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Autore: Alexiel Mihawk    01/08/2009    2 recensioni
Ho sempre voluto essere amato.
Da che ho memoria, il mio desiderio più grande è sempre stato questo.
Era così sbagliato?
Era così assurdo?
Era così ingiusto volerle dedicare tutta la mia vita?
Dal primo momento che la vidi, ricordo, che per me non esistette null’altro.
Solo lei.

[Kisame x Sakura] In un ipotetico futuro catastrofico, in cui Konoha è stata distrutta, Sakura si trova a viaggiare insieme a Kisame, sarà lui, in qualche modo, ad aiutarla a lasciarsi alle spalle il passato di morte e dolore che si porta dietro.
Un po' dark, un po' nonsense.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kisame Hoshigaki, Sakura Haruno
Note: Nonsense, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A Gina, Alexluna, la mia Topins.


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Kan, Ya ma kan » once there was, and once there was not ;;


Ho sempre voluto essere amato.
Da che ho memoria, il mio desiderio più grande è sempre stato questo.
Era così sbagliato?
Era così assurdo?
Era così ingiusto volerle dedicare tutta la mia vita?
Dal primo momento che la vidi, ricordo che per me non esistette null’altro.
Solo lei.


Era una serata umida e calda di giugno, il cielo rumoreggiava incessantemente, preannunciando l'ennesimo temporale estivo, uno di quegli acquazzoni carichi di pioggia, che durano pochi minuti, al massimo qualche ora, e che poi tornano a lasciare spazio al sereno.
L’uomo camminava lentamente, avvolto nella tunica scura a nuvole rosse, e fischiettava sovrappensiero; nonostante l'andatura moderata e lo sguardo vacuo, si capiva che sapeva dove stava andando. Non era in missione, non più. Da quando l’Akatsuki si era sciolto, da quando Itachi era morto ed era rimasto senza un compagno, senza un amico, Kisame si limitava a vagare.
Non aveva alcun interesse nel ritornare al suo villaggio in cui era considerato un traditore, un assassino, in fondo lo era davvero, non si sarebbe certo messo a negarlo.
Tutto quello che desiderava, in quel momento, era una vita normale.
Una vita che, anche impegnandosi, non avrebbe mai potuto avere.

La giovane sedeva in nel’angolo, i suoi vestiti erano rovinati, il coprifronte scheggiato.
Il suo viso stanco mostrava i segni della guerra che avevano perso; sulla spalla, attraverso le maniche stracciate, si intravedeva il segno dell’AMBU sfregiato in verticale da una cicatrice pallida.
Le mani erano avvolte attorno a una tazza di tè caldo e tremavano leggermente: tremavano sempre quando era in un luogo affollato. Il suo corpo reagiva d’istinto, come se il pericolo fosse in agguato dietro ogni angolo, come se qualcuno l’aspettasse per ucciderla, sempre (sempre).
Ma, in fondo, la vita non le sembrava più avere senso da parecchio tempo.
Aveva smesso di avere senso quel giorno d’inverno quando, combattendo sotto una tempesta di neve, i nemici li avevano colti di sorpresa alle spalle e lei si era ritrovata ad abbracciare il cadavere del suo maestro, il cui sangue rosso sgorgava copioso sul manto candido che ricopriva il suolo. A nulla gli era valso il suo occhio sinistro, lo sharingan non gli era servito per salvarsi la vita e non avrebbe mai più previsto nulla. Da quel giorno non era più riuscita a vedere la neve o, per lo meno, non era più riuscita a vederla bianca.
Aveva smesso di avere senso quando aveva visto l’uomo che aveva amato uccidere l’uomo che amava. Il chidori di Sasuke aveva trapassato Naruto come fosse stato fatto di burro, un lampo accecante ed era finito tutto, ogni cosa era andata in frantumi. Ancora oggi Sakura si chiedeva perché lei fosse ancora viva, perché Sasuke non avesse l'avesse uccisa.
Ma infondo che importanza aveva ora?
La foglia non esisteva più, era stata rasa completamente al suolo, edifici, persone, alberi, ogni cosa: tutto era scomparso.
Là, dove un tempo sorgeva la città, ora c’era un cratere, roccia e terra marrone, niente altro.
Si portò lentamente una mano alla tempia, cercando di non pensarci, cercando di non pensare a niente.
Voleva solo andarsene, voleva solo dimenticare.
Chiuse gli occhi per qualche secondo, cercando di ritrovare la calma che aveva perso.
Quando li riaprì lui era lì, seduto di fronte a lei, con la sua spada sulla schiena e i capelli spettinati.
La sua pelle bluastra rifletteva la luce della lampada sopra di loro e i suoi occhi sembravano scrutarla fin dentro l’anima, come sempre negli ultimi mesi.
«Stai bene?» domandò con voce atona l’uomo.
Sakura annuì leggermente.
Stava mentendo, lo sapevano entrambi, ma nessuno dei due aveva voglia di affrontare l’argomento in quel momento.

Era successo sei mesi prima.
Kisame era di passaggio in quella zona, nella zona dove fino a un anno e mezzo prima sorgeva il villaggio della foglia.
Non si aspettava grandi cose, non credeva né di trovare qualcuno, né di trovare qualcosa, semplicemente gli era venuta voglia di visitare quel luogo, di vedere quanto era cambiato, inoltre per raggiungere la sua destinazione quello era il percorso obbligato.
Quando era uscito dal bosco, le cui dimensioni si erano notevolmente ridotte rispetto ai tempi in cui il villaggio della foglia era splendente e vivo, si era aperto, davanti ai suoi occhi, un cratere che ben conosceva; ovunque, d'intorno, la terra era arida e brulla, costellata da massi ed edifici diroccati, e ovunque aleggiava un’aria cupa di desolazione e rovina.
Delle innumerevoli costruzioni che un tempo ricoprivano la zona si erano salvati solo frammenti e parti di muro; una sola casa resisteva, ai margini del villaggio, isolata dalla rovina che la circondava. Parte del tetto era crollata e non aveva più né porte né finestre, ma era ancora in piedi, sorretta da una forza sconosciuta, sembrava quasi in bilico, ricordo di un epoca passata.
Kisame aveva sorriso, ma il suo era un sorriso amaro, cinico, vuoto, il sorriso spento di chi ha visto molto, troppo e non ne può più, il sorriso di chi ha visto una generazione sparire e il mondo che conosceva tramontare per lasciare spazio a un futuro senza speranza di redenzione.
Mentre pensava queste cose, ricordando quella volta che era venuto sino alla foglia con Itachi Uchiha, dall’edificio ancora in piedi era uscita lei.
Aveva il viso coperto di polvere e i capelli rosa erano lasciati cadere sulle spalle, non più curati come un tempo, i vestiti erano stracciati in più punti; era l’aspetto di chi è fuggito a lungo senza riuscire a trovare pace, di chi ha vissuto nella paura più a lungo di quanto la memoria conceda di ricordare, e Sakura non ricordava più da quanto tempo non si fermava per respirare, per vivere.
Quando si era accorta di lui era scattata all’indietro, tirando fuori un kunai dalla manica sgualcita, e si era messa a scrutarlo con aria minacciosa.
Kisame era rimasto qualche tempo a guardarla, senza muoversi, senza dire niente. Era stranamente bella, così spaventata, ma allo stesso tempo agguerrita, aveva sul volto l’espressione di chi non si arrende mai, di non vuole arrendersi perché ha bisogno di credere che non sia finita.
L’aveva trovata immensamente affascinante.
«Io so chi sei» aveva detto piano «Ma non ti ricordavo così bella».
La ragazza aveva alzato un sopracciglio e poi era scoppiata a ridere. Non capiva se la stesse prendendo in giro o se lo pensasse davvero, ma non le interessava, sapeva bene che in quel momento era tutto fuorché bella, sporca e stanca com’era, anche se quel complimento, seppure giunto da un nemico, le aveva fatto segretamente piacere.
«Che cosa vuoi?» gli aveva domandato riprendendosi.
«Niente» aveva risposto l’uomo «Ma ho fame».
La scena che venne a crearsi successivamente fu spesso, successivamente, ricordata come assurda: due nemici che condividevano del pane tra le rovine di un villaggio distrutto, insieme. A quel punto, entrambi lo sapevano bene, non aveva più importanza su che fronte si fossero trovati in precedenza, il futuro di entrambi era stato spazzato via e il loro passato doveva essere messo da parte.
Per dieci giorni Sakura si era nascosta in quella casa e per dieci giorni Kisame era venuto a trovarla, a mangiare con lei, a osservarla in silenzio.
Le prime tre volte la ragazza si era tenuta a distanza, ancora sospettosa, facendo fatica a dimenticare l'antica ostilità, poi si era abituata alla sua presenza.
Quando l'uomo aveva deciso di andarsene da lì, erano ripartiti insieme.

La luce nella stanza era spenta.
Sakura era in piedi davanti alla finestra aperta e guardava fuori con aria indecifrabile.
Quando faceva così, Kisame non riusciva a capire a cosa stesse pensando, probabilmente, si diceva, pensa ancora alle persone che amava e che ha perduto, a quelle disperse per tutto il territorio, a quelle in fuga che probabilmente sono morte.
Ricordava come dopo la distruzione del villaggio, molti dei superstiti della foglia, fossero fuggiti dal Kazekage, a cercare asilo: non era servito a nulla. Un mese dopo anche la Sabbia era stata spazzata via.
Il mondo era in rivolta e loro erano soli.
Le si avvicinò silenziosamente, era molto più alto di lei e a guardarli vicini creavano uno strano contrasto. I capelli rosa di Sakura, appoggiata all’uomo dalla pelle blu, sembravano fiori acquatici che galleggiavano sulla superficie di un lago, era un quadro surreale dai toni malinconici e antichi.
«Ho fatto un sogno strano» sussurrò la kunoichi chiudendo gli occhi.
Kisame non si mosse, improvvisamente conscio che se si fosse spostato la magia che li avvolgeva in quel momento si sarebbe dissolta e lei sarebbe tornata a fissare il nulla.
«C’era un fiume, le sue acqua erano limpide e pulite, tanto che riuscivo addirittura a specchiarmici. C’era il sole e potevo sentirne il calore sulla pelle, da sveglia non lo sento più sai? Poi si alzava il vento e l’acqua del fiume iniziava a intorbidirsi, la corrente si faceva più forte e trascinava una serie di corpi morti verso valle, passavano tutti, uno dietro l’altro, davanti ai miei occhi. E io urlavo, urlavo, urlavo».
Si interruppe all’improvviso e Kisame per attimo temette che si sarebbe messa a gridare davvero; le passò una mano intorno alla vita, stringendola un po’ di più a sé, non aveva mai confortato qualcuno e non credeva di esserne davvero capace, ma era la prima volta che Sakura gli raccontava qualcosa di così profondo e intimo e, anche se non sapeva bene perché, gli era venuta l'insolita voglia di proteggerla da quel sogno.
«Provavo a chiudere gli occhi, ma li vedevo lo stesso. Poi sentivo una mano sulla spalla, mi giravo ed eri tu. Mi scuotevi, mi scuotevi con forza e mi abbracciavi, un po’ come stai facendo adesso, e parlavi. Parlavi, parlavi. Non ti ho mai sentito parlare tanto come in quel sogno».
E io non ti ho mai sentita parlare tanto come in questo momento, pensa, ma non osò dirlo.
«E cosa dicevo?» domandò invece.
«Dicevi “Kan, ya ma kan, scorre l’acqua del fiume. Kan, ya ma kan, c’era una volta un villaggio. Kan, ya ma kan, ora il villaggio non c’è più. Kan, ya ma kan, il tuo dolore il fiume lo porterà via. Kan, ya ma kan, scorre fino al mare. Kan, ya ma kan, il tuo dolore non c’è più.” E io continuavo a sentirlo, Kan, ya ma kan, lo sussurrava il vento, lo ripeteva il fiume. E non c’erano più cadaveri, il sole era di nuovo caldo e tu sorridevi».
Kisame pensò che mai nella vita avrebbe detto una frase tanto idiota, ma non che il sogno fosse stupido. Sakura si sciolse piano dall’abbraccio che li legava e lo guardò dolcemente.
«Ma quello era solo un sogno, sciocco come tutti i sogni sono sempre» sussurrò piano «Anche se quel fiume esiste davvero, scorre a nord-est del villaggio... Del cratere dove sorgeva la foglia».
L’uomo scosse la testa.
«I sogno non sono mai sciocchi Sakura. Sono segni».
La ragazza storse leggermente il naso.
«Allora questo è un segno parecchio importante per essere così insistente».
«Che cosa vuoi dire, hai già fatto questo sogno altre volte?» le chiese perplesso il compagno.
«Se l’ho fatto altre volte? Ogni singola notte da sei mesi a questa parte» sussurrò piano. Dalla sera prima che tu uscissi da quel bosco, là dove una volta c’era casa mia. Questo non lo disse, lo pensò solamente, ma Kisame lo intuì: aveva imparato a leggere i suoi silenzi e ad interpretare i suoi occhi.
Sakura sì allontanò dalla finestra e si lasciò cadere sul letto.
«Non è il momento per dormire. Andiamo» le disse lo squalo tirandola in piedi per un braccio e sistemandosi la lunga spada sulle spalle.
«Adesso? Nel bel mezzo della notte? E dove?» domandò allibità lei, afferrando con la mando il suo mantello mentre veniva trascinata fuori dalla stanza a forza.
«A cercare quello stramaledetto fiume».

Il sole stava lentamente sorgendo tra le montagne quando arrivarono sul greto del corso d'acqua.
L’aria era fresca e frizzante, e un leggero alito di vento muoveva i giunchi sulle sponde della riva opposta.
Sakura si morse un’unghia con fare nervoso, mentre con lo sguardo cercava vanamente una via di fuga; era tuttavia consapevole che Kisame non l’avrebbe fatta lasciata andare via prima di aver affrontato il fiume stesso.
Che cosa patetica, pensò, sembrava che si stesse avviando al patibolo; si fece forza, si chinò con fare lieve e guardò l’acqua.
Un pesce guizzò lì vicino e si allontanò ondeggiando dopo aver creato una serie di piccoli cerchi concentrici in superficie.
Sakura strinse convulsamente gli occhi.

Non voleva vedere, non voleva sentire.
«Apri gli occhi, ora» sussurrò Kisame al suo orecchio.
La ragazza scosse la testa con forza.
«Aprili» le disse ancora.
E nuovamente lei si rifiutò.
Non ci fu una terza volta, lo squalo la sollevò a forza, prendendola in braccio, quindi entrò in acqua.
«Ora apri gli occhi».
«Non voglio vedere» gemette Sakura, premendosi le mani sugli occhi.
Kisame la fece cadere.
La kunoichi non se lo aspettava, l’acqua era fredda e il contatto la fece tremare.
«Che cavolo fai?» sbottò seccata, gli tirò un calcio sulla gamba e anche l’uomo finì in acqua. In realtà avrebbe potuto evitarlo senza problemi, ma si rendeva conto che per lei sarebbe stato più semplice affrontare la situazione se avesse avuto qualcuno vicino, nel raggio del suo campo visivo.
«Non c’è nulla» le disse «Non ci sono cadaveri, il vento non parla. I morti sono semplicemente morti, kunoichi. Non tornano indietro, né noi possiamo continuare a pensare a loro. Non puoi vivere sempre divisa in due Sakura».
La ragazza si alzò di scatto, bagnandolo nuovamente, e si girò, offrendogli la schiena; lui la imitò, ma non le si avvicinò ulteriormente.
«Io» iniziò lei con tono incerto.
Sì girò e gli appoggiò una mano sul petto.
«Kan, ya ma kan. C’è stato un periodo in cui non potevo fare a meno di pensare ai morti. Kan, ya ma kan. Poi ho smesso di pensarci, ed è arrivato il senso di colpa» continuò riprendendo la litania del suo sogno «Kan, ya ma kan, ora, lentamente, sta sparendo anche il senso di colpa».
Si strinse leggermente a lui, che appoggiò il viso sui suoi capelli, depositandovi un bacio leggero.
«Kan, ya ma kan» sussurrò piano Sakura «Andiamo avanti, Kisame, noi che siamo vivi».
L’uomo squalo passò delicatamente un bracciò lungo la vita della ragazza dai capelli del colore dei fiori di ciliegio e l’attirò a sé.
Qualcuno li avrebbe definiti i reduci di un mondo caduto in rovina, e probabilmente avrebbe avuto ragione. Loro erano gli ultimi della loro razza, della loro epoca.
Da qualche parte, in quelle terre, viveva ancora l’uomo che Sakura, tanto tempo prima, aveva amato, colui che prima dato vita e poi distrutto tutti i suoi sogni e le sue speranze, ma per la prima volta nella vita a lei non interessava.
E per Kisame, oramai, c'era solo una cosa rimasta che ancora avesse importanza, ma, visto come stavano svolgendosi gli eventi quella mattina, non aveva più paura di perderla.
Sarebbero andati avanti.
I vivi avrebbero seppellito i morti e un mondo al tramonto, e sarebbero andati avanti.
Insieme.





Note:
Kan, ya ma kan significa, come da titolo: once there was and once there was not. Ovvero "Una volta c'era e una volta non c'era". La frase e il suo senso richiamano tutto ciò che Sakura aveva e ha perduto, tutti gli incubi che la tormentano e lentamente smettono di tormentarla.
Questa storia è stata grammaticalmente rivista nel 2014, ma forma e contenuto sono gli stessi, ho deciso di non modificarli per mantenere visibile l'evoluzione del mio stile nel corso degli anni.
Molto nonsense e vagamente OOC, decisamente AU o What if, e con un bad ending evidente per Konoha.

Avrei voluto farla più lunga, avrei voluto farla più IC, avrei voluto fare almeno 10 pagine, ma il tempo scarseggiava e mentre scrivevo ho cambiato idea sulla trama.

Il punto è che Gì, che spero ti piaccia, anche se non è il massimo e il fandom è Naruto.
Non posso farti un regalo materiale, perché dovrei spedirtelo e non è che mi fidi troppo, non per un regalo adatto ai 18 anni. Questo è il meglio che sono riuscita a fare oggi e ti prego di credere che l’ho fatto con il cuore, questa coppia per me è sacra, sono tanto belli questi due insieme, così diversi, così colorati, così vivi.
Ti voglio bene, mia piccola Gì, mia Nika bambina, sei finalmente diciottenne; ti assicuro che non cambia niente, nulla è diverso dai prima, sei sempre te stessa, puoi guidare ora, certo, puoi votare e puoi firmarti le giustificazioni, ma a livello pratico non cambierà nulla.
Ma in fondo che importanza ha? La libertà si acquista col tempo, con la pazienza e con tante altre cose pallose, l’unica cosa davvero importante qui, anzi le due cose davvero importanti qui, sono le seguenti:
- Ti voglio bene, piccola donna e grande amica. Ricorda sempre Ale, tu sei speciale, sei unica e nessuno, nessuno, mai, potrà eguagliarti, perché tu sei una delle donne più eccezionali che io conosca e lo sarai sempre. Una vera Donna con i contro cazzi!
- Buon compleanno. I 18, non saranno forse i 20, ma vengono una volta sola, so quanto ci tieni a questo compleanno e vorrei davvero essere lì con te a festeggiare; vorrei poterti abbracciare e dirti che ti voglio bene, quindi ti riempirei un bel bicchierino di vino rosso, e farei un bel discorso per la mia topins.
Ricorda sempre cucciola: Did you ever know that you are my hero, and everything I would like to be, I can fly higher than an eagle, ‘cause you are the wind beneath my wings.
<3 I love ya.

I disegni del banner sono di Sanjiika che mi ha ispirato, con le sue bellissime fanart KiSaku, questa fic e molte altre che verrano. Thanks.
Il banner invece è graficato da me e la fic l’ho scritta io per Gigì.

   
 
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