, no, cambiare argomento in quel modo non funziona. >>

L’attore rallentò fino a fermarsi sul marciapiede, e lei si fermò a sua volta con un sospiro << c’è qualcosa che ti tormento, lo so, è palese, lo capirebbe chiunque, e dovresti parlarne con qualcuno. >>

<< No, >> scosse la testa << non serve. Si tratta solo di idiozie… non è nulla di cui preoccuparsi… >> la voce si spezzò, e lui sollevò la testa verso l’alto per impedire alle lacrime di scendere, tenendo con le mani il cappuccio della felpa perché restasse al suo posto coprendogli la testa. Quando abbassò nuovamente lo sguardo, gli occhi brillavano di lacrime. << Peter O’Leary non era un semplice amico. Io per lui ero ancora un moccioso, anche se, quando ci siamo conosciuti, avevo ventidue anni. Dopotutto, undici anni di differenza sono tanti, >> si strinse nelle spalle, apparendo incredibilmente piccolo e fragile << lui non è mai stato… mio e ->> si interruppe deglutendo a vuoto, incapace di continuare a parlare.

Non c’era altro da aggiungere. Lui non era mai stato suo, pertanto non aveva il diritto di farsi vedere in lacrime, di portare un lutto così sofferto per colui che era stato solo un amico, conosciuto da nemmeno tanto tempo.

Lia si passò una mano sul volto, cercando di pensare velocemente. Poteva riaccompagnare Jeannot in albergo, augurargli la buona notte, e sperare di trovarlo vivo e in condizioni più o meno accettabili il giorno dopo, ma poi sarebbe certamente stata lei a passare la notte in bianco per via del senso di colpa. L’uomo era solo e disperato: non poteva lasciarlo solo in una città sconosciuta.

Casa sua non era lontana. Era un piccolo condominio a due piani con due ingressi, il suo appartamento era al piano terra. E gli inquilini del piano di sopra erano tranquilli e riservati.

Le sembrò già di vedere la notizia su tutti i giornali: Scintilla scocca fra star del cinema e stagista.

E cos’avrebbe detto a lavoro? Eppure, l’altra notizia che rischiava di leggere suonava tanto come: star si suicida nel bagno dell’albergo.

Bè, forse la seconda era un po’ troppo tragica.

<< Vieni a casa mia, dormi da me questa sera. Ho una stanza in più, anche se non è certo un albergo a cinque stelle. >>

<< Non voglio disturbarti ancora. >>

<< E io non voglio lasciarti solo. Mi sembri davvero distrutto, lascia che ti aiuti. Non devi dirmi nulla, ma, bè: non mi sento tranquilla sapendoti da solo in una stanza d’albergo. >>

Lui la guardò a lungo, prima di abbassare la testa a disagio e annuire. Effettivamente, non voleva stare da solo.

Quella notte dormì nella stanza accanto a quella di Lia, in un piccolo appartamento vicino a Piazza del Popolo, che la donna condivideva con un grosso gatto tigrato, il vero proprietario di tutto il condominio che, pertanto, poteva andare da un appartamento all’altro a suo piacimento, per ricevere cibo, affetto, o un posto in cui dormire.

Tiberio Lucrezio Scipione, il gatto, quella notte scelse di dormire nel letto di Jeannot, forse intuendo la tristezza di quello sconosciuto che era stato portato in casa sua. Si sistemò vicino alla sua schiena, e attese che prendesse sonno; si arrampicò sopra una sua spalla, durante la notte, quando lo sentì agitarsi, e prese a fare le fusa vicino al suo orecchio fino a calmarlo.

  
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