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Autore: Melanto    09/12/2019    5 recensioni
[Midquel di 'Malerba']
Gli elementi principali dell'ikebana sono tre, chiamati in modi differenti e sintetizzabili in: Paradiso, Uomo e Terra.
Preso nel mezzo, tra ciò a cui appartiene e la fede da ritrovare, l'Uomo si curva e dibatte alla ricerca di un equilibrio ideale. Ma la ricerca può essere guerra, e se dopo tante sconfitte c'è chi riesce ad assaporare la pace delle prime vittorie, allo stesso modo c'è chi, dopo aver passato una vita intera a dominare, inizia a soccombere sotto il peso delle sconfitte nascoste.
Questa raccolta è fatta di vittorie e disfatte diluite nel Tempo, ma senza dimenticare...
...che non è il tempo a perdersi, siamo noi a perderci nel tempo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Jikan - #3

Nota iniziale: questa shot si colloca tre mesi DOPO la shot #2.

Se nella #2 eravamo a Maggio, ora siamo ad Agosto dello stesso anno :D

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #3: Ciò che è perduto e ciò che è ritrovato. -

 

 

 

“Mi dispiace, Gen. Mi dispiace tanto.”

 

Le parole di Karl Heinz gli erano ronzate nella testa da che aveva preso l’aereo da Monaco. Compagne di viaggio che neppure la musica nelle cuffie era riuscita a silenziare.

Non ci ripensava da molto, ma nel momento in cui era entrato nell’aeroporto ciò che era stato sepolto dal tempo era tornato. Le parole di Karl Heinz non erano state le uniche. Poco alla volta, frase dopo frase, i ricordi erano tornati a galla.

Facendo i conti, erano passati nove anni e spiccioli da quando Genzo aveva scoperto che le pessime giornate non sempre si riconoscevano perché iniziavano male, quasi avessero un marchio o un odore che le preannunciasse e ti facesse dire ‘ehi, stai in campana, sta per arrivare una giornata di merda’. Poteva invece capitare che tutto filasse liscio, che la sveglia suonasse in punto come ogni mattina e che ci si alzasse dal letto riposati e affamati. Il sole nel cielo come sempre, magari un po’ tiepido, magari opaco, ma comunque familiare e che faceva dire che la giornata poteva cominciare. Una giornata tra le tante.

Colazione, allenamenti. Pranzo, allenamenti. Nella vita scandita da decisioni prese a undici anni di cui non si era mai pentito; non importavano le difficoltà o le distanze dalla famiglia: l’aveva scelto, l’aveva desiderato e costruito.

Genzo si era convinto a poco a poco, giorno dopo giorno e dopo ogni battaglia o ostacolo superato, che nessun intoppo avrebbe mai potuto guastare una giornata delle sue, tanto da rimanere saldamente aggrappato a tale sicurezza con tutta la solidità dell’esperienza accumulata, rendendo le sue spalle più larghe e capienti, che avrebbero potuto sopportare qualsiasi cosa.

Anche di quello si era convinto.

Fino alle cinque del pomeriggio di un normale giorno di novembre di nove anni prima.

Solo allora, Genzo aveva capito che le pessime giornate che arrivavano senza preavviso erano le peggiori di tutte, quelle che riservavano il colpo più duro; l’ultimo fuoco artificiale in chiusura della festa, che non faceva più luce ma solo rumore. Un rumore cupo che batteva dentro al petto.

 

“Stai calmo, Ishizaki. Stiamo parlando del Giappone, mica del Bronx. La polizia è lì, risolveranno tutto. Voi state calmi e nervi saldi.”

 

Di quel giorno, di quell’ora scarsa, Genzo ricordava ogni parola. Le sue, quelle degli altri. Ricordava tutto, conservava ancora i vocali che aveva ricevuto, le conversazioni con Tsubasa, con Ryo, con Hajime e Teppei. Ricordava tutto, tutto. Anche che fosse stata una semplice telefonata alle cinque del pomeriggio a sconvolgere le sue convinzioni.

Lui si trovava ancora nello spogliatoio, aveva scherzato con i compagni e riso a una battuta sconcia di Kaltz. Il cellulare era stato dimenticato dentro al borsone, tanto aveva tutto il tempo di guardarlo una volta arrivato a casa: quando era con i suoi amici e compagni, invece, preferiva dimenticarlo.

Ma il tempo, come le pessime giornate, doveva essersi offeso per una simile leggerezza, si era allora fermato e aveva ricordato a tutti chi fosse a comandare quella vita relativa.

Il mister era entrato con espressione scura e l’aveva raggiunto, tagliando la stanza satura di vapori, gioventù e sudore.

 

“Mi ha appena chiamato l’allenatore Mikami. Ha detto di metterti subito in contatto con lui; sta succedendo qualcosa in Giappone…”

 

Genzo non aveva colto come il tono del mister avesse battuto la marcia funebre. Lo aveva compreso a distanza di tempo, ripensando a quel momento preciso per analizzare il proprio dolore in ogni minimo particolare.

Era stato superficiale, forse, molto sciocco o solo molto, molto ingenuo. Era un ragazzino convinto di essere più adulto degli altri, che si poteva pretendere?

Cosa avrebbe potuto pretendere da sé stesso? Che potesse vedere e comprendere prima della fine come sarebbe terminata quella vicenda?

 

“L’Ispettore… non so quanto sia vero, ma… pare che Yuzo… pare che Yuzo sia ferito.”

 

Nemmeno allora aveva voluto vedere che la giornata fosse ormai in caduta libera ai suoi piedi.

Le pessime giornate, quelle brutte davvero, da volerle solo cancellare dal calendario e dalla propria vita. Quelle da voler dimenticare, ma che sarebbero rimaste dentro più a lungo di tutte, forse per sempre.

Genzo, l’inevitabile non aveva voluto vederlo, perché gli era sembrato troppo fuori da tutto, troppo impossibile, troppo catastrofico. Nelle attese tra una chiamata e l’altra, tra un messaggio e l’altro, tra un vocale e l’altro non aveva fatto altro che ripetersi la stessa frase.

Anche quella era tornata durante il viaggio, per fargli compagnia. Era tornata e aveva portato con sé l’amaro sapore della disillusione.

Il Giappone è sicuro. Un rapinatore qualunque non avrebbe avuto vita facile con la polizia già schierata in forze.

Il Giappone è sicuro. Non era mica l’Europa, accidenti! Non era mica l’America!

Il Giappone è sicuro, sicurissimo.

Se l’era ripetuto andando avanti e indietro sotto gli sguardi silenziosi e preoccupati di Karl ed Hermann.

Il Giappone è sicuro, risolveranno tutto…

…pare che Yuzo sia ferito.

Di nuovo, come allora, quelle due sentenze si accavallarono, cozzarono come onde di correnti avverse, abbattute contro lo stesso scoglio. In sottofondo, le parole di conforto degli amici che cercavano di rassicurare, ma lui non ne aveva avuto bisogno: era già stato sicurissimo. Sicurissimo come sicuro era il Giappone.

…pare che Yuzo sia ferito…

Genzo scalò la marcia con decisione, il piede premuto un po’ di più sull’acceleratore e la Jaguar XJ50 – la prima del parco macchine di famiglia di cui aveva agguantato le chiavi – pareva quasi volare, silenziosa come una folata di vento, lungo la statale che portava a Fuji e alle foreste di cedri adagiate ai piedi della montagna più importante del loro paese.

Aveva pensato che gliene avrebbe dovute dire tante, a Yuzo, appena quella storia fosse finita. Ricordò anche quello, e ricordò il sorriso teso di Karl e come Kaltz cambiasse lo stecchino dopo che la tensione gli aveva fatto spezzare quello che stava masticando. L’amico aveva cercato di rabbonirlo, mentre lui aveva ripetuto che avrebbe rimproverato uno dei suoi amici più vecchi e più cari come non aveva mai fatto da che si conoscevano. Quei suoi slanci da supereroe che in campo usava sempre troppo poco. Chissà che aveva combinato, aveva detto, chissà che si era messo in testa. Ne avrebbe dette quattro anche a Mamoru.

Genzo aveva fatto di tutto per non focalizzarsi sui mille significati che la parola ‘ferito’ portava con sé.

 

“Che… che significa ‘lo abbiamo perso’? Che stai dicendo, Nishimoto?... Che significa?! Che stai dicendo?!”

 

Le pessime giornate, Genzo aveva imparato, potevano essere quelle che distruggevano ogni certezza cementificata negli anni della propria vita, in quella dei propri genitori, nelle tradizioni millenarie, nella facciata di una civiltà pacifica e sicura, nella protezione di una ricchezza che avrebbe potuto comprare qualsiasi cosa, ma che in quel pomeriggio di novembre, dal cielo opaco e un sole pallido, gli aveva insegnato che, per quanto larghe fossero divenute le sue spalle, non lo sarebbero mai state abbastanza.

Era una lezione dura per un ragazzo così giovane, la più dura di tutte.

Non importava quanto lontano da casa si fosse trasferito, quante esperienze nella vita avesse fatto: si era trovato davanti a una porta che non era riuscito a spalancare né a sfondare senza accorgersi che non c’erano effettivamente maniglie né serrature. Una porta che non si poteva aprire né superare. Un limite da accettare così com’era, davanti al quale smettere di smaniare ed essere arrogante, ma lasciarsi andare come il braccio che aveva fatto ricadere e il telefono che, con ancora la comunicazione aperta, aveva toccato terra in un tonfo secco che l’aveva spento. Morto.

Come era morto Yuzo.

Allora aveva pianto l’anima, immobile in mezzo alla stanza, incapace di raccattare la fragilità di quei ventun anni che gli era caduta dagli occhi e dal cuore per raccogliersi ai piedi di un portone che non esisteva per essere aperto, ma per costringere a fermarsi e ad accettare che la vita, a volte, aveva regole che non ammettevano eccezioni.

 

Quando Genzo tolse la chiave dal quadro di comando, gli sudavano le mani.

La sua era stata una decisione che non aveva potuto rimandare ancora. Gli eventi e gli impegni lo avevano costretto a farlo fino a quel momento, e quando si era trovato l’occasione giusta tra le mani, l’aveva afferrata al volo. Sentiva di doverlo a Yuzo e a sé stesso. Ma ciò non gli evitava di avvertire la tensione fin dentro ai palmi, che strofinò tra loro per togliere quel fastidioso effetto sudaticcio.

Alzò lo sguardo oltre il volante, il Mori no Kokoro era a pochi passi, e il valore di un uomo non si misurava in quanto tempo restasse seduto nell’abitacolo a farsi passare la strizza di conoscere, finalmente di persona, il fratello di Yuzo.

Con uno sbuffo, Genzo scese dalla Jaguar e si calcò meglio il berretto sulla testa. L’afa di agosto gli fece rimpiangere l’abbraccio della condizionata, poi si incamminò a passo spedito verso il locale. Non aveva chiaro cosa avrebbe detto, come si sarebbe presentato anche se, dopotutto, si erano conosciuti già tramite videochiamata, ma era stato un paio d’anni prima e dal vivo era tutta un’altra cosa. Vederlo prima in foto e poi via WhatsApp aveva avuto un forte impatto, e non sapeva cosa avrebbe provato o pensato una volta che se lo fosse trovato davanti in carne e ossa, quale reazione avrebbe avuto. Nella sua testa, mentre percorreva quell’ultima breve distanza, ripensava solo all’unico rimpianto che aveva, un desiderio che sembrava microscopico, ma che si era tenuto dentro per tutto quel tempo e che sapeva sarebbe stato irrealizzabile per il resto della sua vita.

«Ehi! Dove scappi su quelle gambine da ranocchio?»

Genzo si fermò a pochi passi, attirato da una voce familiare che era tuonata in un misto di forza e presa in giro. Nello stesso istante, un bambino corse fuori dalle porte aperte del locale, ridendo a crepapelle.

«Ohi! Yuzo! Vuoi proprio che te le suoni a passo di valzer?!»

Anche un ragazzo uscì dal Kokoro, padrone d’un sorriso storto che gli piegava le labbra. Familiari, anch’esse, come la voce e le linee del volto, il colore degli occhi. Forse l’espressione era diversa, forse il taglio di capelli, ma tutto il resto non lo avrebbe mai potuto confondere.

«Vieni subito qui, che con quel pannolino sembri una polpetta! Una polpetta!»

«Noooo!»

«Invece dico di sì. E sai cosa faccio alle polpette… me le mangio! Waaaaaah!»

Il bambino esplose in una risata acuta, passò tra le gambe del ragazzo, che finse di non riuscire ad afferrarlo, e rientrò nel locale nel locale. «Fila dalla mamma, nano!» disse il giovane, in un finto tono minaccioso, poi sospirò: mani ai fianchi, sguardo al cielo limpido sopra le loro teste e sul far avanzato del tramonto. «Guarda te se devo mettermi a rincorrere un cagotto del demonio. Che fine ingloriosa per te, Malerba. Sai Tasho le risate che si farebbe? E quel nanetto diventa sempre la copia più sputata di sua madre! Poveri noi!»

«Che stai borbottando, Shuzo?!» gridò qualcuno dall’interno.

«Niente, Spydey! Ma che cazzo di udito c’hai?!»

«Io sento sempre tutto!»

«Sì, e ascolta pure stoca-… pperò, salve!»

Genzo si riscosse nel momento in cui il ragazzo si accorse di lui.

«Bella serata, eh? Non ci faccia caso, siamo anche normali.»

Ma nel momento in cui fece per rientrare, si fermò, con ancora la mano appoggiata contro lo stipite della porta. Tornò indietro di un passo e lo guardò.

Solo allora, Genzo riuscì a osservarlo bene, quando furono faccia a faccia e l’orecchino che oscillava al lobo quasi non si vedeva; neppure i tatuaggi sulla mano che sollevò verso di lui si vedevano bene, una volta cambiata la prospettiva, neppure i tatuaggi sulle braccia che sparivano sotto maniche di t-shirt arrotolate quasi fin sulle spalle. Spariva tutto, restavano gli occhi nocciola, la forma del viso dolce sulle mascelle, la linea del naso dritta che aveva sempre reso particolare il suo profilo.

No. Non il suo, si corresse.

Quello di Yuzo.

E quel ragazzo non era lui, anche se la natura gli diceva quanto fossero uguali e quanto, anche nella smorfia che gli storceva le labbra ci fosse dell’uno e dell’altro.

«Ehi, aspetta… ma tu…»

Quanto si potessero confondere, l’uno nell’altro.

«…tu sei…»

Quanto, anche solo per una volta, potesse scambiare l’uno per l’altro.

«…il ragazzone dalla Germania! Wakaba-weoh

Genzo gli si proiettò addosso con così tanta foga da farlo arretrare di alcuni passi; gli ultimi tre/quattro li aveva divorati come si divorava un boccone sgradito e allora bisognava toglierselo da davanti in fretta, ingollarlo con tutta la forza di volontà e l’acqua che si aveva disposizione.

Buttare giù l’amaro, per riuscire a prendersi il dolce dell’unico rimpianto che avrebbe finalmente trovato pace.

Forse era poco giapponese da parte essere così plateale. Magari sarebbe sembrato invadente; si poteva dire che non si conoscessero neppure. E invece, sotto quella stretta disperata con cui lo stava abbracciando, sentì il fratello di Yuzo rilassarsi e ricambiare, dandogli una leggera pacca d’incoraggiamento.

La concessione di realizzare quell’ultimo desiderio, di comprenderlo e anche se non sarebbe valso a niente, Genzo vi racchiuse tutto ciò che non era mai riuscito a dire a Yuzo: la sua gratitudine, il suo rispetto e il suo addio.

L’ultimo abbraccio a qualcuno che era andato via da anni, nella speranza che potesse raggiungerlo in qualche modo attraverso suo fratello. Attraverso Shuzo.

«Benvenuto al Mori no Kokoro, Wakabayashi Genzo.»

 

«Avresti potuto chiamare per avvisare! Ti avrei fatto trovare la cena pronta. Una bella cenetta giapponese, per disintossicarti da salsicce e crauti.»

Kumi aveva le braccia incrociate sul pancione del suo futuro secondogenito che continuava a chiamare ‘Baco’.

Genzo, seduto al tavolino, scosse il capo. Davanti aveva una bottiglia di birra già bevuta a metà e degli stuzzichini con cui accompagnarla tra gyoza e dolcetti che erano stati preparati quel giorno.

«È stato deciso tutto all’ultimo momento, non preoccuparti, non mi fermerò molto. E poi non mangio mica solo salsicce in Germania. Seguo una dieta precisa.» Le lanciò un’occhiata eloquente che fece arrossire l’amica fino alla punta delle orecchie.

«Mi stai dicendo che sono grassa?! Wakabayashi! Sono incinta! Questa roba andrà via!»

«Io te l’avevo detto di andarci piano con la cioccolata, Spydey…»

«E tu sta’ zitto!» Kumi mollò uno scappellotto a Shuzo che era piegato sul tavolino a ridere.

Genzo li osservava, rideva anche lui.

Dopo l’abbraccio, durato neppure sapeva quanto, aveva cercato di recuperare una certa compostezza; quella solita, a tratti un po’ burbera e che, anche se involontariamente, lo poneva in una posizione di vantaggio. Era sempre stato lui che sfotteva e che manteneva la calma, il sangue freddo. In quei pochi minuti se n’era dimenticato del tutto. Era stato un momento che aveva atteso per molto tempo e che non sarebbe tornato più. Aveva dovuto afferrarlo perché sarebbe stata l’ultima volta e dopo… dopo tutto sarebbe scorso senza più rimpianti.

Kumi l’aveva accolto a braccia aperte e pancione, il piccolo Yuzo l’aveva guardato con diffidenza e si era nascosto dietro le gambe del papà, Shuzo l’aveva fatto accomodare offrendogli una birra bella fredda e qualcosa con cui accompagnarla. Era arrivato giusto in tempo per la chiusura.

«Quando in un’altra vita rinascerete femmine, e sarete incinte, allora sì che ne potremo riparlare! Cafoni!»

Genzo sorseggiava la birra e si sentiva a suo agio. Ci si era sentito fin da subito e non solo perché era in Giappone e conoscesse già Kumi, ma proprio con Shuzo. Si era sentito tranquillo nell’averlo davanti con quel viso che ingannava con facilità, al primo impatto, e dopo, quando ti prendevi il tempo per osservarlo meglio, ti svelava ogni differenza che non avevi notato al primo sguardo.

Quella delle espressioni, prima di tutto, a partire dal sopracciglio inarcato e il sorriso obliquo, sempre storto, per il novantanove per cento delle sue smorfie. Seguivano i capelli, che di quelli di Yuzo avevano conservato solo il colore, mentre il taglio seguiva un mohawk disordinato. E poi il naso, un po’ più dritto di quello di Yuzo; le labbra un po’ meno piene. Forse. Forse cercava di trovarle per forza, forse erano meno visibili di quanto credesse. Le differenze che convincevano che quello che aveva di fronte non era Yuzo. Le differenze che rassicuravano.

I tatuaggi erano un grande aiuto, perché erano così tanti e visibili: dalle dita, lungo le braccia, fino alle spalle e a lambire il collo. E poi c’erano i modi di parlare, di ridere, di gesticolare. Di accendersi una sigaretta con disinvoltura e fumare come se lo si fosse sempre fatto. Di sicuro per Shuzo era davvero così, mentre non aveva mai visto Yuzo anche solo reggerne una.

Le differenze.

Quelle che segnavano i confini di due fratelli gemelli.

Nonostante fossero labili come il fumo della sigaretta che volò sopra le loro teste, nonostante lui con quel ragazzo ci avesse parlato solo una volta in videochiamata, Genzo si sentiva a suo agio, si godeva il momento, rideva.

«Manca ancora molto alla nascita?» domandò, prima di prendere un nuovo sorso di birra; Asahi e limone, faceva così estate.

«Un paio di mesetti.» Kumi disegnò un gesto circolare sulla sommità della pancia, guardandola con amore. «E avremo un nuovo Bachino a sgambettare in giro.»

«Sapete già il sesso?»

«Maschio», gongolò Tobi. Shuzo sospirò.

«Mi toccherà lavorare il doppio per non farlo venire su come te.»

«Che spiritoso.»

Yuzo abbracciò più stretto le gambe della mamma e guardò severo verso di lui. «È mio fratellino!» mise in chiaro.

Genzo sollevò le mani. «Questo è certo, piccolo.»

«È mio!»

«Stai tranquillo, polpetta, lo zio Genzo non vuole certo portartelo via.»

«Chicchan è mio e di mamma!»

«E di papà?» Tobi si indicò, Yuzo sollevò le spalle.

«No.»

«Ma come?!»

Risero, mentre Tobi prendeva in braccio il recalcitrante figlioletto che squittiva e cercava di liberarsi come un indemoniato.

«E tu, invece, quando ne metterai uno in cantiere?» Kumi lo insinuò con sorriso furbo e sguardo sottile. Le sopracciglia sollevate in fretta.

«Sto bene così, al momento. Non ho tutta questa fretta, e poi c’è tempo, ho solo trent’anni.»

«Trentuno.»

«Che è parente di trenta.»

Genzo annaffiò l’imbarazzo con l’ennesimo sorso di birra, ma la ragazza continuava ad annuire con fare malizioso.

«Vedi di non rimandare in eterno. Potrai essere il SGGK, ma saresti sempre un nonnetto! Non avrai più il fisico per stare dietro a un marmocchio. Ascolta la voce dell’esperienza.»

«Mi appunterò il consiglio, Kumi, grazie.»

La ragazza gli abbassò la visiera del cappellino sul naso per dispetto, continuarono a ridere e quell’ambiente rilassato, che aveva non solo gli odori di casa, ma le stesse sonorità nella lingua, gli disse che aveva fatto bene a seguire l’istinto, aver preso il biglietto e aver volato fin lì.

La parola ‘casa’, per lui, aveva assunto sfumature nettamente diverse le une dalle altre con il tempo.

Casa erano una lingua dura e una più musicale.

Casa era odore di birra e di tè.

Casa erano salsicce e gyoza.

Casa erano la Germania e il Giappone, e lui sapeva di potersi sentire accolto in due posti così differenti l’uno dall’altro; era una gran fortuna, quando sapeva che c’era gente, al mondo, che non era in grado di trovare casa in nessun luogo. Su quel pensiero, lo sguardo si spostò per un attimo su Mori. Conosceva un po’ della sua storia tramite gli amici; Hajime e Teppei avevano parlato molto con Mamoru e lui si era fatto raccontare qualcosa per capire che persona fosse il fratello di Yuzo. Capire perché proprio lui avesse mentito per tutto questo tempo, e come avesse fatto a essere tanto bravo da non far sospettare niente a nessuno.

Cercare di conoscere Shuzo Mori… per riuscire a capire chi fosse stato davvero Yuzo Morisaki.

«Allora noi torniamo a casa, siamo a cena dai miei genitori», spiegò Kumi con un po’ di dispiacere. «Ma non far passare altri anni prima di farti vedere? Quando riparti? Organizziamo una cena qui, scordati di rifiutare! E vediamo se anche gli altri sono liberi. Rimpatriata!» esclamò in fine, alzando le braccia al cielo.

«Wakabayashi, dici di sì, tanto l’organizza lo stesso.»

Mori si beccò l’ennesimo scappellotto.

Poi furono saluti e abbracci, con la promessa di tenersi in contatto per quei giorni. Infine, al Mori no Kokoro rimasero solo loro due, che era un po’ quello che Genzo aveva sperato fin dall’inizio: poter scambiare due parole in privato.

Shuzo richiuse la porta, senza girare la chiave, ma aveva il cartello ruotato su ‘CHIUSO’. Tornò a sedersi, tirò un’ultima boccata dal mozzicone prima di spegnerlo. Della birra era rimasto solo il fondo.

«Te l’avevo detto che siamo anche normali», scherzò.

«Sono abituato ai modi di Kumi.»

L’altro sorrise e lui si sporse sul tavolo, assumendo una posizione più composta. Le mani intrecciate sulla superficie liscia.

«Mi spiace se prima sono stato, come dire…»

«Lascia stare. Sono troppo terra terra per formalizzarmi.»

«È che… non è per giustificarmi, ma vi somigliate così tanto…»

Mori aveva l’espressione di chi se l’era sentito ripetere mille volte, ma non appariva seccato. Continuava a sorridere, e a tenere i denti a ridosso delle labbra. Yuzo, invece, anche se lui era partito presto per la Germania e non si vedevano così assiduamente, nei suoi ricordi non era mai stato avaro di sorrisi aperti, solari. Snudavano i denti, ti facevano capire quanto fosse felice.

D’improvviso, nel ripensarci e nell’immagine dell’amico che gli esplose davanti agli occhi in uno dei momenti trascorsi insieme, si domandò se lo fosse stato davvero, dopotutto.

«Guarda che lo capisco. Rilassati.»

Genzo vuotò quello che era rimasto della birra e Shuzo gli fece cenno per chiedergli se ne volesse dell’altra. Rifiutò, avrebbe dovuto guidare, non era andato con l’idea di bere. Tolse il cappellino, passandosi una mano nei capelli corti. Appese il berretto all’angolo della sedia.

«Ci eravamo visti l’ultima volta in videochiamata, un paio di settimane prima. Yuzo mi aveva chiesto dei consigli calcistici. Era sempre un piacere poterlo aiutare, sapevo che avrebbe imparato in fretta e avrebbe fatto tesoro di ogni cosa gli avessi detto. Di persona non ci vedevamo da svariati mesi.»

Negli anni era capitato spesso che ricordasse Yuzo assieme agli amici; ogni volta che si vedevano finivano col rivangare qualcosa del passato, qualche aneddoto. Ryo era quello che li ricordava meglio di tutti. Ma parlarne con suo fratello, ora, la sentiva una necessità. Era confrontarsi con l’altra faccia della luna, quella tenuta nascosta. Forse si aspettava di riscoprire una persona diversa dalle sue parole o solo la speranza che potesse confermarle, e confermare che la persona che lui aveva conosciuto e a cui aveva voluto bene fosse stata davvero così come ce l’aveva impressa nella memoria e non solo una facciata.

«Ascoltava sempre quello che dicevi. Eri il suo mito, l’esempio da seguire.» Mori si rilassò contro lo schienale della sedia, un braccio poggiato sulla sommità in una postura disordinata. Giocherellava con la bottiglia vuota. «C’è stato un periodo in cui t’ho odiato come la merda.»

Genzo sgranò gli occhi davanti al sogghigno di Shuzo.

«Yuzo parlava sempre di te! Wakabayashi qua, Wakabayashi là. Ha fatto questo, mi ha insegnato quello. Cazzo ero geloso marcio! Ero io suo fratello, mica tu! Ma lui parlava di te come se lo fossi stato e odiavo che potessi essere un esempio per lui, mentre io no. La mia sola consolazione era sapere che fossi in Germania», concluse in un’alzata di spalle.

«Anche per me Yuzo era come un fratello, e conta che ne ho tre più grandi, ma lui… lui era un ipotetico fratello minore.» Genzo liberò un profondo respiro carico di amarezza. «Sono arrabbiato che non mi abbia mai detto niente, che si sia tenuto tutto dentro. Io non volevo essere solo un esempio calcistico; eravamo amici. Parlavamo di un sacco di altre cose, dello studio, del vivere fuori casa, della famiglia. E lui… mi ha mentito ogni volta con facilità.»

«Che ti abbia mentito è innegabile, ma credimi non era facile. Non lo era mai, per quanto fosse abituato a farlo.»

«Ma non aveva bisogno di mentire! Eravamo suoi amici! Non sarebbe cambiato niente!» Genzo si tirò indietro dopo essersi lasciato prendere dalla foga. Con gli altri aveva sempre mantenuto la calma, le volte che affrontavano l’argomento, portatore di un atteggiamento che avrebbe potuto sembrare distaccato, ma che non faceva che rimuginare su ogni ricordo. Col ragazzo che aveva di fronte poteva finalmente concedersi di far emergere quella frustrazione che solo con i suoi amici più stretti come Hermann e Karl si era lasciato sfuggire. Mori era l’unico che avrebbe potuto dargli delle spiegazioni, che avrebbe potuto ribattere punto su punto. L’unico che avrebbe potuto metterlo in pace con sé stesso e col ricordo di Yuzo.

Guardò fuori della vetrata che affacciava sulla strada. Qualche macchina passava adagio e poi si faceva di nuovo il silenzio.

«Così come non era facile mentire,» proseguì Mori, «non lo era neppure dirvi la verità. Da una parte perché ero io che non volevo, l’avrebbe messo in una posizione scomoda, creato problemi. Era un ragazzino, non doveva caricarsi anche dei miei guai, bastavano le tensioni in famiglia. Dall’altro… penso non sapesse più neppure lui da dove cominciare, arrivato a un certo punto. Ma avrebbe sempre voluto farlo, questo sì. Non aspettava altro che il momento in cui avrebbe potuto dirvi la verità.» Anche Shuzo guardò fuori della vetrata, Genzo ne seguì il profilo con la coda dell’occhio. «Non c’è stato il tempo però.»

«Mi fa arrabbiare non poterlo rimproverare, adesso. Sarebbe stata la prima volta, pensa.» Scosse il capo, ma il vero problema venne fuori in un nuovo sospiro: «Non mi ero accorto di niente.»

Che razza di amico era stato? Proprio lui, che era sempre attento a tutto, si era lasciato ingannare senza neppure accorgersi che qualcosa non andava.

«Non sentirti in colpa, è stato così per tutti.»

Nessun conforto sapeva dargli sollievo e continuava ad avvertire un senso di responsabilità: era stato disattento verso un amico che aveva considerato come un fratello minore. Magari, se fosse stato più presente...

Tornò a scrutare oltre le vetrate, sperando di scorgere, nel sopraggiungere della sera, anche quelle risposte ai ‘se’ nascosti nell’ombra.

«Avrei voluto la possibilità di salutarlo come si deve.»

«Anch’io.»

Ancora di profilo, Shuzo aveva stretto leggermente gli occhi. Genzo si domandò se anche lui stesse cercando ancora delle risposte che lo mettessero in pace, ma il sorriso malinconico che gli vide affiorare all’angolo della bocca gli sussurrò che forse doveva averle già trovate, e non doveva essere stato facile. Genzo ricordò un po’ di ciò che i ragazzi gli avevano raccontato, del fatto che gli fosse stato impedito di essere al funerale. Una punizione terribile per chiunque, ma anche quella pareva essere stata superata, e quel sorriso, che di profilo non sembrava così storto, gli ricordò quello di Yuzo.

Sorrise, si sentì rincuorato per qualcosa che non seppe identificare, ma che gli fece rilassare le spalle.

«E tu, invece, come ti trovi qui? So che prima vivevi a Shizuoka.»

«Sarebbe più corretto dire che prima vivevo in galera. Però, sì, prima ancora c’è stata Shizuoka.»

«Obuchi è decisamente più piccola.»

«Sì, ma è molto tranquilla. L’aria è buona, la vista fantastica e le persone ficcanaso abbastanza da non annoiarsi.»

«Spero che i ragazzi non ti stiano troppo addosso.»

«Nah! Ishizaki la prima volta ha cercato di insegnarmi le regole del calcio. Ci ha riprovato anche due settimane fa. Credo non si arrenderà tanto facilmente, ma Mamoru mi ha dato il permesso di defenestrarlo, quindi… Aspetto il momento giusto.» Mori agitò la mano con noncuranza; lui rise.

«Me lo hanno raccontato. Siamo un po’ dei fissati, è vero. E non hai ancora conosciuto Tsubasa. Se ti propone di tirare due calci a un pallone, di’ di no! Dai due tiri alla rovesciata è un attimo.»

«Me ne ricorderò.» Shuzo inarcò un sopracciglio. «Ma sei sicuro di non volerti fermare a cena? Ai fornelli me la cavo bene e sono anche più veloce di Kumi.»

«Sicuro. Anzi, meglio se vado ora. Ti ringrazio, Mori-»

«Avevo detto di non esser tipo da formalismi, men che meno con gli amici di mio fratello. Chiamami Shuzo.»

Il divario, tra loro, che fin dall’inizio aveva percepito breve e superabile, si assottigliò ancora di più.

«E tu chiamami Genzo.»

«Non vuoi neppure fare un salto alle grandi serre? Mamoru vorrebbe di certo salutarti. In questi giorni è impegnato con la vendemmia, quindi ha orari un po’ sballati.»

Lui fece cenno con la mano e scosse la testa. Entrambi si alzarono per avviarsi all’uscita. Genzo stiracchiò le braccia e avvertì uno schiocco non doloroso nella spalla; era irrigidito a causa del viaggio. Recuperò il cappellino, ma non lo indossò, scegliendo di rigirarlo tra le mani. Fuori il fatto che il sole fosse tramontato non bastò a far rinfrescare l’aria, calda e satura di un’umidità che si appiccicava addosso. Nemmeno la presenza del Fuji, così vicino, o delle foreste da un lato e del mare dall’altro parve creare una lieve corrente.

«Non mi va di disturbarlo, avrà di certo un sacco da fare. Tanto ci vedremo comunque prima ch’io riparta, Kumi è stata categorica. E in fondo… ero venuto per scambiare qualche parola con te.» D’un tratto non trattenne uno sbadiglio che gli fece addirittura lacrimare gli occhi. Scosse il capo, cercando di darsi una svegliata. «Scusa. Sono in viaggio da due giorni interi. Il tempo di arrivare a Nankatsu e ho preso la prima auto a disposizione per venire qui. Inizio a sentire la stanchezza del volo.»

«Che ne dici se ti faccio un caffè prima di-…» Shuzo si fermò che erano a pochi passi dalla Jaguar. La guardò da sopra lenti immaginarie, mentre incrociava lentamente le braccia. «Hai preso la prima auto a disposizione, uh? E se ti fossi messo a scegliere con cosa saresti venuto, una Ferrari?!»

Genzo sbottò a ridere e indossò il berretto. L’abitudine al parco auto di suo padre a volte gli faceva dimenticare che non fosse cosa comune per tutti.

«Aaah, Jaguar. Ne ho rubate varie di queste a Shizuoka e dintorni. Bei tempi. Le portavo a un garage dei nostri dove le smantellavano e rivendevano i pezzi al mercato nero. Ci ho portato anche Yuzo, in varie occasioni, tanto che aveva fatto amicizia con uno dei meccanici.» Genzo si accorse di come cambiasse espressione. Era questa l’altra faccia della luna che aveva cercato venendo a parlare con Shuzo. «Stava addirittura imparando a smontarle.»

Lui non riuscì a immaginare quel ragazzo così gentile e sorridente, sempre troppo buono e accondiscendente con tutti, che si muoveva a suo agio in mezzo ai membri di una gang. Ma gli bastò tornare a fissare il profilo del giovane che restava fermo al suo fianco per rendersi conto di quanto, invece, fosse facile. Genzo poteva vedere Shuzo, e Shuzo era uguale a Yuzo.

«Questo era il massimo dell’esempio che avrei potuto essere per lui. Tu avresti vinto a prescindere a mani basse, non potevo proprio competere.»

«Avrei preferito mille volte essere un amico più attento che un buon esempio.»

Si guardarono. Genzo provò di nuovo l’illusione di stare parlando con la persona sbagliata e la speranza che Yuzo potesse ascoltare anche quello. Pensò di averne conferma quando Mori sorrise; una smorfia che non era più storta o ironica, ma contenta della risposta che gli aveva dato. Quasi rassicurata. E quell’espressione lo fece assomigliare a Yuzo ancora di più. Poi, tornò a essere il ‘gemello che era uguale ma non lo stesso’ quando assottigliò lo sguardo.

«E, dimmi, la sai guidare?»

«Ci sono venuto fin qui...»

«No. Io intendo se la sai guidare.» Shuzo sottolineò il verbo con particolare verve. «È una XJ, uh? Fa i duecentocinquanta, se non sbaglio.»

Lui si grattò un sopracciglio. Non era un gran patito di macchine, era sempre stato abituato o ad avere l’autista quando era più piccolo, o a essere scorrazzato in giro dal vecchio Mikami. I primi tempi, in Germania, usava i mezzi pubblici e si era comprato la prima auto intorno ai venticinque anni: un SUV compatto che gli permettesse non solo di avere abbastanza spazio per caricarsi i suoi compagni di squadra, ma anche di riuscire a parcheggiare a Monaco senza diventare matto nel giro di un secondo.

«Mi sembra, sì. Non l’ho mai tirata fino alla fine.»

«Maddai», cantilenò l’altro. «È uno spreco agli dèi avere una macchina così e non farla andare su di giri ogni tanto. Gliel’ho detto anche a Mamoru. Se non lo sgaso io quel povero CHR

«Per caso… ti andrebbe di farci un giro?»

Genzo l’aveva capito da come l’aveva guardata che la risposta sarebbe stata affermativa, e lui era curioso di vedere all’opera questo misterioso fratello che era stato in carcere e che rispondeva a un curioso nomignolo. Malerba.

«E avere l’occasione di essere io quello che, per una volta, insegna qualcosa al mito di mio fratello?» gli occhi nocciola di Shuzo si illuminarono di sfida. «Cazzo, e quando mi ricapita?! Certo!»

In fretta tornò sui loro passi, chiuse a chiave la porta del negozio, spegnendo le luci e calando la serranda. Quando gli fu abbastanza vicino, Genzo gli lanciò le chiavi che il giovane prese al volo.

L’antifurto scattò con un ‘bip’ e loro presero posto, lasciando fuori dall’abitacolo l’afa e le zanzare di agosto.

Genzo osservò Shuzo prendere subito confidenza con la plancia, i pedali e gli specchietti. L’aria di chi sapesse già dove mettere le mani su un’auto come quella.

«Sempre più tecnologici i modelli nuovi.»

«Ormai li fanno tutti con il parcheggio assistito e i sensori.»

«Roba da fighette,» decretò e poi mise in moto. Fece ruggire il V6 sotto al cofano fregandosene di spezzare la quiete serale del quartiere. «Allaccia bene la cintura.»

«È già a posto.»

«Okay, uhm… Genzo, è bene che però ti avvisi di una cosa.» Shuzo gli rivolse un sorriso colpevole che non capì.

«E sarebbe?»

«Lo dissi anche a Matsuda la volta che mi smollò le chiavi della sua macchina…» Finalmente, la smorfia si tese al tal punto da snudare i denti che aveva tenuto a ridosso delle labbra fino a quel momento. E quella mezzaluna non era un sorriso, ma una tagliola che balenò nella sera. «A darmi fiducia così in fretta, si fa peccato.»

 

Mamoru si era ricordato dell’esistenza di un mondo, al di fuori delle grandi serre, solo quando aveva richiuso il cancello dei possedimenti alle spalle del SUV. Quando si trattava della vendemmia praticamente smetteva di avere degli orari e trascorreva il tempo al vigneto assieme ad Hamoto e ai suoi ragazzi. Quella sera, come le altre, aveva ritardato perché erano rimasti a organizzare il lavoro per il giorno successivo. C’erano anche dei torchi da cambiare e avevano perso tempo a parlarne.

Quando aveva distolto lo sguardo dallo specchietto retrovisore, appena i cancelli si furono chiusi, e aveva guardato avanti, si era reso conto che era ormai buio. Erano le 20.30 passate, non aveva avvisato Shuzo e non aveva neppure controllato se il ragazzo l’avesse cercato.

Imprecando, aveva recuperato il telefono e solo allora aveva scoperto che Genzo si era presentato al Kokoro. L’imprecazione era stata doppia.

E perché non l’aveva avvisato, quello stupido d’un portiere nippocrucco?! Sarebbe venuto via dalle serre per tempo, permettendo anche al povero signor Hamoto e ai suoi di tornare a casa a orari decenti. Era davvero da parecchio che non si vedevano, e gli avrebbe fatto piacere poter scambiare due chiacchiere, sapere come si era evoluta la sua vita in Germania e se stesse davvero pensando di prendere il passaporto tedesco per giocare con la loro nazionale. Era una notizia che aveva iniziato a serpeggiare da un po’, a metà tra il reale e il pettegolezzo. Sarebbe stato un duro colpo per la nazionale giapponese, ma dopotutto, era anche arrivato il momento che iniziassero a cavarsela da soli. Da che lui aveva memoria, avevano sempre fatto troppo affidamento su Genzo, riposto in lui aspettative enormi e il portiere aveva il diritto di poter decidere se vestire una maglia con una differente bandiera: tanto era ormai chiaro per chiunque che la Germania non fosse solo un ‘luogo di lavoro’ per Genzo e così come aveva donato buona parte della propria abilità a rendere fortissima la nazionale giapponese, era giusto che ne donasse un po’ anche a quella tedesca. Almeno, lui non ci vedeva nulla di male, quanto di onesto; né che fosse un traditore o mercenario, come purtroppo avevano iniziato a definirlo su alcuni giornali sportivi e di gossip. Più passavano gli anni e più difficile diveniva la posizione in quello sport.

Scegliere di mollare tutto per cambiare vita forse non era poi stata un’idea così folle.

Mamoru parcheggiò all’interno del solito vicolo, su cui affacciava l’ingresso secondario del Kokoro.

Il tempo di scendere e inserire l’antifurto al SUV, che un rombo di motore arrivò sparato a tutta velocità, facendogli stringere gli occhi per il frastuono. L’inchiodata, poi, fu brusca, seguita dal leggero slittare delle gomme sull’asfalto.

Lui emerse di corsa dal vicoletto, per vedere chi diavolo andasse in giro a fare tutto quel casino, quando da una elegante Jaguar di colore scuro scesero Shuzo e Genzo.

Shuzo, nemmeno a dirlo, emerse dal lato guida.

Parlavano a voce alta, invasati, con Malerba che gesticolava animatamente.

«Ma la lavorazione è tutta diversa, uno non può solo dire ‘la carne di Kobe è migliore di qualsiasi altra’

«È esattamente quello che dico io!» accordò Genzo con la stessa foga. «Non si può mettere a paragone un bratwurst e un filetto! A parte che sono carni diverse, ma poi perché si deve ricercare a tutti i costi il piatto migliore o la cucina migliore?»

«Ma che stronzata! Non esiste una cucina migliore! Basta che si mangia!»

«Oh! Qualcuno che ragiona!» Genzo alzò le braccia al cielo. «A volte l’eccesso di nazionalismo mi fa incazzare!»

«È come con la birra.»

«Non me ne parlare, per carità! Quando dico che l’Asahi potrebbe avere un buon confronto con quelle tedesche, apriti il cielo!»

Shuzo agitava l’indice e annuiva, dandogli ragione. «Che poi, se uno non sa abbinarla al piatto che sta mangiando… di che parla?»

«Dell’aria fritta!»

«È alcool, porcomondo! L’alcool va bene su tutto!»

Genzo rise, mollò a Malerba una sonora pacca sulla spalla.

In tutto questo, Mamoru era rimasto a guardarli a braccia conserte e sopracciglio inarcato. Stupito dalla confusione che stavano facendo e dalla confidenza che sembravano aver raggiunto, e contento allo stesso modo. Sembrava quasi che si conoscessero da tempo e, osservandoli di schiena mentre camminavano fianco a fianco, aveva avuto un déjà-vu che gli aveva punto il cuore con malinconia.

«Sembrate due vecchie zitelle.»

Genzo e Shuzo si volsero insieme e solo allora si accorsero di lui.

«Ehi!» Malerba s’aprì in un sorriso raggiante quando lo vide. «Allora sei risorto dalle grandi serre! Se non ti avessi trovato al mio rientro avrei iniziato a preoccuparmi.»

«Dove siete stati, voi due?» domandò avvicinandosi e scoccando un’occhiata di rimprovero a Genzo. «Ti pesavano tanto le dita a mandarmi un messaggio del cazzo, Capitano? Temevo che non sarei riuscito neppure a salutarti.»

«Ah, per quello non devi temere: Kumi ha già provveduto a mettere in chiaro che avremmo tenuto una cena tutti insieme.»

Quando fu abbastanza vicino, Mamoru scambiò una stretta di mano e un abbraccio con il suo vecchio amico d’infanzia, scuola e squadra. E non importava il tempo che sarebbe trascorso o il fatto che non fosse più un calciatore, Genzo sarebbe sempre rimasto ‘il Capitano’, per lui, quasi fosse una forma di rispetto.

«È bello vederti. Avviene sempre così di rado.»

«Sono un uomo dai mille impegni,» ironizzò il SGGK, «ma come ho potuto, ho colto l’occasione.»

«E tu?» Mamoru spostò lo sguardo su Malerba.

«E io?» Sorrise il giovane con una faccia di bronzo per cui avrebbe voluto menarlo.

«Ti ho visto che scendevi dal lato del guidatore e ho sentito come sei arrivato, tirando la frenata.» Mamoru assottigliò lo sguardo. «Non gli avrai mica fatto prendere una multa?!»

«Nah, ma ti pare?! So benissimo dove sono gli autovelox, ormai! Gli ho solo mostrato di cosa potrebbe essere capace una Jaguarina come quella.»

«Ti prenderei a schiaffi.»

«Non ci riusciresti, gioia.»

«Mi ha anche spiegato come rubarle», s’intromise Genzo con aria compiaciuta.

«La prossima volta glielo faccio vedere!»

«Opperglidèi.» Mamoru si passò una mano sul viso, mentre Malerba sghignazzava. «Cosa cazzo ridi, tu?! Sei la solita figura di merda con le gambe!»

Shuzo rideva ancora e con naturalezza lo agguantò alla vita, attirandolo verso di sé, vicino. Molto vicino.

«Hai mangiato, gioia?»

«No, non ancora.»

«Tranquillo, ci ho pensato io.» Shuzo sollevò il sacchetto che aveva nella mano libera. «Mentre portavo il tuo amico Genzo a fare un giro turistico sul lungomare della malavita, sono passato a prendere yakisoba e kakiage. Non sono perfetto?»

«Sei perfettamente coglione, te lo concedo.»

Shuzo rise, arricciando la sommità del naso. «Ti precedo su, così do una botta di microonde alla cena.» Si prese un innocente bacio a stampo e sciolse l’abbraccio discreto con cui l’aveva tenuto stretto. «Genzo, è stato un piacere», salutò poi, la mano allungata verso il SGGK che la strinse con vigore e il saluto divenne qualcosa di più personale e amico, quando la stretta si concluse con uno scambio di pugno.

«Anche per me.»

«Ci rivediamo per la famosa cena, allora. Buonanotte!»

Mamoru seguì Malerba con lo sguardo fino a che non girò l’angolo del vicoletto di casa. Non riusciva a togliersi quel sorriso pacificatore. Ce l’aveva da che Shuzo era tornato in libertà e a riempire le sue giornate a tempo pieno. Innamorarsi era l’unico processo della vita che, nel bene e nel male, ti rendeva felice d’essere al mondo e lui si sentiva felice come era convinto d’aver rinunciato. Non pensava sarebbe potuto accadere, un giorno; non l’aveva neppure chiesto. Eppure, alla fine, qualcuno che riuscisse a fargli chiudere le porte col passato era arrivato sul serio, aveva travolto tutto, l’aveva fatto incazzare e poi stupire, e temere e gioire. L’aveva fatto sperare, eccitare e ringraziare quello stesso passato per il futuro che gli aveva donato.

Con ancora il sorriso, Mamoru si volse verso Genzo e si sentì colto in fallo: il portiere aveva le braccia conserte, sorrisetto sghembo e mento sollevato.

«Ma come siamo spigliati», insinuò. «Non ci vergogniamo proprio di niente, Izawa?»

«Vergognarmi? Dopo che ho mandato al diavolo la carriera per aprire un bar e un vivaio, ti pare che dovrei vergognarmi di baciare il mio compagno?»

Genzo sciolse ogni sfottò e rilassò spalle ed espressione.

«Hai ragione.»

«Al massimo dovrei vergognarmi di lui e delle figure di merda che mi fa fare di continuo!»

«È uno che parla parecchio, è vero.»

«Per lo più a sproposito.»

Ridacchiarono. Anche la sua storia con Shuzo era divenuta di dominio pubblico tra gli amici, non era un problema, ed era stato felice di sapere che non lo fosse neppure per gli altri. Avevano tutti continuato a presentarsi al florocafè, a organizzare serate e cene e feste di rimpatriata alla prima occasione. Shuzo ormai faceva parte anche di loro.

«Avresti dovuto avvertirmi che saresti venuto.»

«Non sapevo neppure se avessi avuto il coraggio di presentarmi davvero qui. Non avevo idea di cosa avrei trovato.» Genzo prese un profondo respiro. «Parlarci per telefono è diverso che averlo davanti.»

«Ti confonde», convenne Mamoru che per quella fase ci era già passato.

«…però mi piace», Genzo sorrise. «Gli somiglia, e non parlo di una mera questione affettiva. In certi atteggiamenti gli somiglia davvero.» Ridacchiò. «Guida come un folle.»

«Lo hanno scosso troppo da bambino e ha qualche rotella saltata.»

«E dire che io l’avevo capito…»

Mamoru inarcò un sopracciglio. Genzo aveva un’espressione un po’ colpevole.

«Che Yuzo avesse un debole per te. Io l’avevo capito e invece non sono riuscito a capire tante altre cose.»

«Perché non me lo hai mai detto?!»

«Perché non dovevo farlo io. A dire il vero, non ne ho mai parlato neppure con Yuzo, perché quando provavo a sondare il terreno, lui nooooo, non era interessato agli uomini. Ma io ero certo che la verità fosse un’altra…» Genzo rivolse il proprio sorriso rassegnato alle stelle che iniziavano a trapuntare il cielo. «Yuzo era davvero testardo come pochi.»

Fu allora Mamoru a prendere un respiro profondo, con l’intenzione di svuotarsi i polmoni del tutto, tirare fuori le piccole malinconie che tornavano sempre quando si trattava di Yuzo, e che probabilmente non se ne sarebbero andate mai perché non potevano.

«Aveva paura di perdere ciò che ancora gli era rimasto. La sua famiglia agiva di facciata, aveva perduto la possibilità di parlare di suo fratello e vivere sotto lo stesso tetto… penso che temesse di perdere anche noi.»

«E invece siamo stati noi a perdere lui.»

«…ma se ci concentrassimo su quello che abbiamo ricevuto, dopo un po’ potremmo riuscire a mettere da parte l’amarezza.»

Mamoru aveva fatto i conti con sé stesso e ciò che aveva ricevuto, che fosse un progetto lavorativo che adorava o l’amore che non stava cercando, era meraviglioso e gli faceva pensare che tutta quella sofferenza e gli eventi del passato non fossero stati gettati al vento, senza senso. Lui un senso era riuscito a darlo a tutta la sua vita, e adesso poteva dire di essere finalmente felice.

«Quello che abbiamo ricevuto…» fece eco Genzo. Il sorriso divenne sghembo, mentre calcava meglio il cappellino sulla testa. «Mi sembra un buon punto di vista.»

Lui annuì e per qualche istante il silenzio cadde tra loro, ma d’improvviso si riscosse realizzando una cosa che gli era sfuggita tra la sorpresa e la confusione. «Un momento! Ma ti ha almeno invitato a restare, quel cretino?!»

Genzo liberò una sonora risata. «Sì, ma come ho detto anche a lui: appena messo piede a Nankatsu sono venuto qua. Se non mi presento a cena, penso che mia madre mi ucciderà! C’è anche uno dei miei fratelli!»

Così si salutarono, tra pacche sulle spalle e abbracci calorosi. Si sarebbero tenuti in contatto per organizzare la cena e Genzo si offrì di aiutarlo a contattare gli altri, in modo da fare prima.

Mamoru lo osservò mettersi in macchina e andare via, sgommando in maniera criminale. Non riuscì a non nascondere il viso nella mano, convinto che fosse un insegnamento di quella dannata malerba di cui era innamorato.

 

L’autoradio era ancora ferma sulla stazione in cui Shuzo l’aveva lasciato mentre giravano per Fuji City e dintorni. Più zone periferiche, in verità, che s’immergevano tra foreste di cedri dove le torrette della stradale non erano presenti. Shuzo doveva conoscerle bene, ormai, perché gli aveva dato l’aria di sapere esattamente dove fossero collocate.

Passava una canzone di Nina Simone, e si chiese dove potesse correre un peccatore come Mori. Dove avesse mai corso per tutto questo tempo che nessuno di loro l’aveva mai visto e conosciuto. Che fosse al fiume, al mare, da Dio o all’Inferno adesso non era importante, perché era arrivato, e la sua destinazione era Obuchi. La sua destinazione era in mezzo a loro.

Genzo rallentò fino a fermarsi lungo il ciglio della strada poco prima di arrivare a Fuji City. Ripensò alle parole di Mamoru, alla compagnia di Malerba, alle bugie di Yuzo. Ripensò al fatto che non avesse provato alcun disagio, né oppressione a causa della consapevolezza per la morte di un amico caro. Aveva avuto un’immagine completamente diversa di quell’incontro, credeva avrebbe finito per affogare tutto in tristezza e malinconia. E invece nel petto aveva provato la sensazione di aver ritrovato qualcosa che si era creduta persa per sempre.

Qualcosa che non l’avrebbe più fatto sentire preda dei propri errori e disattenzioni, qualcosa che a ogni momento di sconforto l’avrebbe consolato. Il Super Ganbari Goalkeeper pure nella fine aveva lasciato un dono per loro, che avrebbe scacciato l’amarezza dell’addio fino al prossimo ritorno al Mori no Kokoro, dove neppure i ricordi facevano più del male.

Genzo tolse il cappellino e lo lasciò sul sedile del passeggero. Si passò la mano nei capelli corti, spettinandoli assieme ai pensieri.

C’era voluto un giorno solo… ma che diceva? Addirittura poche ore, per scacciare quello che in anni aveva continuato a tornare, nemmeno compisse una lunga rivoluzione su un’orbita fissa.

Era bastata una birra, un giro in macchina, qualche curva presa stretta, dei gyoza, un abbraccio, l’amore nei gesti dei suoi amici. L’amore per i fratelli.

Sorrise.

Genzo staccò il cellulare dal supporto e aprì la cartella di gestione dei file archiviati che comprendeva le tracce audio dei vocali di WhatsApp. Quelle della rapina erano state rinominate e salvate. Le aveva riascoltate spesso e ogni volta era stato un trauma.

Le selezionò tutte. Le cancellò.

Non c’era più bisogno di ricordare il dolore, ma solo il bello che Yuzo aveva lasciato dietro di sé. E dietro c’era qualcosa creduto perso che invece era stato ritrovato.

All on that day.

 

 

 

 

 


 

 

Nota Finale: … <3

Questo incontro era stato programmato all’interno di ‘Malerba’.

Genzo sarebbe dovuto arrivare all’improvviso al Kokoro per conoscere Shuzo, in una fase in cui lui e Mamoru non avevano ancora perfettamente chiari i sentimenti reciproci. Genzo avrebbe dovuto far riflettere Mamoru in quel senso, ecco. Dargli uno sprone.

Solo che al momento in cui avrei dovuto introdurre Genzo… Mamoru aveva già le idee chiarissime XDDDD e allora, parlandone anche con Kara the Counselor (XD), mi sono resa conto che quell’intervento di Genzo… non aveva più alcun senso, diveniva superfluo: e il superfluo – per quanto ci possa piacere – in molti casi va tagliato. Dura lex, sed lex.

Così, il pezzo è stato eliminato dalla scaletta, ma ci tenevo che Genzo e Shuzo si incontrassero dal vivo. Il rapporto tra i SGGK per me è un bellissimo esempio di Broship o BROTP, come preferite, quindi era ovvio che prima o poi avrei finito con l’analizzare la morte di Yuzo anche nell’ottica di Genzo.

L’idea della raccolta mi ha dato modo di inserire questa cosetta :3 

 

 

PS: l'aggiornamento della prossima settimana arriverà alla mezzanotte tra DOMENICA e LUNEDI'! Questo perché il Lunedì sarò in viaggio per tornare al paesello ♥

 

 

   
 
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