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Autore: Yellow Canadair    13/12/2019    1 recensioni
Genji si è fermato in Nepal. Iroso e diffidente, solo da poche settimane ha permesso ai monaci di parlare con lui. Ha una camera tranquilla, un burrone con cui parlare, e tanta rabbia da smaltire.
E ha una sciarpa nuova.
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Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Genji Shimada, Tekhartha Zenyatta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il bianco del burrone, quella notte di Natale.

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Giorno 13 dicembre

Si ringrazia Sidra Lake

 

Il burrone non aveva il fondo, e Genji lo sapeva benissimo.

O, meglio, sapeva che un fondo lo doveva avere, a scuola non si era mai applicato molto ma non era certo stupido; eppure da lì, dall’alto della rocca, sembrava che un fondo davvero non lo avesse, e si potesse precipitare per giorni e giorni, e poi mesi, per metri, e poi chilometri, e poi galassie, senza fermarsi mai.

Un folle volo eterno, nel bianco della neve del Nepal.

E lui, non pago dell’altezza del burrone, saliva ancora più in alto, sul tetto del piccolo edificio di legno che ospitava la sua piccola e modesta camera da letto. Si arrampicava con un balzo, sfidava la gravità con le sue gambe d’acciaio, si issava tra le vecchie tegole di ardesia grigia e senza neppure il fiatone si fermava sul ciglio del tetto a guardare il nulla.

Quel vuoto non urlava e non lo minacciava, eppure sembrava l’unica entità in grado di gridare più forte di lui, di ammonirlo come nessun padre avrebbe potuto fare, dall’alto dei suoi millenni e di quelle antiche e infinite gocce che l’avevano scavato dai tempi dei tempi.

“…e qui c’è il burrone” gli avevano detto i monaci, il primo giorno in cui aveva accettato di essere avvicinato da loro. “non andarci mai, per favore. Si cade.” Era stato un ammonimento semplice e gentile.

Erano anni e anni che non lo faceva, ma aveva deciso di obbedire.

Non per la voce metallica e gentile del monaco, che con cura e serenità l’aveva scarrozzato su e giù per il villaggio, ma per il respiro freddo e maestoso del burrone, che sembrava un grande e millenario padre: non venire giù, sembrava soffiare, tra le nevi perenni e tra le rocce. Non saltare.

Ordini col punto fermo, ma senza severità, senza astio.

Genji non poteva fare altro che sedersi in cima al tetto, con la sola compagnia del comignolo, e osservare il grande burrone che sbuffava piano, che si avvolgeva nella nebbia e nell’umido.

Gli ricordava suo padre, anche se non riusciva ad afferrare bene in che modo; l’unica cosa che comprendeva era che lì, sulla cima del Nepal, riusciva a rimanere tranquillo e a non farsi aggredire dalle voci nella sua testa, e forse, vagamente, quasi a sentirsi ancora umano.

Anche se di umano in Genji non c’era più niente. Gliel’avevano strappato via, tutto ciò che aveva di umano, un po’ alla volta. Prima era stato per salvargli la vita, avevano detto. Solo una protesi, perché aveva dei danni troppo seri. Poi c’era stata un’altra protesi, perché la situazione si era aggravata e rischiava di nuovo di morire. Poi c’era stata l’amputazione, e lì Genji aveva capito di stare per crollare, ma aveva dato il suo consenso, come se tagliare via parti di sé sarebbe servito a tagliare via il legame doloroso con il suo clan, con la sua famiglia, con quell’assassino di suo fratello.

Perché Hanzo era un assassino, e questo Genji l’aveva sempre saputo, e ammirato.

Ma aveva capito che Hanzo sarebbe arrivato a uccidere anche lui solo quando si era visto la sacra spada di suo padre puntata al petto, la katana da cerimonia tramandata di Shimada in Shimada. E forse nemmeno allora ci aveva creduto, forse aveva capito quello che stava succedendo solo quando aveva visto l’espressione di Hanzo.

Un freddo assassino al lavoro.

Il rumore dello sterno che veniva trapassato dall’acciaio.

E poi aveva dei flash, confusione, il pavimento che cedeva, suo fratello diceva qualcosa, lui rispondeva altro.

Gli avevano spiegato che era per via dello shock, che aveva ricordi accavallati e vaghi. Un estremo tentativo di difesa del suo cervello, per non fargli franare addosso la consapevolezza che il suo mondo era finito, il suo clan lo voleva morto, la sua famiglia non esisteva più, suo fratello lo stava uccidendo.

Una folata di vento ghiacciato fece ondeggiare la sua sciarpa e uno dei lembi gli cadde fra le gambe. Si era seduto quasi senza rendersene conto, e senza avvertire il freddo della neve che si era posata sul tetto.

Non avvertiva più il freddo, in realtà: era fatto per lo più di metallo.

Dopo il suo assassinio, nessuno lo aveva cercato: né la sua fidanzata, né i suoi compagni di bevute.

Eppure era stato svenuto per mesi, era stato sotto i ferri dei chirurghi e degli ingegneri, si era svegliato per tante notti urlando e cercando di strapparsi i tubi di dosso, e alla fine si ritrovava sempre davanti a uno psicologo che gli chiedeva: “E come si sente, al riguardo?”

Lo psicologo non resisteva mai più di dieci minuti, perché prima Genji rispondeva in maniera sprezzante, oppure passava direttamente alle mani. Alla fine tutto quello che se ne cavava fuori era una cartella clinica lunga come l’elenco del telefono, e una diagnosi di forte squilibrio psichico con tendenza all’ira e alla distruzione.

Esattamente quello che a Blackwatch serviva. Ai bambini ribelli si consigliava la batteria, ai cyborg senz’anima si ordinava di uccidere.

E quello Genji lo sapeva fare benissimo. Era stato addestrato apposta.

Ma non poteva durare.

Le dita di Genji strinsero uno dei coppi di terracotta che segnavano la sommità degli spioventi del tetto, l’argilla si crepò sotto quella stretta d’acciaio.

Il vento cominciò a soffiare più forte, il burrone cominciava a ricordargli che era tardi, e bisognava cercare riparo: la notte himalayana non perdonava nessuno, neppure i cyborg.

Genji guardò verso l’alto. Gli avevano impiantato una cornea molto più potente di quella degli umani, vedeva stelle che non avrebbe mai pensato di vedere, con una definizione che non esisteva nemmeno negli schermi più potenti. Aveva pagato un prezzo, le sue iridi nere. A volte le rimpiangeva.

Il cielo non era ancora scuro, aveva una sfumatura che andava dall’arancione, a est, e finiva con un azzurro cupo e intenso a ovest, eppure Genji riusciva già a vedere stelle che gli altri umani non vedevano.

La Via Lattea era una lunghissima strada biancastra che tagliava in due il cielo. Presto, con il buio, sarebbe stata ancora più sfavillante. Costellazioni. Che costellazione c’era a quella latitudine, a dicembre? Genji non lo sapeva. Osservò l’Orsa Maggiore, ma le sue conoscenze astronomiche finivano lì.

Era Hanzo, quello bravo.

Hanzo, quello che studiava.

Hanzo, quello che lo uccideva.

Le dita metalliche spaccarono il coppo, le schegge schizzarono via e rotolarono giù dal tetto.

Gli occhi di Genji si serrarono per scacciare il ricordo.

Ad Hanamura era difficile vedere le stelle, splendida metropoli giapponese intrisa di sangue nelle sue viuzze più strette, con i negozi strangolati dal pizzo imposto dalla sua famiglia e i sicari che sorvegliavano ogni angolo di strada per minacciare i pusher delle famiglie rivali. Era bellissima, Hanamura. Una donna per cui uccidere e morire, ed era una cosa che succedeva spesso.

Il Nepal non poteva essere più diverso. Com’è che si chiamava, quel luogo? Quando era arrivato era così arrabbiato che non vi aveva posto attenzione, ma il villaggio era ormai lontano e quell’eremo non aveva nessuna targa, all’ingresso. Sembrava un’imperdonabile leggerezza, ma a Genji andava benissimo così.

Dove sei?

In Nepal.

In Nepal, dove?

Non lo so. Non lo voglio sapere. Non raggiungetemi, pensava il ragazzo.

«Oh. Eccoti.»

Era una voce che si accordava con la maestosa armonia del burrone.

La voce di quel maledetto monaco.

Genji non si mosse. Solo gli occhi corsero verso il bordo del tetto, dove sporgeva la testa dell’androide.

«Sapevo di trovarti qui.»

«Va’ via.» disse Genji, tagliente. «Non è il tuo posto.»

Zenyatta non sembrava impressionato. «Decisamente no.» rispose. «È un tetto. Non è nemmeno il tuo, di posto, a meno che tu non sia un passero.»

Genji sobbalzò come se gli avessero sparato un colpo in petto.

«Vattene.» sibilò.

Zenyatta invece si accomodò vicino a lui.

«Non mi hai sentito?» ringhiò il cyborg, aggressivo.

«Ti ho sentito.» mormorò il monaco. Espirò con tranquillità e, sotto gli occhi di Genji, assunse la posizione del Siddhasana, e dopo pochi secondi di assoluto silenzio si sollevò come tirato su da un filo invisibile e levitò a una ventina di centimetri dalle tegole innevate.

Era una cosa che Genji non era mai riuscito a spiegarsi, eppure era una delle poche cose che lo catturassero ancora come un bambino di otto anni.

Ma una volta finito l’incanto, con il monaco che meditava proprio lì, proprio in quel maledettissimo posto dove lui aveva una sua tranquillità, in Genji ritornò a montare la rabbia e cogitò di andare via.

Fermati., disse il burrone.

Genji rimase, obbediente come un cavallo alla cavezza. C’era qualcosa, in quel momento, che lo incatenava lì, e non lo faceva andare via.

Rimase con lo sguardo fisso nel burrone, nel vento che fischiava davanti a lui, nel freddo che gelava le povere piante che si erano arrischiate a crescere a quell’altitudine.

La notte cominciava a oscurare le cime dei monti; la neve si era tinta di rosa e di arancione al tramonto, ma era durato poco: l’ombra inghiottì le montagne a ovest, e piano piano il buio camminò fino ai piedi di Genji. Il burrone era diventato un gorgo oscuro, un abisso dove annegare le proprie follie.

La voce paterna cominciava ad affievolirsi.

«Vedo che ti è piaciuta.» prese all’improvviso la parola l’Omnic.

Genji sfiorò le frange della sciarpa, e non rispose.

L’aveva trovata quella mattina, davanti alla porta della sua camera. Come al solito la vista del pacchetto scintillante gli aveva fatto montare la rabbia, ma poi il ragazzo che era aveva vinto: si era guardato intorno, si era sincerato che nessuno lo stesse guardando, e poi aveva acchiappato il pacchetto e lo aveva imboscato nella sua stanza, richiudendo in fretta e furia la porta, nemmeno fosse stata una partita di droga.

Forse non si stava nascondendo dai monaci, che erano tranquilli e in generale si facevano i fatti loro, forse si stava solo nascondendo da se stesso. Fatto sta che aveva strappato via il fiocco, tagliato con uno degli shuriken lo scotch, strappato la carta, e aveva visto nel fondo della scatola una soffice sciarpa di lana, con quei colori natalizi che lì in Nepal scarseggiavano: verde del vischio, rosso della passione, semini bianchi come i chicchi di riso. Il tutto condito con degli scintillanti piccoli glitter che puntellavano il ricamo, e che in definitiva rendevano la sciarpa forse più adatta a una ragazzina che a un uomo. Ma a Genji piacque, la indossò e vide che spiccava piacevolmente, sul suo freddo e grigio corpo.

Sii ciò che sei. Questo è il primo passo per diventare migliore di ciò che sei”, recava scritto il bigliettino. Genji lo teneva stretto tra le dita; lo teneva nascosto sotto una delle placche del petto.

«È una frase di Julius Hare.» disse asciutto Zenyatta, osservando il volto di Genji. Aveva la celata dell’elmo abbassata, e non poteva dire di guardarlo in volto; ma del resto nemmeno Zenyatta aveva questa grande mimica facciale. Lui riusciva a essere empatico semplicemente ascoltando il tono di voce, la posizione dei corpi, l’aura che emanavano le persone. Il volto non era essenziale, e del resto bastava essere bravi attori per ingannare uomini e macchine.

Genji non aveva idea di chi diavolo fosse, e lo disse chiaro e tondo.

«Ne ero consapevole.» ammonì Zenyatta; poi continuò: «E non lo so nemmeno io.» ammise.

Il giovane si voltò di scatto. «Davvero?»

«So di non sapere.» disse filosoficamente il monaco.

Genji rimase in silenzio per qualche secondo a guardare l’espressione da sfinge dell’Omnic.

Poi cominciò a ridere.

Cominciò a ridere così forte, di cuore, che la sua risata riempì il buio del burrone.

Così forte che dovette togliere la placca che gli nascondeva il volto, e alla luce delle stelle comparvero gli occhi di Genji.

Zenyatta lo osservava. Era la prima volta che lo guardava in volto.

Le cicatrici.

Il rosso degli occhi.

Era un ragazzo singolare, di questo l’Omnic ne era convinto.

«Se vuoi, vado.» lo provocò con garbo.

«No, resta, matto.» continuò a ridacchiare Genji, dandosi un contegno. «Anche io ti ho preparato una cosa. Ma non ti aspettare molto, ok? Qui non ci sono molti negozi, mi sono dovuto arrangiare...»

I due pettorali si aprivano ad ante, come uno stipo da cucina. Idea di Moira, che aveva un senso dell’umorismo tutto suo, e che aveva sempre segretamente invidiato la capacità di alcune donne di nascondere oggetti nel reggiseno.

Nello stipo di sinistra c’era un piccolo involto di stoffa rossa, lana cotta, legato con un doppio spago di canapa che gli dava un’aria di altri tempi. Genji lo prese a due mani, con cura, e lo porse all’Omnic.

Zenyatta lo accolse tra i suoi palmi, confuso, e poi per proteggere ancora di più quel tenero involto lo coprì con la mano destra, come un pulcino caduto dal nido.

Genji si grattò la nuca, come era abituato a fare quando era umano, e distolse lo guardo. «Ecco, non avevo idea di come fare, quindi sono rimasto sul facile.»

Poi si rese conto che in mano aveva la celata del suo elmo, che il suo volto era scoperto, e si affrettò a rimetterla al suo posto.

Il monaco, con estrema delicatezza, tirò il piccolo nodo e la stoffa si aprì fra le sue mani.

Un uccellino di legno.

Un piccolo, minuscolo, tondeggiante uccellino di legno.

Intagliato con sforzo e dedizione. Imperfetto, con le ali chiuse, nudo nel suo legno e ancora profumato di resina.

«È un uccello piccolo…» spiegò Genji. «Non so ancora intagliare le ali aperte.»

«Non fa niente.» rispose Zenyatta. «È un passero destinato a grandi cose. Un passo alla volta.»

I due rimasero lì, a non dirsi niente, con la sciarpa di lana e il passerotto di legno. Tutti e quattro guardavano la notte cadere e avvolgere le pietre del villaggio, con il vento che fischiava e il burrone che, placidamente, dormiva con un profondo respiro di ghiaccio.

Genji sapeva che era una pace momentanea, e appena sarebbe sceso dal tetto sarebbe ritornato il senso di rabbia, la frustrazione, il risentimento e l’odio. E non sarebbero bastate le belle paroline pulite del monaco, a tirarlo fuori da quel vortice.

Zenyatta non si preoccupava. Tutto scorre, dicevano gli antichi, e i fiocchi di neve non sono mai gli stessi, aggiungeva lui. Ascoltava il vento e meditava nel buio, sotto le stelle, accanto a quel povero giovane cyborg.

Poi si alzò, e gli tese una mano. Genji la rifiutò quasi sprezzante, salvo poi trotterellargli dietro appena l'Omnic fu sceso dal tetto, e insieme si incamminarono nel vento e nel bianco verso la piazzetta del villaggio.

 

 

Dietro le quinte...

Ops! Eccomi qui! Dopo troppo tempo di fermo, Santa Lucia mi ha riportata su questi lidi!

Grazie per aver letto questa storia piccola piccola. Non mi aspettavo di scrivere di Genji e Zenyatta, ma personalmente adoro la rabbia di Genji nel periodo pre-post Blackwatch, e il suo peregrinare per il mondo, quindi eccoci qui.
Buona Feste a tutti e grazie ancora ♥

Yellow Canadair

ps. tornerò a scrivere di One Piece, davvero.
 

 

 

  
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