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Autore: Ginevra1988    09/11/2019    1 recensioni
Jughead Jones abita orgogliosamente nella roulotte di suo padre, perché nessuno, tanto meno gli assistenti sociali, possono controllare la sua vita o dirgli cosa farne. Peccato che non abbia un lavoro. O qualsiasi tipo di entrata. E adesso, Jugghy?
What if che cerca di fare i conti con la realtà dei fatti, ambientato poco dopo l'inizio della seconda stagione, prima che la trama prendesse una piega quanto meno fantasiosa.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ma i semi sono invisibili.
Dormono tutti nel segreto della terra finché a uno di loro non piglia il ghiribizzo di svegliarsi.
Allora si stiracchia e fa spuntare timidamente verso il sole uno splendido, innocuo germoglio.


Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupérie
 

 
Primo capitolo
I semi invisibili


 
  Lo stomaco di Jughead brontolò sonoramente e questa volta lui non fu così svelto da coprire il rumoraccio con un colpo di tosse. Se fosse stato ancora in una classe della Riverdale High si sarebbero voltati tutti i suoi compagni, forse persino l’insegnante, ma alla Southside nessuno faceva caso a nulla – e comunque non lo si dava a vedere. Tutti continuarono a fare quello che stavano facendo – il che includeva praticamente qualsiasi cosa salvo seguire la lezione del povero signor Tutcher, che si sforzava senza troppa convinzione di spiegare la matematica a una ventina di adolescenti disinteressati.
  Jughead si strofinò a disagio lo stomaco e controllò l’orologio: dieci minuti all’uscita da scuola. Non che questo cambiasse qualcosa, il suo frigo era desolatamente vuoto e lui non aveva la minima idea di come riempirlo; aveva ostinatamente rifiutato le buste assolutamente interessante che di quando in quando Toni cercava di infilargli in borsa, ma la tentazione di accettarle era sempre più forte. Ed era proporzionale al crescere dei suoi crampi allo stomaco. Il suo scudo di indipendenza, con il quale si era chiuso tutto solo dentro la roulotte di suo padre, cozzava contro il muro della semplice verità: non aveva uno straccio di entrata.
  Meditò di scroccare un invito a cena da Betty e si arrovellò su un modo elegante fino alla campanella, mentre aspettava che i suoi compagni uscissero chiassosamente dalla classe per non dover sgomitare con loro, e per tutta la strada verso la roulotte di suo padre, ma tutto quello che riuscì a mettere insieme fu un misero messaggio: “Ehi dolcezza, che fai stasera?”
  Lo avrebbe letto tardi, ne era sicuro. Erano giornate intense alla Riverdale High, i primi test del semestre incombevano e il “Blue and Gold” era prossimo alla stampa mensile. Per un tempo decisamente troppo lungo Jughead fissò comunque stupidamente lo schermo del proprio telefono aspettando che la doppia spunta diventasse blu, ma si ritrovò nella strada che portava alla roulotte senza che fosse cambiato assolutamente nulla.
  Avrebbe potuto chiamare Archie, che per Jughead avrebbe svaligiato il frigo senza pensarci due volte, ma sapeva che l’amico aveva tutt’altri problemi dopo che avevano sparato al signor Andrews. 
  Conosceva Archie da una vita e sapeva che l’amico era intimamente anche seppur inconsapevolmente convito che tutto dipendesse da lui, in bene o in male – e la cosa spesso e volentieri gli sfuggiva di mano. Decisamente Jughead non voleva aggiungere benzina al fuoco.
  E niente, i suoi amici erano finiti lì. Non c’era nessun altro. Esitò un ultimo momento con il dito sopra lo schermo in corrispondenza del nome di Archie, sospirò, e si rassegnò ad un'altra sera a ghiaccioli, l’unica cosa che il suo magro budget gli aveva consentito di comprare l’ultima volta che era stato al Market.
  Forse era la fame ad acuirgli i sensi, ma una zaffata di profumo gli colpì le narici: muffin. Muffin al cioccolato. E forse mirtilli. Jughead annusò l’aria con circospezione, cercando di individuare la direzione dalla quale proveniva quel profumo delizioso. Gironzolò con l’aria meno famelica che riuscì a dipingersi sul volto per il quartiere, quello di confine tra la zona nord e quella sud di Riverdale, modesto, non molto abitato ma ancora definibile tranquillo – a parte quell’inquietante roulotte parcheggiata sul fondo di Violet Road. L’ultima casa prima della campagna era tinteggiata di un verde allegro, il tetto spiovente e la veranda di legno chiaro la facevano sembrare appena uscita da un romanzo di fine Ottocento. E sul retro, appoggiato sul davanzale di quella che doveva essere la cucina, c’era un magnifico vassoio di muffin al cioccolato e mirtilli. Jughead rimase a debita distanza, fissando i dolcetti e mordendosi un labbro; il suo stomaco brontolò ancora più rumorosamente, e non si placò nemmeno quando lui ci mise una mano sopra.
  Ok, quello era rubare. Ma non era come accettare mazzette dai Serpents, no? Era meglio rubare un muffin, un piccolo, insignificante dolcetto. La proprietaria non si sarebbe nemmeno accorta che gliene mancava uno. Con una rapida occhiata controllò che non ci fosse nessuno in vista, corse verso la finestra e vi si acquattò sotto; allungò la mano e con un gesto furtivo prese un muffin. Esitò un momento, ne afferrò un altro e scappò via più veloce che riuscì verso la roulotte di suo padre.
  I muffin erano caldi e profumati, morbidi come un abbraccio. Il primo lo mangiò in fretta, preso dalla fame, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla porta chiusa di scatto. Al secondo dedicò più cura, quasi affetto; si godette ogni boccone con calma, al piccolo tavolo nell’angolo cucina. La fame si era placata, lasciando un soffice ma trascurabile senso di colpa.
 
  Il giorno dopo il senso di colpa era svanito come un sogno al risveglio; passando davanti alla casa verde Jughead notò che sullo stesso davanzale del giorno prima era rimasto un muffin solitario. Era un vero peccato lasciarlo lì, tutto solo, specie considerando il sapore di cannella dosato sapientemente. Era una vera offesa alla cuoca. Jughead buttò l’occhio alla cucina, vuota come il giorno prima, allungò il passo e intascò anche quell’ultimo muffin. La colazione era assicurata.
 
  Incoraggiato dagli ultimi successi, Jughead sbirciò la finestra della casa verde anche al rientro da scuola. C’era un altro piatto, questa volta con una fetta di torta alle mele; si avvicinò per la terza volta e si accorse che oltre al dolce c’era un biglietto, ripiegato in due. Il ragazzo controllò che la cucina fosse vuota, poi allungò la mano e prese il foglietto.
 
Caro te,
sono contenta che tu apprezzi la mia cucina. Sarò felice di condividere con te altre leccornie – ma davvero tutto gratis?! Ho qualche lavoretto per te se vuoi pagarti un po’ di cibo.
Jay

 
  Lavoretti? La mente di Jughead scattò subito ai favori che erano soliti chiedere i Serpents; in cosa si era invischiato? Questa Jay avrebbe preteso che lui consegnasse droga, che minacciasse qualche ragazzino, che… che cosa? Perché diavolo aveva mangiato tre muffin?
  “Prima che tu ti faccia strane idee, mi riferisco al prato da tagliare.”
  Jughead fece un saltò talmente alto che rischiò di rovesciare il piatto sul davanzale; non si era minimamente accorto della ragazza che si era avvicinata tanto da appoggiarsi vicino alla torta con i gomiti. Nella fretta di scappare, il cuore che martellava contro le costole, inciampò e cadde sul proprio sedere, rimanendo sul prato bruciato dal sole con la bocca semi aperta. Jay – doveva essere lei l’autrice del biglietto – si mise a ridere, facendo ballare le ciocche di capelli castani che le sfuggivano dalla coda di cavallo; aveva grandi occhi nocciola e qualche lentiggine sulle guance e sul petto poco generoso. Sembrava giovane, ma non più in età da liceo, probabilmente intorno ai venticinque anni.
  “Come ti chiami?”
  Non sembrava essere arrabbiata e non sembrava nemmeno tipa da Serpents: la canottiera rossa lasciava scoperte le spalle, senza alcun tatuaggio.
  “Jughead” rispose lui in un soffio; lei inarcò le sopracciglia.
  “Solo… solo Jughead? Cos’è, un soprannome da banda di motociclisti?” il sorriso si era subito raffreddato.
  “No!” si affrettò a dire lui. “E’… è il mio nome” aggiunse vagamente imbarazzato. “Jughaed Jones.”
  Jay sembrò soppesare per un attimo quelle parole, come per capire se lui le stesse dicendo la verità.
  “Spalle” ordinò brusca.
  “Cosa?”
  “Fammi vedere le spalle.”
  Come aveva appena fatto Jughead, anche lei voleva controllare la presenza di tatuaggi. Il ragazzo si tolse la camicia e alzò le maniche della maglietta grigia e consunta. Jay annuì, quasi inconsciamente, per poi ritrovare il sorriso incoraggiante di prima.
  “Allora Jones? Me lo tagli questo prato?” inarcò le sopracciglia con fare incoraggiante. “Stasera faccio le costolette di maiale. Con il purè.”
  Quanto tempo era che non mangiava delle costolette fatte in casa? Il padre di Archie non era certo quello che poteva definirsi un ottimo cuoco. E il purè… adorava quando sua madre glielo preparava, nei giorni di pioggia.
  “Sì. Sì, d’accordo.”






Angolo di Gin
In realtà quello che dovevo dire per questo primo capitolo l'ho scritto nelle doverose premesse, quindi attendo eventuali recensioni!
La storia è praticamente tutta scritta - incredibile per i miei standard - quindi conto di pubblicare abbastanza spesso.
Smack
Gin
   
 
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