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Autore: Dark Sider    13/12/2019    11 recensioni
Gennaio 1942. Nel campo di sterminio di Auschwitz cominciano ad arrivare, con sempre maggiore frequenza, convogli carichi di bambini provenienti dal campo di concentramento di Terezín, per non altra ragione se non essere uccisi.
Una SS riflette sull'orrore al quale sta assistendo e che fa vacillare gli ideali ai quali ha giurato fedeltà.
[Quarta classificata parimerito al contest "Il mio Babbo Natale segreto" indetto da Claire roxy sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Olocausto
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Il soldato che sapeva piangere

 

 

 

Faceva freddo: la neve continuava a cadere impietosa sulla coltre biancastra che ammantava le strade silenziose, e un vento gelido spirava da Nord, insinuandosi nei vestiti e ghiacciando la pelle.

Hans rabbrividì nel pastrano pesante dell’uniforme; in piedi accanto ai binari, allineato con gli altri commilitoni, attendeva l’arrivo dell’ennesimo convoglio proveniente da uno dei ghetti dell’Est. In quelle settimane ne erano arrivati e ne continuavano ad arrivare a dozzine, e trasportavano tutti lo stesso carico: bambini e adolescenti di Theresienstadt.

Hans ne aveva visti a migliaia scendere dai convogli, tutti con la stessa espressione impaurita e smarrita di chi sta per affrontare l’ignoto con l’unica consapevolezza che non ci sarà ritorno. Spesso, aveva aiutato lui stesso a radunarli e a condurli alle camere a gas.

Non aveva provato nulla di particolare, in quei momenti: quello era il modo in cui aveva scelto di servire la patria, di onorare la grandezza del Reich e non c’era spazio per i sentimentalismi. Dubitare dell’operato del Führer era come tradirlo, tradire la Germania tutta e la purezza della razza.

Hitler sapeva cosa andava fatto e lui era onorato di poter servire la sua causa.

La prima volta che aveva visto dei bambini scendere dai convogli, qualche settimana prima, aveva avuto un sussulto al cuore, un tremore doloroso che gli aveva fatto mancare il fiato per un attimo: era stata una reazione istintiva e naturale, che aveva seppellito sotto l’indifferenza quando aveva incrociato gli sguardi di pietra degli altri militari. Loro non si domandavano, non dubitavano, e non l’avrebbe fatto neanche lui.

Quella volta, la prima volta, aveva vomitato, dopo; non era riuscito a impedirselo, perché la consapevolezza dell’orrore era troppo grande, ma aveva avuto il buonsenso di farlo di nascosto. Come se essere umano fosse una vergogna.

In seguito, non gli era più capitato di provare quelle sensazioni: l’abitudine le aveva spazzate via ed era stata una liberazione.

Per Hans, era diventato semplice spingere i bambini fuori dai convogli, spogliare i loro piccoli corpi degli abiti, condurli verso la morte quasi gentilmente, raccogliere poi i loro cadaveri e gettarli negli inceneritori come se fossero stati niente. Era diventato naturale, parte dei suoi quotidiani compiti e delle sue mansioni.

Così non provava niente di particolare quando vedeva quegli esseri innocenti scendere dai vagoni e guardarsi intorno tremando, piangendo. Non avevano volto, non avevano identità.

Hans batté i piedi a terra, nel tentativo di scaldarsi: faceva davvero freddo, così freddo che neppure gli abiti pesanti potevano nulla.

Il treno arrivò poco dopo, fermandosi con uno stridio fastidioso. Hans si avvicinò al convoglio che aveva di fronte e lo aprì; il silenzio attonito che proveniva dall’interno lo investì, assordandolo. Nella penombra, centinaia di occhi lo fissarono, sbarrati e confusi, lucidi di lacrime e febbre.

Gridò a quegli occhi di scendere, allontanandosi per combattere il tanfo che proveniva dall’interno, in un automatismo che era divenuto così profondamente parte di lui da non doverci neppure pensare.

Migliaia di bambini, corpi senza volto e senza identità, cominciarono a riversarsi fuori dal treno e l’aria si riempì della cacofonia delle loro grida, dei loro strepiti e pianti, quando venivano strattonati e sferzati perché s’allontanassero velocemente e andassero a mettersi in fila. Alcuni inciampavano, cadevano e venivano schiacciati da chi scendeva dopo di loro. Alcuni riuscivano a rialzarsi, altri no.

Hans assisteva a tutto come chi guarda l’ineluttabile; lasciava scorrere lo sguardo sulla fila di bambini che si faceva via via più nutrita e non riusciva a sentire nulla: dentro c’erano solo il freddo e il vuoto. I suoi compagni erano inferociti, orgogliosi e alcuni persino divertiti, mentre lui non riusciva a trovare quegli stessi sentimenti in se stesso.

Sarebbe stato disgustato, se avesse potuto. Ma non poteva. E allora guardava come da attraverso un vetro opaco, come da lontano. I suoi gesti non gli appartenevano, le sue frasi gridate neppure: erano di qualcun altro, qualcuno che in quei momenti s’impossessava di lui e ne controllava l’agito.

Quando aveva giurato di servire il Führer, non aveva potuto immaginare che avrebbe significato tutto quello, che si sarebbe arrivati a tanto. Ma lui era un buon soldato e ancora credeva negli ideali che aveva abbracciato, ancora credeva nella necessità di ciò che stavano facendo.

Così continuò a urlare ordini, a spingere, a strattonare. E a non sentire nulla.

Poi la vide. Una bambina, che non poteva avere più di cinque anni, si era affacciata da un convoglio e si guardava intorno smarrita, le manine congestionate aggrappate al bordo per non cadere; la piccola osservò i dintorni, sbattendo le palpebre come se si fosse appena svegliata e non sapesse ancora quale fosse la realtà e quale il sogno, poi puntò gli occhi a terra: il dislivello non era molto, ma certamente a lei doveva sembrare enorme. Nonostante ciò, dopo un istante di esitazione, saltò giù con la stessa spensierata grazia che avrebbe usato per scendere da un muretto.

Indossava dei logori stivali neri e un vestitino di lana altrettanto consunto. Mosse qualche passo incerto nella neve, guardando con stupore in alto, verso le SS che urlavano e spingevano, non riuscendo forse a capire cosa stessero dicendo, o chi fossero; venne urtata e barcollò, e il suo stupore crebbe ancora.

Quando si voltò verso Hans, che si trovava a pochi metri di distanza, fu come se lui la vedesse emergere dalle ombre: lei smise di non avere volto, di non avere identità, e le sue fattezze gli s’impressero nelle pupille con una nitidezza tale da oscurare tutto il resto.

Scomparvero le grida, il caos, la folla, mentre lui sondava i grandi occhi verdi della bambina, sbarrati e arrossati: aveva pianto, ma ora non lo stava facendo. Forse aveva finito le lacrime.

I boccoli biondi ondeggiarono lievemente quando la piccola cominciò a caracollare verso di lui, lontano dalla fila che avrebbe dovuto raggiungere. E dovevano essere stati belli, quei boccoli, dorati come i raggi del sole del mattino, come quelli delle principesse nelle favole; ora, invece, erano spenti dalla sporcizia e dagli stenti, e parevano paglia secca intrecciata in sudici nodi.

Tutto, in lei, parlava di fame e privazioni: c’era il visino smunto, c’era la pelle diafana, striata dall’evidenza delle vene bluastre. E c’erano i capelli, opachi e pallidi come la luce in Inverno.

Anche sua figlia aveva i capelli biondi, pensò Hans, e la stessa età di quella che gli si stava avvicinando. Sua figlia che era a casa a giocare con le bambole, accanto al tepore del camino, con sua madre a cantarle una nenia mentre le pettinava i capelli in trecce ordinate.

Sua figlia era a casa, al sicuro dal male del mondo, mentre quella figlia di nessuno stava conoscendo l’orrore e la terribilità degli uomini.

Perché?

Hans fece un passo indietro quando la bambina arrivò a un metro da lui. Silenziosamente pregò, sperò che lei si fermasse, che si voltasse e tornasse indietro, che non lo raggiungesse. Si chiese perché stesse venendo verso di lui, proprio verso di lui: forse era per via dei propri occhi, si disse, che non la guardavano con cattiveria e rabbia. Ma, qualsiasi fosse il motivo, la pregò in un muto grido di andarsene, di farsi inghiottire dalle tenebre dalle quali era emersa. Di tornare a non avere volto e identità.

Lei, però, non lo ascoltò. Lo raggiunse e si fermò davanti a lui, guardandolo con quell’espressione smarrita e inconsapevole. Poi, gli sorrise: un sorriso lieve, sbocciato come una rosa rossa tra la neve. Un sorriso speranzoso.

Hans vide la propria mano destra sollevarsi a indicare la fila di prigionieri, poi afferrare una spalla della bambina per voltarla in quella direzione. Con una leggera spinta, la incoraggiò a incamminarsi e lei ubbidì docile, forse rinfrancata da quella gentilezza.

Si accodò composta, senza però smettere di guardarsi intorno con stupore. Chissà se sarebbe stata in grado di comprendere qualcosa delle scritte bugiarde nei falsi spogliatoi delle camere a gas, o se avrebbe continuato a rimanere confusa, perduta in qualcosa che non riusciva a comprendere. Chissà se avrebbe cominciato ad avere paura, quando lo Zyklon B avesse cominciato a fare effetto, chissà se avrebbe pianto.

D’improvviso, Hans avvertì qualcosa di caldo colargli lungo le guance; stupefatto, se le tastò con le mani solo per constatare che erano lacrime. Stava piangendo, rigido e silenzioso, perché tutto ciò che aveva cercato di seppellire fino a quel momento aveva rotto ogni barriera, tracimando. Stava piangendo perché quella piccola, che somigliava a sua figlia, sarebbe morta insieme a mille altri, solo perché qualcuno, che non era più di un uomo, aveva deciso che dovesse essere così.

Era il 30 Gennaio 1942 e lui stava piangendo davanti a una fila di bambini condannati a morte, davanti a quella crudeltà senza raziocinio, davanti all’essenza della malvagità umana, nel campo di sterminio di Auschwitz.

Faceva freddo, la neve continuava a cadere impietosa e il vento che spirava da Nord gli ghiacciava le lacrime sul volto.

Hans Naumann si suicidò il 2 Febbraio 1942.

 

 

 

***

 

Note dell’autrice: lo scopo del contest era di scrivere una storia che potesse piacere a un altro partecipante, assegnato casualmente, e la cui identità doveva rimanere segreta fino al 25 Dicembre. Il partecipante per cui ho scritto questo racconto è mystery_koopa: spero di essere riuscita a creare qualcosa di interessante e di suo gradimento ^^

Per quanto riguarda i riferimenti del racconto: tra il 1941 e il 1945, 15.000 minori ebrei (inclusi adolescenti) vissero nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín) che, nonostante la propaganda (è questo il campo del famoso filmino propagandistico che i nazisti fecero girare, per convincere tutti della bontà del loro operato) e le relativamente migliori condizioni di vita, rimase sempre agli occhi dei nazisti solo un luogo di soggiorno temporaneo e di transito verso i campi di sterminio. I bambini di Terezín furono, con sempre maggiore frequenza, inclusi nei trasporti che, a partire dal gennaio 1942, trasferirono a più riprese gli abitanti di Terezín prima verso i ghetti dell'Est, e quindi direttamente ai campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz, per non altra ragione se non essere uccisi.

Lo Zyklon B è un gas a base di acido prussico ed è quello che i nazisti utilizzarono, a partire dall’Autunno 1941, per l’eliminazione in massa dei prigionieri nelle camere a gas.

Hans Naumann è un personaggio di mia invenzione e non è realmente esistito; il suo cognome, invece, è preso da Erich Naumann, che fu un Brigadeführer delle SS e comandante dell’Einsatzgruppe B.

  
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