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Autore: wanderingheath    22/11/2019    0 recensioni
Clara attende da mesi che la Fortuna bussi alla sua porta, sperando in un colpo improvviso, in un campanello di novità. In un'umida serata primaverile, però, a bussare alla porta di casa è soltanto Arturo e non preannuncia alcunché di buono.
Infatti, Irene sembra scomparsa nel nulla.
Senza un messaggio, una telefonata, una lettera, un post-it: niente.
Nella vita caotica e confusa di Clara, ancora intenta a ricomporre i pezzi della propria esistenza, la questione passerebbe in quarto piano, ma l'insistenza di Arturo la porta a cedere.
Imbarcatasi quindi in un'assurda avventura ai confini del reale, del mondo concreto e conosciuto, alla disperata ricerca dell'ex coinquilina ed amica, Clara sarà costretta a mettere in discussione la fredda razionalità che l'ha finora guidata.
Se c'è qualche possibilità di salvezza o redenzione, per sé e per Irene, dovrà cercarla dall'Altra Parte.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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II Parte
 

 

 
«Decisamente meglio.»
Arturo annuì soddisfatto, osservando il coro di candele che Clara aveva disseminato nel salotto.
Si trattava di mozziconi di cera che teneva stipati nello sgabuzzino, ma offrivano una luce sufficiente a rischiarare l’ambiente e a permettere loro di guardarsi in volto.
La cena per metà bruciata era finita nel lavandino, sostituita dagli avanzi del giorno precedente, rigorosamente scaldati al microonde. Due calici di vino rosso campeggiavano al centro del basso tavolino sul tappeto.
Tutto lì dentro aveva tinte monocolori, bicolori al massimo. I toni neutri, tra un bianco panna e il beige, conferivano uno stile minimalista all’appartamento; unica nota stonante, i quadri astrattisti che riempivano la parete di fondo, quella accanto alla mastodontica libreria bianco latte.
«Carino qui», fu il commento di Arturo, mentre prendeva posto su di una poltrona troppo alta per lui.
Stava provando a sistemarsi meglio, magari con il supporto di qualche cuscino, quando Clara fece ritorno con la bottiglia di rosso e un pollo arrosto per lo più liquefatto.
L’ospite accettò solo un bicchiere d’acqua.
«Giusto,» Clara si era accomodata di fronte a lui, «dimentico sempre che sei astemio.»
Detto ciò, si scolò in un unico sorso il primo calice, per poi sprofondare nel divano.
Arturo la studiava con perplessità. «Come ti trovi nel nuovo appartamento?»
«Beh, “nuovo” …»
Erano passati diversi mesi dal suo trasferimento. Circa sei, per la precisione.
Quando aveva adocchiato l’offerta di un locale al centro della città, ad un prezzo ragionevole, non si era lasciata sfuggire l’occasione e, senza pensarci due volte, aveva accettato. Una di quelle scelte impulsive che stonavano terribilmente con un carattere altrimenti freddo, razionale fino al midollo.
L’iniziale eccitamento si era diradato dopo il primo mese, lasciando il posto a quello che la casa veramente era: un buco con un angolo cottura mal attrezzato, un letto cigolante in ferro e una colonia di formiche residente nello stanzino. Però affacciava sulla via principale.
Quella doveva essere la prima volta che Arturo metteva piede lì.
«Comunque, ci si fa l’abitudine,» rispose infine con un sospiro lieve, «almeno non dista molto dal negozio.»
«Ah giusto. Come va con il lavoro?»
Clara cominciava a spazientirsi.
Dov’era finita l’urgenza, l’allarmismo che aveva mostrato sulla soglia?
L’aveva fatta passare per una questione di vita o di morte e adesso si permetteva di discutere di fornelli a gas e lavoro?
«Bene. Va tutto bene, Stecca. Nella norma. Le clienti rimangono sempre le stesse, con i soliti pettegolezzi da provinciali. Non ci sono molte novità in questo posto dimenticato da Dio.»
Ghermì il secondo calice. «Adesso vogliamo continuare a discutere di queste sciocchezze o ci occupiamo di cose più serie? Tipo che fine ha fatto Irene
Aveva scandito le ultime parole con decisione, come se stesse trattando con una delle clienti più anziane che le capitavano sotto gli occhi ogni giorno. Si concesse un abbondante sorso di rosso, prima di tornare ad ascoltare.
Arturo, dal canto proprio, se ne stava immobile sulla poltrona, con le gambe penzoloni che oscillavano a qualche centimetro da terra. A terra, ben ancorati, teneva gli occhi, giocherellando con il bicchiere ormai vuoto. Gli sfuggì un risolino, una smorfia per metà amara che emergeva nelle situazioni più scomode.
«Eh…»
Una pausa sospirata.
«Vorrei davvero saperlo anch’io.»
Clara lo osservò a lungo, prima di sbottare: «Che cosa significa, Stecca?»
«Potresti… potresti smetterla di chiamarmi Stecca? Lo detesto.»
Se lo trascinava dietro da almeno quattro anni, quello sciocco nomignolo.
Gliel’avevano affibbiato i suoi compagni di corso e progressivamente era stato adottato da tutta la cerchia di amici. In parte riprendeva la sua passione per il biliardo, terminata ormai da tempo, in parte riguardava l’altezza. Quella storia lo perseguitava dai tempi dell’asilo e Arturo non riusciva a capacitarsi di quanto peso potesse rivestire la statura nell’ordine mondiale.
«D’accordo, d’accordo.»
Preso un profondo respiro, Clara provò ad allontanare il senso di frustrazione che si trascinava dietro dalla mattinata. Aveva appena notato il piccolo trolley di plastica che ingombrava il salotto. Non l’aveva visto prima, nella totale oscurità, ma era stata sciocca a credere che Arturo non intendesse fermarsi in città per più di un giorno. Dopo la traversata che aveva affrontato, era il minimo.
Eppure non trovava il coraggio di domandargli quali intenzioni avesse.
«Va bene, ricominciamo daccapo. Cosa è successo ad Irene?»
«È proprio questo il punto: non lo so nemmeno io. È sparita. Da una settimana è semplicemente scomparsa.»
Di nuovo il silenzio. Lungo, ingombrante, palpabile fra loro due.
Arturo aveva provato a chiamarla innumerevoli volte, sul fisso, sul cellulare, ma nessuna risposta. Almeno venti messaggi vocali, altrettanti in segreteria, perfino sms e una mail nel disperato tentativo di raggiungerla.
L’ultimo incontro risaliva al sabato precedente, quando avevano trascorso insieme una serata al solito bar del centro a cui si arenavano da anni. Solito posto, solito drink, solito giro di rinforzo, solita compagnia: i quattro amici che si erano uniti a loro, li avevano lasciati da soli, per esibirsi in strada in qualche sciocca acrobazia; uno di loro voleva rimorchiare un paio di straniere al tavolo vicino.
«Dopo quella sera, più nulla.»
«Hai provato all’appartamento?»
«Non ho le chiavi. Anche al citofono nessuna risposta. Credo che la coinquilina sia tornata in Sicilia per le vacanze.»
Clara stava scolando i residui della bottiglia nel proprio calice, constatando solo in quel momento quanto denso fosse il liquido. Scivolava nel vetro come al rallentatore e lei era ipnotizzata dall’alzarsi ed abbassarsi di livello.
«Beh,» commentò infine, «non hai pensato che magari ti stia semplicemente evitando?»
«Sapevo che l’avresti detto.»
«Scusa, Stecca.»
Ma Arturo non appariva ferito dalla sua considerazione, quanto indispettito. Gli stava facendo perdere del tempo prezioso con domande superflue, con obiezioni preconfezionate che lui aveva già scartato in precedenza. Dovevano arrivare al cuore della questione, non fermarsi sul bordo ad esaminarne il contenuto a debita distanza.
«Una settimana intera? Senza farsi sentire né vedere? Neanche gli altri hanno sue notizie.»
«Irene è fatta così, lo sai», fu la replica sbrigativa. Clara stava già pregustando l’abbraccio caldo delle coperte, il piacevole peso del buio sulle sue tempie pulsanti. «A volte ha questi atteggiamenti di chiusura.»
Gettò la testa all’indietro ed inghiottì fino all’ultima goccia di Merlot.
«Non dirmi che ti sei fatto sei ore di treno, perché Irene non risponde al telefono. Magari le si è rotto, l’ha perso, gliel’hanno rubato. Che ne sai?»
Un forte schiocco.
Arturo aveva puntato i piedi a terra. La sua espressione mutata, sugli occhi verdi era calata un’inusuale fermezza.
«E tu? Da quanto non la senti?»
Sentire.
Un termine talmente generico da aprire innumerevoli strade, da poter essere equivocato.
L’ultimo incontro, in un’atmosfera serena e festiva, risaliva allo scorso dicembre, quando Irene era andata a trascorrere le festività natalizie dalla madre e nell’occasione aveva fatto un salto anche lì, da lei.
Ovvio che poi fossero rimaste in contatto, ma ogni telefonata logorava un pezzetto in più della loro autenticità, fagocitando la naturalezza di un rapporto sbiadito alle estremità.
Alla lunga, tutta quella cerimoniosa finzione aveva finito per ferirle entrambe. 
«Da un po’», ammise Clara. «Ma cosa c’entra con tutto il resto?»
«Prova a chiamarla, allora.»
«Adesso? Ma sei impazzito? Sono quasi le undici. Se hai provato sempre a quest’ora, non mi stupisco…»
L’altro la interruppe, sospingendo il telefono abbandonato sul tavolino verso la propria interlocutrice.
Fu costretta a cedere. Una telefonata non le costava nulla e, se avesse funzionato, si sarebbe finalmente potuta concedere del sano riposo.
Clara cercò il numero in rubrica, scorrendo l’elenco avanti e indietro con il pollice. La stanchezza si stava impossessando delle gambe, sempre più pesanti, e altrettanto suggerivano le palpebre. I nomi di amici, familiari, colleghe e conoscenti si accavallavano gli uni sugli altri.
«Va bene, ti concedo un tentativo», ammonì Arturo. Lui assentì, concentrato nelle proprie riflessioni.
Rimasero in attesa. Due squilli, tre squilli, quattro, sei.
Poi, la voce di Irene.
In un misto di tenerezza e vivacità, ricordava quella di un’adolescente. E in effetti, la registrazione era stata effettuata alcuni anni prima, senza più subire variazioni.
“Lasciate un messaggio dopo il bip!”
Clara riagganciò.
Sentiva lo sguardo di Arturo incollato addosso, ma non osava incrociarlo. C’era sicuramente qualche spiegazione logica, che adesso nemmeno lei riusciva a delineare, ma che a mente fresca sarebbe apparsa evidente.
«Okay, senti. È stata una lunga giornata, io sono stanca morta e probabilmente Irene è soltanto impegnata al momento. Proveremo di nuovo domattina.»
Intanto si era alzata, rimuovendo gli scarti dal tavolo, diretta verso il lavabo.
«Dove ti sei sistemato? Al B&B di Maria?»
Fu costretta a chiudere la finestra. In meno di pochi istanti, fuori era scoppiato un acquazzone che si riversava prepotente sulla via principale. Clara buttò un occhio in strada, dove un gruppetto di adolescenti imprecava nel tentativo di ripararsi sotto al cappuccio delle felpe; la maggior parte dei passanti si era rifugiata temporaneamente sotto al grande porticato della galleria commerciale.
Le vetrine dei negozi vuoti offrivano le loro luci, lugubri carcasse di spettri.
La naturalezza con cui Arturo le comunicò le proprie intenzioni fu disarmante.
«In realtà, io speravo di potermi appoggiare qui.»
Un’occhiata cauta. «Temporaneamente», aggiunse subito.
A tal punto disarmante da non lasciare a Clara alcuna replica. Cercò invano nel repertorio una reazione adatta alla situazione. Si sentiva prosciugata di ogni energia vitale e di discutere non avrebbe trovato la forza.
Le appariva tutto assurdo, vorticoso, tanto da costringerla ad appoggiarsi allo stipite della camera da letto.
«Va bene. Puoi stare sul divano, Stecca.»
Si richiuse la porta alle spalle.
Al buio, nella tranquillità della propria stanza, trovò sostegno nel cassettone di legno duro.
Una pausa. Finalmente una pausa.
La giornata era trascorsa in pendenza, con la sensazione costante di scivolare su di una parete priva di appigli. Franca l’aveva strizzata per bene e anche la mattina seguente non si prospettava meno impegnativa: tutti gli appuntamenti di cui sarebbe dovuta occupare Lucia erano stati scaricati sulle sue spalle.
Nemmeno poteva prendersela con la collega; come aveva detto Franca, l’ondata di febbre stava girando.
Clara si gettò a peso morto sul letto, affondando nel materasso.
Uno scomodo punzecchio, all’altezza del ginocchio, la costrinse a voltarsi. Si ritrovò il cellulare fra le mani.
Doveva averlo portato con sé in un gesto meccanico; talmente meccanico da non accorgersene affatto.
Con gli occhi semichiusi compì l’ultimo sforzo della serata.
La cartella delle immagini. Aprì la raccolta, bypassando gli scatti più recenti.
Schiacciate tra quelle di capodanno e qualche selfie natalizio allo specchio, individuò le fotografie che stava cercando. La data riportata recitava: “12 novembre”.
Clara prese un piccolo respiro, poi trovò il coraggio di ingrandirne una.
Un semplice autoscatto. Due volti in primo piano, vicini, sorridenti.
I ricci scomposti di Irene ingombravano metà dell’obiettivo.
Le cingeva le spalle con un braccio, tenendola stretta a sé.
Clara riconobbe l’impermeabile che portava sempre in autunno. Quante volte l’aveva fatta penare, Irene, con la solita fissa di non poter uscire di casa senza abbinare vestiti ed accessori; e puntualmente, ogni autunno, finiva per perdere qualche ombrello. Passavano settimane prima che ne trovasse uno in pendant con lo sciocco soprabito.
In quella fotografia apparivano entrambe serene, spensierate, felici.
Felici, però, non erano. Si era già inquinato qualcosa e lei sapeva bene anche cosa
Clara bloccò fuori quei ricordi. Spense la schermata, gettando il cellulare lontano da sé.
Probabilmente era stato il vino a causarle quel retrogusto amaro, come anche il groppo che le annodava lo stomaco. Oppure era colpa di Arturo, che l’aveva suggestionata con le sue fantasie al limite della paranoia.
Davvero non riusciva a capirlo: pagarsi il biglietto e farsi tutta quella strada, senz’altra sicurezza se non l’indirizzo del suo appartamento, per cosa poi? Uno sciocco timore? Un dubbio?
Più ci rifletteva, più le appariva allucinante.
Sicuramente Irene stava bene, come sempre. Magari era un periodo concitato anche per lei.
Ad Arturo, invece, sarebbe servito qualche serio hobby che lo tenesse occupato.
Comunque stessero le cose, ci avrebbe pensato il giorno successivo. Lei si meritava il suo benedetto riposo.
Quella notte non chiuse occhio.                                 
 
 

 
   
 
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