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Autore: Diana LaFenice    08/11/2019    0 recensioni
"A volte basta allontanarsi un po' per vedersi meglio".
La notte del naufragio della Fortuny, si persero le tracce di sei delle diciotto lance di salvataggio. Ufficialmente dispersi e poi dati per morti, in realtà i superstiti approdarono sulle spiagge di un vero e proprio paradiso terrestre.
Dieci anni dopo i figli dei naufraghi vivono in pace sotto la guida di Conrad, l'ultimo adulto rimasto. Tuttavia la pace è solo apparente. Tra gioie, problemi e dolori non mancano le lotte intestine e le domande. Per esempio, perché non si può andare nella Landa? Cosa c'è laggiù? Perché non ci si può andare? E se la salvezza fosse oltre quella zona nebbiosa e fitta? E cosa è davvero successo in dieci anni prima? Perché non si può lasciare l'isola?
Ripercorrendo i sentieri della memoria ed esplorando quei meandri tanto temuti, i figli dei naufraghi cercheranno di trovare il modo di abbandonare il Giardino dell'Eden in cui sono cresciuti.
Tra ricordi, fantasia, misticismo e spiritualità questo è Il Giardino di Dio.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Prego per ricordarvi


Fred correva mentre la furia dell’acqua gli era alle calcagna, sempre più vicina. Il respiro affannato e la paura gli avevano messo le ali ai piedi, ma non era sufficiente. Presto sarebbe crollato.
La sua vocetta di bambino chiamò suo padre. La vista offuscata dalle lacrime e dal blackout. La luce andava e veniva eppure i colori erano vividi come se qualcuno si fosse divertito a calcarli.
E lui scappava più rapido che poteva, ma le sue gambe da bambino non furono sufficientemente veloce e non riuscì a raggiungere le scale. Improvvisamente il pavimento si impennò e lui si svegliò di soprassalto con un grido e uno scatto che destò tutti gli altri.
Il ragazzo annaspò e si prese la testa tra le mani, fissando la distesa biancastra senza vederla.  
«Oh, no, di nuovo». Commentò una voce maschile dai toni baritonali ancora incerti. Poi altre voci e borbottii lo riportarono alla realtà. Solo allora il ragazzo comprese di stare guardando la coperta che era scivolata sulle sue ginocchia. Batté le palpebre e mise a fuoco la coperta, mentre, respirando dal naso, cercava di calmarsi.
Intanto, attorno a lui, altre voci si unirono a quella che aveva dato il via. «Ehi! Possibile che tutte le notti sei ancora capace di rompere le palle?», «Vaffanculo, Fred», «Che è successo?», «Si è svegliato di nuovo?», «Oddio, no, un’altra volta?»
“Cosa?” Pensò tornando completamente alla realtà. Abbassò le mani e incontrò gli sguardi accusatori dei suoi compagni sdraiati a cerchio attorno a lui. Distinguibili grazie ai raggi lunari che filtravano dall’ingresso della grotta. Ops. «Scusate, ragazzi». Balbettò passandosi una mano tra i capelli lunghi incollati alla testa per il sudore. Le ginocchia raccolte al petto. «Io, davvero non lo faccio apposta», cercò di scusarsi ma non lo ascoltarono. L’altro continuò a infierire scocciato: «Bella scusa, fai sempre così e credi che te lo lasceremo passare». In quel semi buio, il loro fastidio e il loro odio erano persino più palpabili che quando era giorno. Ciononostante, il ragazzo, pur sentendo la vergogna montare dentro di sé, continuò a squittire: «Non è colpa mia, non lo faccio apposta». Ma nessuno gli credette. Molti lo mandarono a quel paese, mentre uno, sarcastico: «Sì, sì, certo, spera solo che Conrad non ti abbia sentito, altrimenti…»
«Altrimenti cosa?» Domandò la voce maschile del chiamato in causa. Tutti si volsero verso di lui, che si stagliava all’ingresso, oscurando la luce della luna. L’uomo aveva una corporatura robusta e un copricapo di piume che lo faceva somigliare a una sorta di creatura soprannaturale alla luce della luna.
«Eccolo, lo sapevo». Bisbigliò qualcuno mentre il capo entrava nella caverna e si avvicinava. «C’è qualche problema?» Chiese in tono apprensivo.
«No, nulla, è solo che Fred ha avuto un incubo e ha finito per svegliare tutti». Rispose Tiger invece sua, mentre altri si ricoricavano. Fred abbassò il capo e sentì le guance scaldarsi per la vergogna. Ecco, scoperto.
«Ancora con quel sogno, Freddie?» Domandò in tono paziente. Il ragazzo distolse lo sguardo, frustrato. Questa pazienza gli dava fastidio. Si sentiva ancora un bambino piccolo e indifeso che aveva bisogno del bacio della buonanotte o dell’abbraccio della madre per addormentarsi. Cosa che, in realtà, gli mancava molto. Ma Conrad non era suo padre e ogni volta si spaventava dalla facilità con cui finiva per confidargli tutto.
Cominciava ad avere voglia di tenersi le cose per sé. Dopotutto stava crescendo, pensava che fosse anche giusto occuparsene da soli, perché aveva già appurato che le parole di Conrad non bastavano più. In ogni caso un giretto l’avrebbe aiutato molto di più che se fosse rimasto lì.
Conrad parve intuire questo suo desiderio perché lo invitò a raggiungerlo e a seguirlo, poi diede l’ordine di riaccendere il focolare all’ingresso.
«Ci penso io». Borbottò una ragazza, Celine, che si alzò e andò a prendere l’occorrente.
Mentre lei si affaccendava per riaccenderlo, anche lui si alzò. Si adagiò una camicia bianca sulle spalle e con un sospiro, si avviò verso l’ingresso.
L’uomo si fece da parte per lasciarlo uscire e si avviò con lui. Gli dispiaceva da morire abbandonare il dolce tepore del giaciglio, ma non se la sentiva di restare lì a essere preso in giro. Se c’era una cosa che non era cambiata in tutti quegli anni, erano le prese di giro dei suoi compagni.
Proprio in quel momento la ragazza riuscì a riaccendere il fuoco. Conrad avvolse uno straccio attorno a un ramo abbastanza lungo e impregnato d’olio, poi lo adagiò nel fuoco. La luce delle fiamme s’intensificò, illuminando il resto della caverna e i ragazzi, che ammutolirono.
Quando rialzò il bastone, con la solennità propria di un sacerdote, sembrava che avesse compiuto un antico rito sacro. Invece il ragazzo preferì prendere con sé una delle lunghe lance. Con quelle s’inoltrarono nella giungla.   
Mentre si facevano largo tra le piante il ragazzo evitò di guardarlo. Non tanto per la vergogna, perché sentiva arrivare un discorsetto motivazionale, ma per via della fiaccola. A giudicare dal buio circostante, dovevano essere le quattro, l’ora più buia della notte e se avesse guardato una fonte di luce, avrebbe perso la possibilità di abituare la sua vista all’oscurità. Rabbrividì per lo sbalzo di temperatura e starnutì. Non aveva paura di assopirsi, con l’incubo che aveva fatto aveva perso la voglia di dormire.
«Un altro incubo?» Domandò a un certo punto, mentre pattugliavano i confini. Si diceva che dieci anni prima, Conrad avesse sconfitto una tribù di indigeni e che avesse stipulato con loro la divisione dell’isola.
Il patto consisteva di non violare mai la Zona delle Nebbie, nella parte più a nord dell’isola. Si vociferava che succedessero cose strane lì e tutti se ne erano sempre tenuti saggiamente alla larga. 
Conrad non era stato l’unico adulto e loro non erano come i ragazzini de Il signore delle mosche. Erano arrivati lì dieci anni prima. C’erano anche degli adulti, come Jennifer, sua madre e molte altre persone. Ma poi erano morti di malattia a causa di un’epidemia di otto anni prima, ed era rimasto solo Conrad. Ma non erano morti solo loro. Fred ricordava benissimo che, una volta, anche i bambini erano più numerosi. Anche loro erano morti di stenti, di fame, di malattia e di fatiche. Loro venticinque erano i superstiti.
In realtà non faceva sempre tutto lui, si distribuivano i compiti da quando alcuni dei ragazzi più grandi avevano compiuto dodici anni. Ogni due ore toccava a una coppia di ragazzi e poi, verso l’alba a Conrad. Ormai c’erano abituati.
«Sì». Ammise in tono sconfitto. C’aveva provato tante volte a fermarli in quegli anni, ma non ci era mai riuscito del tutto. Finiva sempre che tornavano, più agguerriti e potenti di prima. 
«Non ci posso fare niente, purtroppo, mi rendo conto che le mie parole non sono sufficienti per aiutarti». Si scusò Conrad «posso solo ascoltarti, come sempre, ma non posso fare molto di più».
«Ma che dici? Per me è già tanto!» Esclamò il giovane rialzando la testa verso di lui.
«Allora permettimi di ascoltarti ancora una volta». S’offrì l’uomo, fermandosi per guardarlo.
Il ragazzo lo accontentò, cercando le parole per esprimersi meglio. «É sempre lo stesso sogno ma la paura non passa. Non cambia mai e ogni volta non so cosa fare».
L’altro lo osservò per qualche istante senza porre domande. Gliene aveva parlato tante di quelle volte, che ormai anche lui lo conosceva a memoria. Oscillò la testa su e giù prima di mormorare: «Capisco».
Camminarono ancora un po’ scambiandosi qualche parola ogni tanto. Fred gli chiese se fosse normale, essere perseguitati così. Conrad disse di no e che forse gli spiriti lo stavano perseguitando.
“Ah, forse è per questo”. Pensò il giovane. Lo lasciò borbottare rassicurazioni ancora un po’, poi l’uomo concluse con un: «Va bene?»
«Sì».
Fred alzò la testa e vide il primo chiarore dell’aurora contro il manto blu scuro della notte. Guardò il suo compagno: «Scusami, potrei avviarmi verso la spiaggia? C’è… una cosa che devo fare». Spiegò poi. L’uomo annuì e gli consigliò di portare con sé la torcia. Ma il ragazzo rifiutò: «Tra poco ci vedrò e poi la spiaggia non è molto lontana da qui».
L’uomo l’osservò a lungo e poi fece un cenno d’assenso col capo. Il ragazzo lo ringraziò e se ne andò, sentendo su di sé lo sguardo vigile del più anziano sulle spalle.
Conosceva a menadito quella strada. La percorreva sempre da quando avevano preso quest’abitudine.    
Se chiudeva gli occhi poteva ancora tornare a quel tempo. Ed era il momento di onorarli e, di conseguenza, di ricordare anche il suo nome: Frederick Waleran.  
Più si allontanava più accelerava la sua andatura, seguendo l’eco delle voci dei suoi genitori. Il cuore accelerò. Non aveva paura di inciampare e ferirsi, la strada la conosceva troppo bene per correre un rischio così. Ed era sicuro che anche se si fosse ferito, non avrebbe mai mancato un appuntamento del genere.
“Scusatemi se non sono potuto venire prima”. Pensò quando i suoi piedi si posarono sulla sabbia nuda della spiaggia. Avanzò fino ad uscire completamente dalla boscaglia e si fermò esattamente al centro di quella lingua di terra. Respirò a pieni polmoni l’odore dell’oceano.
Un venticello si avviluppava attorno alla sua persona per un momento, smuovendogli i vestiti e i capelli. Gli parve di sentire i rimproveri di suo fratello maggiore e il sorriso bonario del padre, mentre la madre ammoniva il figlio di smettere di tormentare così Fred. Non avrebbe saputo dire se fosse la sua immaginazione, ma gli piaceva pensare che gli spiriti dei suoi lo venissero a trovare cavalcando il vento come stregoni. Per passare un po’di tempo insieme a lui. Per permettergli di onorarli e ricordarli. Questa era un momento solo per loro quattro e nessun altro. In quei momenti era come se fossero di nuovo tutti insieme.
Non era potuto venire prima per via delle piogge che in quelle settimane avevano funestato l’isola, ma ora era qui. Erano qui, per dargli forza, come sempre. 
Il ragazzo sollevò il palmo libero verso il cielo e sorrise quando il vento s’insinuò tra le sue dita, quasi prendendolo per mano. “Loro ti rispettano”. Disse una voce dai recessi dei suoi ricordi. Una voce di bambino. Ed era contento che fosse così. Perché in un certo senso, poteva vederli.  
Fred aprì gli occhi ascoltando lo sciabordio delle onde che la nave solcava. Si aggrappò alla balaustra dipinta di bianco, ridendo divertito, mentre il vento scompigliava i suoi capelli lisci e biondi.
«Scommetto che non hai il coraggio di salire sulla balaustra!» Lo sfidò scherzoso suo fratello maggiore. Fred alzò gli occhi dal pupazzino con cui stava giocando e lo guardò spaesato, riemergendo dalla sua storia. Il fratello maggiore aveva i capelli color miele e gli occhi azzurri ridenti. Sembrava la sua versione un po’più grande e più scura. «Cosa?»
«La balaustra».
«Perché dovrei?»
«Perché sì!» Lo sfidò. E quando faceva così era inutile cercare di negare. Il bambino aveva un modo di fare che stupiva e incantava. Un modo che costringeva chiunque a fare ciò che voleva. Come stava succedendo adesso. Fred da piccolo pensava che il fratello maggiore avesse un potere magico per riuscire in questo intento con tanta facilità. Leggendo i fantasy come il ciclo di Terramare, si era anche convinto di essere un piccolo giovane mago. Infatti il ragazzino si ritrovò aggrappato con le braccina grassocce alle sbarre in compagnia del più alto, che si arrampicò per vedere meglio, reggendosi alla balaustra. «Guarda laggiù». Esclamò Lucas puntando il dito sulla distesa azzurra e splendente sotto ai raggi del sole pomeridiano.
Fred obbedì e scorse le creature che, rapide, s’innalzavano dalle onde e si inabissavano. «Sono sirene?»
Il fratello ghignò sotto ai baffi. «Sì». Adorava prenderlo in giro. Fred sorrise al ricordo e tese le mani avanti a sé. Ora che era grande avrebbe potuto posare le mani sulla balaustra, non accontentarsi di aggrapparsi alle sbarre orizzontali verniciate di bianco. Sentì la loro fredda consistenza sotto le dita come se fosse di nuovo lì. E, proprio in quel momento: «Fred, Lucas amori miei, non vi sporgete!» Li richiamò la loro madre con voce angosciata. Fred sentì un groppo in gola mentre il ricordo procedeva. Rivedere sua madre era sempre una cosa bella e terribile al tempo stesso. Era come riaprire una vecchia ferita tutte le volte. Ma non ci poteva fare niente, non aveva intenzione di permettere ai suoi ricordi di svanire.
Il bambino girò la testa verso di lei, che si stava avvicinando e le sorrise: «Mamma, mamma! Guarda, ci sono le sirene!» Esclamò indicando i delfini che nuotavano a pochi metri di distanza dalla nave. La donna fece scendere il maggiore e prese in braccio il minore. Poi scrutò a sua volta l’oceano e sorrise: «Sì, è vero, le vedo anch’io, salutale!» E madre e figlio salutarono le creature marine che poi dopo qualche altro tuffo, scomparvero tra i flutti.
«Dove? Voglio vederle anch’io, dove sono?» Domandò una vocetta acuta dietro di loro.
Madre e figli si girarono e videro la bambina con i lunghi codini castano scuro che gli sorrideva divertita. A soli sei anni somigliava più al signor Stewart che alla moglie. Aveva ereditato da lui i suoi splendidi capelli castani e gli occhioni azzurri. Anche come interessi era più vicina a lui di chiunque altro. Infatti, quando si erano conosciuti a una festa di compleanno in maschera, erano andati subito d’accordo. Lui era vestito da pirata, mentre lei portava delle ali di plastica blu sulla schiena. Da allora erano diventati inseparabili.
Persino sua madre era sconcertata dal fatto che avesse preferito fin da subito giocare con i dinosauri, piuttosto che con le bambole. A niente serviva regalargliele. Sembrava un piccolo folletto dispettoso, se paragonato alla principessa di casa. Ed era per questo che era la migliore amica di Fred e Lucas.
«Guarda laggiù!»
La piccola si avvicinò agli amici e scrutò a sua volta. «Ma io non vedo nulla, sei un bugiardo, Fred». Sbottò mettendo il broncio.
«Ma sì che ci sono, diglielo anche tu, mamma». La donna ridacchiò divertita prima di confermare e Fred fece una linguaccia alla sua amica, che lo guardò infastidita. «Forse sono andate via, non preoccuparti, però, vedrai che le vedrai anche tu, prima o poi. Claire dov’è la tua mamma?» Chiese la donna. La bambina si girò verso sinistra e indicò le sdraio attorno alle piscine sul ponte: «Là che prende il sole. Posso giocare con voi?» Domandò poi ai due fratellini.
«Sì, dai». Esclamò Lucas allegro. Fred mugugnò il suo dissenso. Di solito non diceva mai di no, ma da quando erano in vacanza tra lui e Claire era guerra: lei non gli aveva ancora restituito il suo pupazzino preferito.  
Il giovane riaprì gli occhi e sospirò, tornado al presente. Guardò la distesa davanti a sé. Forse era colpa sua se era successo tutto questo. Se non avesse mai espresso quel desiderio, a quest’ora avrebbe potuto avere una vita normale.
Proprio in quel momento sentì le foglie della vegetazione frusciare. Si voltò di scatto ma non vide nessuno. Restò in allerta per un po’. Pronto a usare la lancia per difendersi, ma dalla boscaglia non uscì nessun predatore. Il ragazzo sospirò di sollievo, si rilassò e tornò alla sua opera di restaurazione mnemonica. Tanto gli spiriti erano ancora lì con lui, che attendevano pazienti.
Il vago rumore delle onde coperto soltanto dal vociare dei turisti, dall’impianto audio, dei camerieri e degli altri passeggeri che si divertivano sul ponte.
Su questa nave erano imbarcati Eric Stewart, sua moglie, Clarisse e le loro figlie Sally e Claire.
Eric era il miglior amico di Harold Waleran. Fred ricordava appena il volto di suo padre, il progettista della Fortuny. Tuttavia, ricordava quello del signor Stewart. Mentre era impegnato a giocare con Claire, si ricordava che aveva l’aria di uno che non avrebbe potuto chiedere niente di più dalla vita. Forse perché il signor Waleran aveva l’abitudine di rifuggire il sole e il riposo alla stregua di una curiosa specie di vampiro o di formica operaia. Il vampiro operaio.  
Sdraiato sulla sdraio sul ponte a prendere il sole con la moglie che dormiva sul lettino accanto al suo. Lieti di avere un po’di riposo dopo che la piccola furia scatenata aveva trovato un nuovo bersaglio su cui sfogare la sua energia.
A Claire venne voglia di un gelato e andò dai genitori per chiedere qualche dollaro, sì da comprarlo al bar. Anche i due fratelli si accodarono e seguirono l’amichetta, dopo che la madre ebbe dato loro i soldi. Avrebbe voluti darli anche a Claire, ma lei era già scattata dai genitori e ai due non restò altro da fare che seguirla, facendo lo slalom tra la folla. «Papà! Papà!» Chiamò quest’ultima quando fu abbastanza vicina. L’uomo stravaccato sulla sdraio girò la testa verso di lei. Però una voce si sovrappose a quella della bambina e un’altra persona li superò. Una ragazza.
Claire si fermò di botto e Lucas l’affiancò.  
«E adesso che c’è? Prima la cabina, poi la piscina». Domandò in tono paziente e carico di affetto il signor Stewart alla nuova arrivata. Un tono comunque ben diverso da quello usato da Conrad.  
«É tutto questo papà! Sai anche tu che non ci volevo venire qui!» Esclamò la ragazza allargando le braccia in un gesto stizzito prima di lasciarle ricadere sui fianchi e posarsi le mani sui medesimi. Il piede che batteva a terra in modo scocciato e alquanto teatrale.
«Come, non ti stai divertendo?»
Fred provò un istintivo moto di terrore. La sorella maggiore di Claire era incavolata nera, più del solito. «No! Non con quella piattola attaccata al culo tutto il tempo!» Sbottò accennando alla piccola Claire dietro di lei. Claire si nascose timorosa dietro la schiena di Fred. Che non ci mise molto a capire cosa avesse combinato, prima di andare a cercarlo.
«Ma lei vuole solo giocare con te». Le fece notare mentre il ragazzino cercava di rassicurare l’amichetta. La ragazza si girò di tre quarti e li osservò inviperita. «Non è vero, Claire?» Chiese poi il signor Stewart guardando la bambina. La quale dopo aver ricambiato lo sguardo, annuì. Solo allora Fred, che si era girato a sua volta, vide la macchia di crema solare sul nasino. 
«Modera il linguaggio, signorina». L’ammonì la madre. 
«E io non voglio!» Sbottò Sally incrociando le braccia e guardandoli male.
Il padre di Claire fece per ribattere quando gli arrivò un messaggino. Anche in vacanza portava il telefono sempre con sé. Lo estrasse dalla tasca della camicia e lo lesse. Scosse il capo e si alzò annunciando che doveva andare, poi si raccomandò di fare i bravi. Mentre la figlia maggiore sputava altro veleno sul fatto che non poteva lasciarle così e che doveva ascoltarla. Che doveva fare qualcosa. «Smettila di lamentarti, Sally!» La riprese la madre mentre il genitore si allontanava ciabattando. Poi domandò ai due bambini se avessero avuto bisogno di qualcosa, in tono molto più dolce. La bambina si asciugò le lacrime e annuì. Poi le espose la sua richiesta ed entrambi si ritrovarono con i soldi per comprare il gelato. Quando però chiese alla figlia maggiore di accompagnarli al bar e lei si rifiutò di nuovo, la sua voce s’indurì: «Fa come ti dico, Sally!» La ragazza obbedì li prese per mano entrambi e li portò tutti e tre al bar. Claire la implorò dicendo qualcosa, con gli occhioni grandi, da gatto con gli stivali. Ma la sedicenne dal cuore di pietra esclamò: «Sognatelo!» E, appena al bar, sfilò la mano con un gesto secco. Ma comprò lo stesso il gelato a tutti e tre.  
Il ragazzo riemerse dal ricordo e guardò il panorama che si apriva davanti a sé. Adesso illuminato dal sole che sorgeva alla sua sinistra. Il venticello completamente cessato. Il mare calmo e di nuovo solo. Adesso non sentiva più la loro presenza. Ora che si era veramente calmato poteva tornare dagli altri. Contemplò un momento quei luoghi illuminato dalla luce delicata, bianco, aurea e rosata, lasciandosi inebriare da quella sensazione di calma e pace. Fece un bel respiro profondo e sollevò le braccia verso l’alto, prima di espirare, abbassarle dolcemente, salutando così quel nuovo giorno.
Raccolse il bastone che aveva lasciato cadere e tornò al rifugio camminando tranquillamente.

   
 
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