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Autore: L_White_S    14/12/2019    0 recensioni
" Non sempre gli angeli nascono con le ali "
Quando i nazisti portano gli ebrei nel campo di concentramento di Auschwitz, il loro scopo non è solo quello di ucciderli…
Quando il re inglese attacca la Francia per riprendersi il trono, la guerra “dei cent’anni” diverrà il pretesto per celare le vere motivazioni del conflitto. Ma cosa hanno in comune questi avvenimenti storici?
Ice – il protagonista – è un ragazzo che si sveglia in un laboratorio ultratecnologico senza memoria. Gli esperimenti condotti lo hanno privato dei ricordi e solo dopo un accurato incidente, studiato – se vogliamo – inizia finalmente a trovare nel buio della sua mente quei flashback che faranno riaffiorare la verità, oltre che la luce.
La saga inizia con la ricerca delle origini di uno “dei dieci”, con un debutto fenomenale.
Si introdurranno domande che sorgeranno spontanee al lettore, quali la nascita del conflitto delle parti, sia di esseri
sovrannaturali che non, e di quanto possa un amore condizionare la vita…
Ice, durante il viaggio dettato dai ricordi, scoprirà una visione demoniaca che lo perseguiterà per tutto il tempo, manovrandolo come un burattino. Ma perché accade questo?
L’amore potrà riportarlo sulla retta via, perché la strada del male, è solo un bivio…
Genere: Fantasy, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CAPITOLO  0





1942
   



Oggi, dopo un viaggio di quindici giorni, sono giunto a destinazione. 
   Il mio nome è David e se mai qualcuno leggerà questo diario, vorrà dire che sono morto.
   Ci avevano detto che avremmo trovato riparo, una casa, un lavoro; dopo un solo giorno posso scrivere con convinzione, fermezza ed odio, che ci hanno mentito…
   Poche ore fa ho perso la mia famiglia e la brutalità del loro addio mi perseguiterà per tutto il resto della mia sfortunata vita.
   Eravamo saliti in duemila, forse, su un treno merci diretto in Polonia, con la stupida convinzione, inculcataci da quel regista di cui non ricordo il nome, di trovare una patria, una casa, un habitat… sì, perché agli occhi di quegli uomini forse siamo solo animali.
   In due settimane, da poco meno di duemila ci ritrovammo in poco più di mille. Il viaggio senza sosta era interminabile, il nostro calvario. Il vagone era stracolmo di gente, così pieno che solo dopo qualche decesso fu possibile muoversi, ma ovunque camminavo, calpestavo qualcuno, delle volte i vivi, il più delle volte i morti. Non si mangiava, non si beveva, il bagno era un angolo del vagone dove tutti, uomini, donne e bambini superavano la loro vergogna snudandosi e cercando, per quanto possibile, di venire incontro ai propri bisogni… ma già dopo quattro giorni, la puzza, gli escrementi e persino i vecchi, erano sparsi ovunque.
   Faceva freddo, e anche se la vecchia valigia di papà trasportava i nostri vestiti più caldi, se mai l’avessimo aperta, saremmo stati attaccati da un branco di bestie assatanate in cerca di calore…
   Ma non siamo animali.
   Quando chiudo gli occhi, qui nella mia nuova casa, fatta di legno e di fango, proprio ora, mentre scrivo, mi sembra di vivere la morte di mia sorella, di mia madre e mia nonna… tutti qui hanno perso i loro cari e presto li raggiungeremo anche noi.
   Non so che giorno sia ma stamane, quando il sole era già alto nel cielo, ho potuto avvertire che era mezzogiorno o giù di li… finalmente eravamo arrivati… ma a pensarci bene, sarebbe stato molto meglio non arrivare; sceso dal convoglio ho visto più di cinquecento persone di fianco a me, decine di soldati ci hanno aiutato a lasciare quell’insulso treno poggiandoci delle passerelle in legno, sembravano educati, ma stavano solo velocizzando lo scarico delle merci.
   Un uomo, forse il comandante, disse qualcosa a tre dei suoi: la lunghissima fila di passeggeri fu divisa in due tronconi, gli uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra. Ricordo che mamma, spaventata, mi prese la mano fin quasi a stritolarmela, non voleva lasciarmi, ma quando l’uomo con il fucile puntato si avvicinò, fu colta dal panico e capì che quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe visto.
   Nonostante non fossi adulto, stranamente, quel dottore iniziò a dividerci per l’ennesima volta, classificandomi come idoneo… idoneo per cosa? Nessuno a quanto sembra lo sa. 
   Il campo sterminato si stagliava d’innanzi a noi e le altissime recinzioni sembravano muri invalicabili; non potevamo scappare da nessuna parte. Quando la visita terminò, le donne furono condotte in un lato del campo opposto al nostro, accompagnate verso un casolare più giù di dove stavamo noi. Mio padre aveva paura, lui che non mi ha mai mostrato timore, lui che per me era sempre stato un idolo, ora piangeva, piangeva come la mamma. I nostri bagagli furono scaricati da altri uomini, erano visibilmente scossi, esausti, impauriti e nessuno di loro osava aprire bocca. Portavano un leggerissimo pigiama a righe nere con impressi sopra dei numeri… presero le nostre cose e dopo qualche minuto le portarono tutte via.
   Alcuni anziani, insieme a uomini di età più avanzata, furono scartati nuovamente, gli era stato detto che avrebbero dovuto fare la doccia, in realtà serviva a tutti un bel bagno, accompagnato magari da un bel pasto caldo, ma solo ora mi rendo conto, che di doccia non si trattava minimamente.
   Fummo portati in un edificio basso, squadrato, in cui alcuni bagni la facevano da padrone, il resto era una sala d’attesa, come quelle che si vedono nelle cliniche, noi eravamo in fila, come per prendere il pane al mercato, e aspettavamo il nostro turno: arrivato il mio fui costretto a consegnare abiti, biancheria, la collanina regalatami da mia sorella e i documenti d’identità. 
   Ancora troppo piccolo però saltai la procedura, lasciando indietro mio padre.
   Mi era stato vicino per tutto il tempo e ora, giunti al barbiere, quei dieci metri che ci separavano, affollati, si trasformarono in chilometri; io non avevo ancora né peli, né barba, quindi saltai anche quest’ultima e fui direttamente rasato a zero. Il freddo era così rigido che da quel momento, le orecchie si trasformarono in pezzi di ghiaccio… non ho la forza di toccarle o massaggiarle… ho freddo.
   Mi fu dato un foglio da compilare con il nome e i vari dati personali; mi vestii con quel leggerissimo pigiama a righe e fui marchiato, numerato…
   1312467228, ora questo è il mio nome nel campo.
   Ne avevo uno cucito sulla gamba destra dei pantaloni, uno sul lato sinistro della casacca all’altezza del torace, ed uno tatuato sull’avambraccio. Non ho mai amato l’inchiostro che già a scuola i miei compagni mi spargevano sulla pelle per dispetto, e ora che non posso lavarmelo via, ho voglia di staccarmi l’intero braccio. Li odio, li odio a morte.
   L’immenso Auschwitz, come lo chiamano qui, è diviso in vari settori, io qui credo di esser capitato con dei tedeschi e non capisco nulla di ciò che dicono, ma quella scritta, Arbeit Mach Frei, l’avevo sentita nominare da quel regista, il lavoro rende liberi, ma nessuno, compreso il sottoscritto, dopo averla letta, ne aveva dato importanza…ora… ora so cosa significa.
   Terminate le pratiche fummo scortati al centro del campo, dove già centinaia di persone si spaccavano la schiena scavando, scavando e scavando, erano zuppi di fango e urina, l’acqua piovana aveva impregnato ancor di più le fosse dove in condizioni disumane si lavorava senza sosta per quasi tutta la durata del giorno…
   Mi hanno detto che oggi ho passato la giornata più leggera della mia prigionia, solo sei ore ho trascorso con la pala in mano, ma domani sarà peggio… lo so.
   Proprio ora mi è giunta voce che forse mia madre, mia nonna e mia sorella sono morte, la mia speranza adesso è solo quella di rivedere mio papà, magari domani, tra il fango… sarebbe bellissimo…
   In ogni caso, mi chiedo a cosa possa servire un buco profondo più di trecento metri… forse per i cadaveri? Se è così, spero di entrarci presto… nel frattempo prego Dio, sperando che allevi il mio, come il dolore dei miei compagni di baracca, spalancandoci il prima possibile le porte del paradiso…
   
 
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