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Autore: wanderingheath    30/11/2019    0 recensioni
Clara attende da mesi che la Fortuna bussi alla sua porta, sperando in un colpo improvviso, in un campanello di novità. In un'umida serata primaverile, però, a bussare alla porta di casa è soltanto Arturo e non preannuncia alcunché di buono.
Infatti, Irene sembra scomparsa nel nulla.
Senza un messaggio, una telefonata, una lettera, un post-it: niente.
Nella vita caotica e confusa di Clara, ancora intenta a ricomporre i pezzi della propria esistenza, la questione passerebbe in quarto piano, ma l'insistenza di Arturo la porta a cedere.
Imbarcatasi quindi in un'assurda avventura ai confini del reale, del mondo concreto e conosciuto, alla disperata ricerca dell'ex coinquilina ed amica, Clara sarà costretta a mettere in discussione la fredda razionalità che l'ha finora guidata.
Se c'è qualche possibilità di salvezza o redenzione, per sé e per Irene, dovrà cercarla dall'Altra Parte.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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2.  Atlantide


I Parte
 




«Guarda che tesoro, ha appena compiuto quattordici mesi.»
La cliente di turno le stava sventolando sotto al naso il proprio I-Phone di ultima generazione. Lo teneva con entrambe le mani, compresso fra i palmi come se si fosse trattato di un fragile reperto storico, una tavoletta sumera o qualcosa di simile.
Sullo schermo, in riproduzione scorreva un filmato di alcuni minuti, al centro il protagonista indiscusso: un bambino immerso in una piscina gonfiabile, imbottigliato in un salvagente a forma di ciambella.
Anche il costume, proporzionato e alla moda, esibiva dei motivi ricordanti dolci – forse zuccherini da guarnizione.
Ricordava di aver letto da qualche parte del rapporto tra pigiamini con stampe dolciarie e obesità infantile, ma quel pensiero l’aveva recluso in un angolo, considerato l’entusiasmo frizzante della signora Dal Zotto.
E la cliente aveva sempre ragione.
«Guardalo, guardalo come sguazza!»
Clara annuì, tirando un sorriso di circostanza.
La bacinella della pedicure, traballante ed ondeggiante, minacciava di esondare da un momento all’altro.
«Sì, ma faccia attenzione all’acqua.»
C’era una giovane donna, nel video, con i capelli biondi pinzati in una coda e un viso appuntito, volpino, che attendeva dall’altra parte della piscina gonfiabile l’approdo del figlio, incitandolo e sventolando le mani.
Quattordici mesi, aveva detto la signora. Quella frase le risuonava nel cervello con l’impeto costante di un gong.
Clara non era mai riuscita a spiegarsi il motivo di quella strana definizione: detestava i neogenitori con i loro ampi sorrisi, pronti a sventolare i bebè come trofei da primi classificati, ad erigersi a grandi maestri dell’età infantile – quando sciorinavano le poche, confusionarie informazioni, raccolte in giro, di cui si abbuffavano nel tempo libero – e dello sviluppo. Soprattutto, però, detestava quella scansione inutile. Quattordici mesi.
Il particolare che aveva attirato subito la sua attenzione era stato l’ampio cortile in cui si era svolta la scena.
La signora Dal Zotto le aveva spiegato che sua figlia se n’era andata da lì, da quel paesino sperduto, almeno dieci anni prima. Avevano all’incirca la stessa età, lei e sua figlia; a tratti gliela ricordava.
Clara sentì stringersi la gola.
«Il padre è Americano», aveva spiegato la signora Dal Zotto, come se quello spiegasse tutto.
«Hanno una bella casetta, lì in Florida. In genere sono io che vado a trovarli, ma per la prossima volta mi hanno promesso di venire loro. Sai, adesso che è cresciuto il piccolin, possono prendere l’aereo.»
La ragazza provava a concentrare tutta la propria attenzione sull’astuccio che teneva in mano.
«Bene, quale colore per lo smalto?»
Desiderava solo che quell’incubo terminasse il prima possibile.
Coetanee che facevano scelte di vita ardite, rivoluzionarie, trovavano stabilità, creavano famiglie, compravano abiti con stampe di animaletti o cibo per i propri neonati e li immergevano poi nelle piscine gonfiabili, sotto un sole da spellarsi. E lei?
Lei era tornata lì, anziché fuggire come avrebbe dovuto – e voluto – fare. Era di nuovo all’ombra degli edifici tra cui aveva visto cominciare la propria esistenza; un’infanzia priva di pigiamini stravaganti.
«Rosso. In genere Lucia me lo mette rosso scuro.»
Clara annuì, iniziando ad agitare la boccetta per metà vuota.
Dall’alto della sedia reclinabile, la signora Dal Zotto la osservava con curiosità.
«Tu ne hai?»
La ragazza sollevò il capo, confusa.
«Bambini, intendo. Mia figlia ha deciso di farli presto.»
Un cigolio alle spalle annunciò l’ingresso di Giovanna.
Per qualche strana ragione, Clara se la ritrovava puntualmente a ficcanasare nei suoi spazi, quando di turno.
«Clara è una single incallita,» commentò di passaggio, «altro che bambini.»
«Ti serve qualcosa, Gio?»
«Le pinzette, Clarina
Stava rovistando per la stanza, passando al setaccio banconi e cassetti, mugugnando qualcosa su come il suo paio fosse poco efficace. Intanto la signora Dal Zotto aveva ripreso a scalciare nella bacinella, spruzzando acqua tutt’intorno; il nipote, con i suoi quattordici mesi, sarebbe stato meno maldestro.
Con uno schiocco sonoro unì i palmi, come in preghiera: «Gesù bèlo, e perché? Non hai trovato un bel toso?»
Clara si schiarì la voce, ripassando velocemente la lavata di capo che le era toccata quella mattina. Franca l’aveva rimproverata per qualche risposta più acida del solito, intimandole di cambiare atteggiamento con il pubblico all’istante.
Fu Giovanna a rispondere al suo posto: «Un bel toso gliel’ho trovat, ma xè difficile.»
La signora Dal Zotto scosse il capo, profondamente addolorata da quella rivelazione. Se ne uscì con una massima da quattro soldi: «Chi no se contenta de l’onesto, perde ‘l manego e anca ‘l cesto».
 «Hai provato a cercare nella stanza di sotto, Gio?»
L’altra sollevò un paio di pinzette dal bancone con un sorriso radioso: «Trovate!»
Rimaste nuovamente da sole, il silenzio durò poco. Mentre lei provava a mantenere lo smalto all’interno della cornice, senza macchiarle la pelle, la cliente era decisa a non mollare la presa sul discorso.
«Pensaci. Avrai tanti rimpianti poi, per le occasioni mancate.»
Clara schizzò in piedi, quasi sbattendo il contenitore sul tavolino, accanto alle garze pulite e alle creme.
«Una decina di minuti e può andare. Aspetti che si asciughi del tutto.»
Tirò la porta scorrevole, chiudendo fuori ogni soffio di obiezione.
Libera. Finalmente era libera dall’interrogatorio.
Si trascinò fino al divanetto d’ingresso, per poi collassare su di un bracciolo.
Franca stava studiando ogni suo gesto, da dietro la cassa, fingendo soltanto di scrivere qualcosa sul computer, magari di sistemare qualche appuntamento residuo.
«Si sente proprio la mancanza di Lucia», commentò Giovanna con un occhiolino.
Non era ben chiaro a chi volesse indirizzarlo, così, non raccolto da nessuno, finì nel vuoto.
«La signora Dal Zotto è una sbetega,» proseguì abbassando prudentemente il tono, «deve dire la sua su tutto.»
Aveva già iniziato il proprio monologo su come le persone di una certa età non potessero fare a meno di esprimere un giudizio riguardo qualunque argomento, quando Franca la interruppe.
«Ah, Clara, ti ha cercata un tuo amico.»
Giovanna scattò all’istante. Il capo parve compiere una rotazione esorcistica nella sua direzione con la rapidità di un siluro. «Robert?» stridette, allungando eccessivamente la “o”.
L’altra rimase sul vago, continuando a spargere ed unificare fogli di carta sul bancone della reception in strani movimenti oscillatori che ricordavano rituali taumaturgici.
«Non so. Ti sta aspettando qui fuori.»
Una pausa, poi: «Puoi andare, se vuoi». Le indirizzò un’occhiata fugace attraverso la montatura a mezzaluna.
«Hai finito per oggi.»
 
 
 
 
*    *   *
 
 
 
Il negozio della Sweet Essence era incastrato fra edifici con tetti spioventi e dalle anonime facciate con mattoni color pergamena. La vetrina, decorata con pizzi fioriti e tendine linde, richiamava alla mente un’ambientazione fiabesca, una casa fatata.
Quando Clara uscì in strada un’aria prepotente si impossessò dei capelli sfatti, sollevandoli in una nube intrecciata. Trovò Arturo su di una panchina, seduto in un angolo e intento a dar da mangiare ai piccioni.
«Stecca,» lo chiamò avvicinandosi, «che stai facendo?»
L’altro sollevò il capo di scatto con un sorriso a trentadue denti. Stava sbriciolando parte del proprio panino imbottito, mentre una cerchia nutrita gli si accalcava attorno alle gambe.
«Condivido il pasto. Poverini, sono affamati…»
Clara lo interruppe con un gesto secco: «No, no. Cosa ci fai qui
Quella domanda parve sorprenderlo. Evidentemente, gli sembrava cristallino il motivo della sua venuta, come se il posto assegnatogli nell’universo fosse stato quello e nessun altro.
Sempre sorridendo, sollevò il cartoccio che teneva in mano: «Ti ho portato il pranzo!»
Le aveva portato il pranzo.
Clara impiegò qualche istante a metabolizzare il concetto.
In che senso le aveva portato il pranzo?
Per una frazione di secondo ipotizzò che si trattasse di un’allucinazione – magari si era appisolata sul lavoro e si trovava, stranamente cosciente, nel proprio sogno – oppure di una fantasia partorita dal suo cervello per puro scherno. Poi però, colpita dalla scia di fritto che emanava il sacchettino d’asporto, capì che era tutto vero. Terribilmente, orrendamente vero.
Tutto ciò che riuscì a dire fu: «Ma… perché?»
In risposta, una semplice scrollatina di spalle.
«Mi sono svegliato stamattina e non c’eri. Il frigo, vuoto. Ho preso qualcosa da mangiare al volo.»
L’intero discorso la metteva a disagio. Molto a disagio.
Per qualche strana ragione, le sembrava un discorso da… da animale domestico. Sì, si sentiva come se avesse appena adottato un cagnolino: festoso, ma incapace di tollerare la solitudine, a rigirarsi inquieto nell’appartamento vuoto in attesa del suo ritorno.
Provò a bofonchiare un “non dovevi”, mentre l’amico balzava in piedi e le rifilava la busta.
La stava osservando come in attesa di qualcosa.
“Una ricompensa”, non poté evitare di pensare Clara, strozzando una risatina in gola.
«Ehm, possiamo,» rifletteva ad alta voce, «possiamo andare qui vicino. Conosco un luogo tranquillo, un po’ lontano dal centro. In genere non ci passa nessuno».
«Perfetto!» Arturo mutò d’improvviso atteggiamento. «Ho provato a chiamare Irene. Di nuovo.»
«Stecca, la devi finire di assillarmi con questa storia…»
L’altro sollevò i palmi, in segno di resa: «Okay, okay. Hai ragione. Godiamoci il cibo adesso».
«Prego,» disse, «fai strada.»
 
 
Il posto selezionato da Clara era una semplice piazzetta esagonale, con uno spicchio coperto da un salice e una minuscola chiesa in stile romanico incastonata su un lato del perimetro.
In effetti non vi era anima viva in giro, a differenza del piccolo centro storico e della via principale, perennemente affollati di pedoni. Era un piccolo spazio di serenità in cui il tempo pareva essersi arrestato al sedicesimo secolo.
Si accomodarono sulle panche che abbracciavano il tronco del salice.
Arturo notò con divertita sorpresa l’assoluto silenzio, la calma piatta che regnava in quella zona.
I suoi occhi da turista non erano abituati all’assenza di traffico, ingorghi e smog. Con sguardo limpido, fresco, accoglieva ogni tessera della città, mano a mano che le incontrava, per ricomporne un quadro mentale organizzato e soddisfacente.
«È così diverso, qui», si lasciò sfuggire in tono pacato.
Gli sembrava davvero di disturbare i palazzi o la chiesetta deserta.
Clara, al contrario, manteneva la solita sonorità squillante. Frugava nel cartoccio in cerca di tovagliolini, scrollandosi dalle dita fili di olio. «Ma cos’hai preso? Baccalà?»
Sbuffò, assumendo una voce lagnosa, da ragazzina. «Che poi non lo posso neanche mangiare il fritto, sono a dieta.»
Arturo, però, non la stava ascoltando. Preso com’era dalla trafila di abitazioni tutt’intorno, continuò il proprio discorso. «È proprio vera la storia della vita più sana in provincia, eh?»
«Sì, certo», commentò l’altra con la bocca per metà piena. «L’aria fresca, gli spostamenti in bicicletta, il cibo più buono e la morte civile.»
Gli lanciò un’occhiata severa. «La vogliamo finire con questi luoghi comuni?»
Le era tornato in mente, in un getto acido, in una forma di reflusso di memoria, il proprio arrivo in stazione, la prima volta che aveva messo piede in città dal trasferimento. Il periodo era quello pre-autunnale, già smorto, in cui ancora si barcamenava fra diverse abitazioni, sentendo di non appartenere in fondo a nessuna.
Le ore che aveva trascorso, buttato, in treno, ancorata al finestrino con i piedi appoggiati al tavolo di metallo, con un tramonto che le fendeva lo stomaco e l’ansia perenne di arrivare, arrivare, arrivare.
Era sempre un continuo arrivo, un movimento perpetuo, uno spostamento che non si esauriva ad un punto fermo, ad una stazione di approdo, ma semplicemente invertiva la direzione e la riportava indietro.
Non si sentiva meglio ad alcuna partenza, non la sollevava alcun biglietto o tabellone orario. Viveva “in mezzo”, in una terra di mezzo desolata e transitoria, composta di scatoloni d’imballaggio, borse, borsoni da riempire e svuotare, riempire e svuotare; le pareva di attingere e rovesciare la stessa acqua nel fiume.
Quel particolare arrivo in stazione se lo ricordava ancora bene.
C’era un’afa spaventosa, inadatta alla stagione, affatto accogliente. La stazione, minuscola e affumicata dal calore, dall’odore stantio di spazzatura bruciata, le aveva tolto il respiro, l’aveva soffocata.
Quando si era riversata in strada, anziché provare una sorta di liberazione, di sentire i polmoni rilassarsi, per poco non era collassata. Tutto ciò che aveva visto, davanti a sé: un’unica strada che portava, dritta dritta, al centro. Ed era lì, tutta lì, la sua esistenza.
«Sai», osservò acciambellando le gambe. «C’era una bambina che ho tenuto per un pezzo, i primi tempi qui. Non avevo trovato ancora sistemazione alla Sweet Essence, ovviamente. Te l’ho mai raccontato, Stecca?»
Arturo scosse il capo, addentando il proprio pranzo.
«Ah, sì. Era la figlia di amici di amici di famiglia, o una cosa del genere. Piccola, avrà avuto nemmeno cinque anni.»
Le scappò un sorriso al ricordo.
Ci pensava di rado, a Matilde – o meglio “Tilde”, come la chiamavano i suoi.
Aveva una strana fissazione per i documentari di storia, per i programmi scientifici su scoperte archeologiche, e per alcune teorie cospiratorie. Clara non avrebbe saputo dire quanto effettivamente capisse le nozioni di cui si ingozzava – lei stessa rimaneva confusa da termini troppo specifici o finiva per addormentarsi – ma certo era che avesse una passione estrema, al limite dell’ossessività.
«Per me non era un problema. Finché la facevano stare buona e tranquilla, andavano bene.»
Poi, una mattina Matilde si era messa a saltellarle davanti, tirandola per un braccio ed esigendo tutta la sua attenzione per una scoperta dell’ultimo istante. Clara aveva buttato un’occhiata allo schermo della tv, riempito dal fermo immagine di una cattedrale sommersa d’acqua.
Ricordava di aver ridimensionato la questione, o almeno di averci provato, perché Matilde non gliel’aveva permesso. Continuava ad indicarle il televisore.
«Mi ha detto: “Questa è Atlantide”.»
Clara picchiettò l’unghia sul marmo. «E intendeva che questa, questa città, è Atlantide.»
Le era sembrato un capriccio sciocco, lì per lì, ma ripensandoci in seguito le aveva dato la pelle d’oca.
«Ed è così, Stecca», sussurrò. «Una piccola, all’apparenza idillica, isola nel mezzo del nulla. Morta, sepolta, immaginata. Non so come faccia la gente a trascorrerci una vita intera.»
Arturo si era fatto serissimo tutto d’un tratto.
«Wow», fischiò. «I ragazzini sono più svegli di noi.»
«Eh già.»
Intanto aveva terminato la sua crocchetta e si ripuliva con difficoltà le mani dall’unto.
Decise di affrontare la questione più spinosa, sicura di non poter rimandare oltre.
«Cosa mi dicevi di Irene?»
«Ho provato a telefonarle di nuovo, stamattina, sia sul fisso che sul cellulare. Niente di niente.»
Il ragazzo appariva mortificato, come se avesse deluso delle aspettative che nessuno gli aveva imposto, se non forse se stesso. Clara sentì il bisogno improvviso di consolarlo.
«Te l’ho detto: secondo me è un periodo storto. Non ti angosciare, Stecca.»
Quello sollevò lo sguardo, deciso, puntandolo nella facciata romanica di fronte a sé, come a volerla trapassare.  
«Quanto dista da qui l’A4?»
«L’autostrada?»
Clara calcolò mentalmente almeno una ventina di minuti, considerato il percorso impervio, una volta superata la cinta cittadina vera e propria. «Mezz’ora al massimo. Perché?»
«Il posto in cui dobbiamo andare è vicino all’A4.»
“Dobbiamo.”
Che diamine si era inventato adesso?
No. Anzi, non voleva proprio saperlo. Si rifiutava categoricamente di lasciarsi trascinare nella follia a spirale di Arturo. Le sue macchinazioni per intrattenersi durante il soggiorno non l’avrebbero toccata, stavolta.
«Non so cosa tu abbia intenzione di fare, Stecca, ma io me ne torno a casa. Stanotte non ho chiuso occhio.»
Doveva aver fatto scattare un campanello interno, perché Arturo si era avvicinato con aria inquisitoria.
«Ah, e come mai?»
Clara si morse un labbro. Si era tradita.
«Rumori, pensieri vari.»
«Non sarà forse stata quella telefonata a vuoto?»
L’altra sbuffò, lisciandosi i pantaloni in un colpo secco. «Figurati.»
Nel semplice gesto di gettare i rifiuti nella più vicina pattumiera parve concentrare il triplo del vigore necessario. Lei? Spaventata da una chiamata senza risposta?
Da Irene non si aspettava niente di diverso.
«Sembrava così», insinuò Arturo. «Comunque, vado a questo indirizzo.»
Rivoltate entrambe le tasche dei jeans, trovò finalmente il biglietto che cercava. Lesse a voce alta: «Via L. Imperiali, numero 14».
Sperava in una reazione, che però tardò ad arrivare.
«La conosco. È una stradina isolata che costeggia l’A4.» Clara si accigliò. «Cosa c’è lì?»
Arturo si concesse una pausa enigmatica, quasi teatrale, prima di risponderle: «La vecchia casa del padre di Irene».
 
 
 
 
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Come avesse fatto a convincerla a seguirlo fino a lì, ad inerpicarsi tra l’erba incolta dell’autostrada e il vialetto sconnesso del 14 di Via Imperiali, non avrebbe saputo dirlo. O quantomeno, non avrebbe saputo spiegarlo in maniera razionale.
Vi era una determinazione – o una cocciutaggine – in Arturo, da quando si era presentato alla sua porta d’ingresso, che non gli aveva mai visto in diversi anni di conoscenza; se da una parte ne era sorpresa, dall’altra la preoccupava incredibilmente l’idea di mandare allo sbando un tipo come lui.
Certo, se le avessero preannunciato che i suoi piani per il weekend consistevano nel fare da babysitter ad un coetaneo con l’improvviso piglio dell’avventuriero, si sarebbe volentieri barricata dentro la Sweet Essence.
«D’accordo, eccoci qui.»
Ad Arturo era venuto un lieve affanno, a furia di evitare sterpi, restare in bilico su rocce precarie e saltare marciapiedi dissestati. Tenere il passo di Clara si era dimostrata l’impresa più ardua.
Lei, al contrario, se ne stava ritta in piedi con le mani piantate sui fianchi. Gli ricordò una vecchia tata che lo aveva accudito da bambino, con la stessa identica posa e l’espressione di disappunto a fissarle le labbra in una linea sottile.
«Adesso cosa pensi di fare?»
«Citofoniamo.»
E, cercato il nome corrispondente in elenco, premette il bottone. L’etichetta s’illuminò all’istante, accompagnata da un suono irritante.
Che a suo parere fosse una pessima idea, Clara gliel’aveva ripetuto almeno una ventina di volte. Per tutto il tragitto lo aveva martellato di domande, di insistenti richieste su quale fosse il suo piano con esattezza, ma era stato un buco nell’acqua. Arturo agiva d’improvvisazione, quel giorno.
L’attesa durò un paio di minuti, ma al terzo tentativo dovettero gettare la spugna.
«Oh, beh, abbiamo provato», sospirò il ragazzo.
Era già pronto a rincasare, quando Clara lo acciuffò per una manica e lo tirò con sé, verso il portone sigillato.
L’aveva trascinata fino a quel punto e adesso voleva rinunciare con una simile rassegnazione?
«Ma hai sentito anche tu: non c’è nessuno in casa.»
«Stecca,» sembrava tentata di linciarlo. «Che cosa mi hai detto prima?»
Arturo s’impegnò a rifletterci. «Sui fiori, intendi. Le giunchiglie che crescono anche lungo le autostrade. C’era quel famoso poeta inglese che aveva scritto una…»
«No, Stecca» lo interruppe all’istante. «Sui tuoi presentimenti e sulla vicinanza emotiva.»
Aveva semplicemente fatto un’osservazione sul “terribile presentimento” che non gli permetteva di chiudere occhio da parecchie notti, dalla sparizione della ragazza.
«Io in queste premonizioni non credo,» proseguì lei, «però un tentativo non costa niente.»
Gli rivolse un abbozzo di sorriso. «Così ti tranquillizzi.»
Tutt’intorno, la stradina era non solo silente, ma avvolta in un telo mortuario: latteo, denso, allucinante.
L’unica presenza viva sembrava il mucchietto di foglie, per metà incastrato sotto alla staccionata del vialetto; il vento agitava l’altra metà, sparpagliandola in pochi metri di terriccio umido.
Arturo storceva il naso. «Non lo so, Clara. Forse dovremmo rincasare.»
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Io non ti capisco, Stecca. Cosa diamine ti passa per la testa?»
«Non sono più sicuro sia una buona idea.»
Clara spalancò le braccia, esasperata: «Infatti è una pessima idea! Te lo sto dicendo da ore, ma tu non ascolti!»
Un movimento, oltre il vetro del portone, agganciò lo sguardo di entrambi.
«C’è la portinaia. Possiamo domandare a lei.»
Ma Arturo era già arretrato di diversi passi, ritrattando sull’intera missione.
La signora in questione era una donna piuttosto avanti con l’età, robusta e rigida nelle articolazioni. Si muoveva a fatica e con estrema difficoltà spalancò i battenti.
Arrotolò il cognome di Irene sulla lingua, impastandolo con perplessità. «Zanetti?»
Clara annuì. «Siamo amici di famiglia.»
La risposta fu asciutta e chiarissima: «Fòra».
Viveva ormai da tempo fuori città, in un’altra zona, appoggiandosi lì, a casa della madre, solo occasionalmente. Da quel che ne sapeva, non si vedeva nel condominio da un mese o forse più.
Clara, però, aveva assorbito la determinazione di Arturo e, mentre quest’ultimo la tirava per la manica del cappottino, cercando di persuaderla a lasciar perdere, lei chiese se potessero salutare velocemente la signora Zanetti, la nonna.
«La vecia?»
Per quanto paradossale sentirle usare l’appellativo, Clara annuì di nuovo. Le sarebbe piaciuto sapere come si considerasse la portinaia, nei suoi novant’anni suonati. Ma avrebbe lasciato il dilemma ad un’altra occasione.
«Stecca, smettila. Mi rovini il cappotto.»
Con uno strattone, si liberò di Arturo, ridotto ad un bambino di cinque anni irrequieto e dispettoso.
«Ma è meglio non disturbarla. Senza il figlio in casa, magari a quest’ora riposa.»
La portinaia cantilenò una bestemmia. «Riposa, riposa. Xe morta!»
Clara sentì il cuore scivolarle più in basso di qualche centimetro.
«Morta?»
«Mese scorso.»
Un accesso di tosse la costrinse a ritirarsi, ma non prima di aver indicato Arturo e aver annuito.
Lo aveva riconosciuto.
 
   
 
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