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Autore: wanderingheath    15/12/2019    0 recensioni
Clara attende da mesi che la Fortuna bussi alla sua porta, sperando in un colpo improvviso, in un campanello di novità. In un'umida serata primaverile, però, a bussare alla porta di casa è soltanto Arturo e non preannuncia alcunché di buono.
Infatti, Irene sembra scomparsa nel nulla.
Senza un messaggio, una telefonata, una lettera, un post-it: niente.
Nella vita caotica e confusa di Clara, ancora intenta a ricomporre i pezzi della propria esistenza, la questione passerebbe in quarto piano, ma l'insistenza di Arturo la porta a cedere.
Imbarcatasi quindi in un'assurda avventura ai confini del reale, del mondo concreto e conosciuto, alla disperata ricerca dell'ex coinquilina ed amica, Clara sarà costretta a mettere in discussione la fredda razionalità che l'ha finora guidata.
Se c'è qualche possibilità di salvezza o redenzione, per sé e per Irene, dovrà cercarla dall'Altra Parte.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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II Parte
 
 
 
 
Clara guardò incredula il proprio compagno.
Arturo aveva ormai abbandonato ogni tentativo di svignarsela. Adesso si rigirava i pollici a capo basso, simile ad un cane da compagnia rimproverato.
Il vento cresceva esponenzialmente, mentre i mulinelli di fogliame e terriccio venivano vomitati sulla gradinata di marmo. Alle spalle di Arturo, Clara vedeva il giorno sgretolarsi in un temporale latteo, un foglio bianco su cui scatenare la tempesta in arrivo. Era aria da ciclone, quella.
Sentì la rabbia montarle dentro.
«Tu… lo sapevi?»
«Ecco, io…» Il ragazzo cercò qualsiasi difesa a cui appigliarsi, una scappatoia in cui infilarsi e defilarsi.
«Stecca, come hai potuto tenermelo nascosto?»
C’era una venatura che incrinava le parole di Clara, come accadeva ogni volta che alzava la voce. In molti faticavano a rimanere seri davanti alle sue sfuriate. Il tono s’impennava, toccava un acuto, per poi schiantarsi e morire nel silenzio. Ma nell’aggressività che lampeggiava negli occhi torbidi, Arturo non trovò nulla di divertente.
«Piombi qui, in casa mia, a pretendere aiuto, a fare il paladino dei più deboli, e non mi dici che Irene ha perso sua nonna? Ma poi,» Clara si riassestò una ciocca fastidiosa, «con che faccia fai la ramanzina a me? Mi hai davvero delusa.»
Lui optò per uno schermo di affermazioni con cui confonderla.
«È successo da poco, non ne ha voluto parlare con nessuno – sai Irene quanto è riservata – e mi ha chiesto di non rivelare nulla. Io ne ero a conoscenza solo perché non è voluta partire da sola», sputò in fretta.
Clara stava avanzando minacciosamente verso il ragazzo, che a propria volta arretrava intimorito, ma si bloccò, rimasta di stucco.
«Partire da sola? Che intendi?»
La conversazione venne interrotta dall’apparizione della portinaia. Propose di farli salire, se erano stati incaricati di portare via qualcosa per conto della famiglia Zanetti.
Arturo fece segno di no con il capo, scusandosi per il disturbo. Dovevano rincasare.
«No.»
Clara lo fulminò all’istante. Con estrema lentezza, scandì: «Certo che vogliamo salire».
L’appartamento si trovava al primo piano, arrampicato su di una scala stretta e malconcia; l’intonaco delle pareti era sgretolato qui e lì, specialmente attorno al basamento. La signora, che aveva abolito qualunque tipo di presentazione, iniziò la propria scalata con ritmi distesi.
Gli altri due la seguivano lungo la spirale in silenzio, recependo qualche sospiro e sforzo strozzato, tra una bestemmia e l’altra.
Clara non riusciva a credere che Irene le avesse tenuta nascosta una notizia del genere.
Scalino dopo scalino, la sua perplessità aumentava, insieme al fragoroso rancore che le tuonava nella cassa toracica. E, in tutta quella faccenda, ciò che la innervosiva oltre ogni ragione era la presenza di Arturo.
Aveva chiesto ad Arturo di tenerle compagnia, quando lei abitava lì, in città, praticamente dietro l’angolo?
Arturo con cui passavano il sabato sera, quando non avevano progetti migliori; Arturo che s’infiltrava in ogni progetto pur di stare accanto alla sua adorata Irene; Arturo, Stecca insomma – Stecca e basta – che entrambe consideravano un fanalino di coda, nella sgangherata comitiva che avevano formato.
Ed eccolo, ora, il caro Arturo, concentrato a sorridere alla portinaia nel farsi aprire la serratura, nel rifilarle una bugia per poter accedere ad un appartamento in cui sarebbero stati due estranei.
Degli infiltrati, a tutti gli effetti.
Clara dovette mangiarsi le mani, per resistere all’urgenza di strozzarlo.
«La ringrazio, ci vorrà pochissimo.»
Pizzicò il ragazzo per un’orecchia, tirandolo oltre l’ingresso, mentre l’anziana socchiudeva l’uscio, rimanendo in attesa sul pianerottolo.
«Tu», sussurrò a denti stretti, «adesso mi spieghi tutto, per filo e per segno.»
Il giovane piagnucolava. «Sì, sì, adesso ti racconto tutto, ma lasciami. Mi fai male.»
L’altra a malincuore dovette ubbidire, approfittandone per guardarsi attorno.
Per quanto la signora Zanetti si potesse essere impegnata, in vita, nel tenere gli ambienti puliti ed ordinati, adesso vi regnava solo un immobilizzante silenzio, coperto da strati di polvere. Clara lasciò scorrere un dito sul bancone posto all’ingresso, disegnando una linea retta in mezzo ad un mare cinereo.
L’unico corridoio si diramava nelle stanze principali, prime fra tutte cucina e salotto, collegate da un’ampia arcata. Il pavimento del salotto era ingombrato da scatoloni, residuo forse di un trasloco. D’altronde, da quanto ricordavano entrambi, il padre di Irene trascorreva molto più tempo fuori casa che in famiglia.
Particolare stonante, rispetto alle condizioni di abbandono: le serrande per metà alzate.
Spostandosi nel salotto, Clara notò la quantità di pizzo che gettava ombre sui mobili. Una tendina in particolare catturò la sua attenzione: cadeva sulla finestra, intarsiata da ricami e chiaroscuri, simile ad una mano morta. Anche l’incerata gettata sul divano, quasi ad inglobarlo, a nasconderlo, le ricordava la scena di un crimine. O una stanza mortuaria.
«Allora?»
Arturo prese un respiro profondo. «È iniziata lo scorso mese», cominciò.
«La notizia della morte della nonna, l’ha presa abbastanza… bene. Almeno in apparenza.»
Clara, appoggiatasi ad uno sgabello, allacciò le braccia al petto. Stava lottando contro la volontà di interromperlo e aggredirlo nuovamente, per non averle partecipato il lutto. Dal momento che non poteva confrontare Iene direttamente, Stecca avrebbe costituito un ottimo capro espiatorio. Riuscì a trattenersi. 
«Gliel’ha detto il padre. Al funerale non avrebbe voluto neppure presenziare, ma sarebbe stata una mancanza di rispetto, immagino.»
L’altra annuì. Irene non era il tipo da grandi occasioni.
Le ripeteva di continuo quanto non tollerasse le cerimonie: non era in grado di fingere per il bene comune, per la reciproca convivenza; finiva sempre per sentirsi fuori luogo, qualunque fosse la circostanza.
«Avrebbe dovuto farsi un lungo tragitto fino a qua. Io non guido, lo sai, però volevo che non si sentisse sola, in pullman. Così, mi sono offerto di partire con lei.»
Si strinse nelle spalle, un velo di malinconia ad appesantirgli lo sguardo. «Era tutto ciò che potevo fare.»
Arturo intanto si era inginocchiato accanto ad uno degli scatoloni. Sopra di essi risaltavano etichette e nastro adesivo da imballaggio; alcuni recitavano “fragile” stampato in rosso.
«Specialmente, dopo la discussione con Sienna.»
Clara drizzò il capo, perplessa. «Con Sienna?»
«Mh-mh», mugugnò l’altro. Sfiorava la chiusura di un paio di box, più per distrarsi e raccogliere i pezzi del discorso che per reale interesse. Non si sarebbe mai permesso di aprirli, senza il consenso dei proprietari. La portinaia era stata incauta a lasciarli entrare e il giovane si chiedeva se l’avesse effettivamente riconosciuto, poco prima, o si fosse trattata di una coincidenza favorevole.
«Quale…»
La ragazza si schiarì la voce. «Quale discussione con Sienna?»
«Oh, non lo sai?»
Il tono di Arturo appariva semplicemente stupito. Nessun’ombra di rimprovero o derisione; puro e semplice stupore. Clara realizzò che il suo amico fosse l’ultima persona genuina che conosceva sulla faccia della terra. In Arturo niente era montato, artificioso; era incapace di nascondere un’emozione, di macchinare alle spalle altrui. Era se stesso, nudo e crudo, con il proprio mantello di difetti, imperfezioni che non temeva di nascondere davanti agli altri.
La ragazza scosse il capo, recisa.
«È successo prima del funerale, quando Sienna è tornata in Italia per un breve periodo.»
Irene gliel’aveva narrato in pullman, quell’episodio, parlando a bassa voce, in un tono sussurrato che di rado utilizzava. Ricordava le sbarre luminose che i lampioni proiettavano sul suo viso, rendendolo una strana grata di ombre e calore, mentre l’autostrada scorreva placida fuori dal finestrino, segmentando il paesaggio in una miriade di spezzoni.
L’aveva raccontato tutto d’un fiato, senza interrompersi, con i grandi occhi sperduti inchiodati oltre il vetro, richiamandogli alla mente l’immagine di un cerbiatto.
Bellissima, nel suo maglioncino scuro di lana, la cascata di ricci e ondulazioni sbilenche a gonfiare il volto affilato. Riferiva i fatti con la calma tipica di chi si è rassegnato ad un dolore ben conosciuto, ma impossibile da contraddire o sbaragliare del tutto. Pareva covarlo dentro di sé, tenendoselo legato al petto accanto al ciondolo che indossava spesso, oppure celato come una cicatrice: una parte indissolubile del suo essere.
Gli stava spiegando perché volesse tacere il funerale della nonna anche a Sienna, che aveva conosciuto l’anziana personalmente, molti anni prima, e nell’occasione era emerso un particolare rinvenimento.
Il conflitto era esploso per strada, in piena notte. Stavano tornando da una serata fuori città in compagnia di alcuni sconosciuti incontrati ad un pub. Erano da sole nell’auto di Sienna; una pioggiarellina tenue e rapida picchiettava sul parabrezza. La guidatrice aveva attivato i tergicristalli, alzando il volume di una canzone che entrambe cantavano fin da piccole.
Irene non gli aveva fornito ulteriori dettagli sull’accaduto. A suo dire, all’improvviso si era sentita attanagliare il petto da un senso di soffocamento, da un terribile spandersi d’aria bollente nei polmoni.
«Ferma. Ferma la macchina, Sienna.»
Ma l’altra l’aveva guardata come se fosse impazzita. «Che succede? Non ti senti bene?»
Non riusciva ad aggiungere altro, sotto le lacrime che le imbrattavano la camicia e i singulti incontrollati. Singhiozzava quelle uniche tre parole, sbattendo i pugni contro l’intelaiatura della macchina.
Ad Arturo l’aveva descritto come un moto incontenibile di agitazione, l’ebollizione di viscere, scheletro e sangue tutt’insieme; aveva sentito che, se non fosse scesa all’istante dal veicolo, i pensieri le sarebbero schizzati dalle orbite oculari.
Con le mani si era aggrappata ai propri vestiti, scorticandosi la pelle.
«Ferma. La. Macchina.»
«Non posso fermare qui, in mezzo al nulla, Ire.»
In sottofondo, il ticchettio proveniente dal quadro strumenti si miscelava alla voce melodica di Battisti.
«Ma ti ricordi le onde grandi e noi, gli spruzzi e le tue risa? Cos’è rimasto in fondo agli occhi tuoi?»
Aveva smesso di cantare, Irene.
Tutt’intorno a loro, si snodava il nulla della statale, poco prima dell’approdo in città.
Alla fine, Sienna aveva dovuto tagliare la strada ad un camion, rischiando di cozzare contro un motociclista, tra le proprie urla e quelle di Irene, che ad occhi chiusi si otturava le orecchie, pronta allo schianto finale.
«Ha accostato», gli aveva comunicato Irene, lasciandolo senza parole. «A quel punto, siamo scese entrambe dall’auto e lei ha preso ad urlarmi contro, a dirmi che ero impazzita.»
La pioggia, aumentata d’intensità, si era trasformata in un acquazzone.
«Allora l’ho odiata ancora di più.»
Con il mento piegato sul petto, Irene aveva ammesso: «Io volevo solo che non partisse di nuovo».
Da quel punto in poi, era degenerata.
Sienna l’aveva minacciata di mollarla lì, perché non aveva intenzione di proseguire il viaggio con lei in quelle condizioni, mentre l’amica si sbracciava e liberava dei capelli che il vento le incollava al viso.
«Vattene, allora! Vai via, come fanno tutti, come fai di continuo.»
Tra il pianto violento e gli accessi di tosse, Irene si era gettata in ginocchio sull’asfalto, macchiandosi i jeans di terriccio e chiazze verdastre. Gli sportelli della Panda erano rimasti aperti, rigurgitando il flusso di musica dello stereo ancora acceso.
Sienna le si era accostata come avrebbe fatto con un animale ferito, che avesse appena investito.
«Ire, ma che ti prende?»
«Sei appena tornata e già vuoi ripartire.»
Le aveva anticipato del biglietto di sola andata per il Tibet, acquistato alcuni mesi prima.
«Ma è una vita che sogno di andarci! E poi, non potrei neanche farmi rimborsare le spese.»
Lhasa era una delle mete del cuore, che coltivava nel proprio immaginario da quando aveva sette anni e ne aveva scoperto l’esistenza su di un libro di geografia.
Collocatala sul planisfero, si era messa in testa che un giorno avrebbe visitato quella città. Poi, crescendo, anche il progetto si era espanso con lei e aveva finito per abbracciare diverse sezioni del Tibet.
«Lo so» era stata la replica dell’amica, ancora incapace di rimettersi in piedi. «Ma non voglio che tutto questo finisca. La musica, i sabato sera fuori città, i tuoi ritorni… sono le ultime cose che ci rimangono, capisci?»
Sienna aveva annuito, senza capire un bel niente, ma cercando di aiutarla a rialzarsi. Irene era una piuma, eppure la resistenza opposta aveva minacciato di trascinare tutte e due sul cemento. Con uno sforzo notevole, erano infine tornate, fradice, nell’abitacolo riparato e con molta calma – forse nella maggiore prova di sangue freddo che la vita le avesse richiesto – Sienna aveva riportato entrambe a casa, sane e salve.
Il racconto era stato interrotto in quel punto.
Clara preservò l’atmosfera di quasi sacrale silenzio, che adesso saturava le pareti della stanza.
Non sapeva come sentirsi, né cosa pensare o aggiungere. Di certo, non si sarebbe aspettata una reazione simile da parte dell’ex coinquilina. Scoppi emotivi, a volte, ne aveva avuti, ma mai tali da mettere a repentaglio la propria, o l’altrui, incolumità.
Preso dal racconto, Arturo non si era accorto di aver aperto uno degli scatoloni. Un semplice moto istintivo, forse per canalizzare altrove il proprio disagio.
«Oh, accidenti», gli sfuggì. «Ho rotto lo scotch.»
Si stava già impegnando a rivoltare lo scatolone, in cerca di una rapida e indolore soluzione al problema, quando Clara si accosciò sul pavimento accanto a lui, bloccando ogni tentativo.
Lateralmente, sul cartone era stato annotato con un pennarello scuro: CD/cassette.
La ragazza fece scivolare una mano all’interno dell’imballaggio.
«Clara, aspetta. Che fai? Sono cose private.»
Una scrollata di spalle. «Rimarrà tra di noi.»
Arturo scattò in piedi, allontanandosi dallo scatolone, come scottato. Ribadiva ossessivamente che non gli piaceva affatto, tutta quella storia, che non voleva immischiarcisi.
«Stecca. Stecca, calmati», gli ripeté lei, con tranquillità. «Ci siamo già dentro, non so se te ne sei accorto.»
Con un cenno abbracciò l’intera stanza, il corridoio e le camere attigue, che restavano mute, placide. Morte.
«Bene», annuì lui. «Ma mi rifiuto di diventare complice di questa violazione della pri…»
«Stecca?»
Gli lanciò un’occhiata eloquente, che spegneva sul nascere qualsiasi replica. «Chiudi il becco e aiutami.»
C’era una quantità di videocassette, tra carta e polistirolo, impilate le une sulle altre e prive di involucri. Alcune apparivano smembrate, con i nastri sfilacciati in bella mostra o intrecciati in nodi saldi. Carcasse eviscerate: ecco cosa ricordavano.
I due amici si misero a frugare per un tempo indefinito, mentre dalla finestra si andavano spegnendo gli ultimi bagliori lattei e l’aria di tempesta si scontrava contro il vetro, facendo sbattere le imposte.
Chiunque avesse svolto quell’operazione di riciclo, doveva averlo fatto con una trascuratezza avvilente, ammassando insieme registrazioni, cd musicali, film e pellicole in VHS.
Se la signora Zanetti fosse stata presente, avrebbe diretto le operazioni in modo decisamente diverso, seguendo un razionale ordine interno; con la stessa cura con cui innaffiava i poveri fiori marciti in cucina.
D’improvviso, la voce di Clara fratturò la quiete. «Questo cos’è?»
Passò una minuscola videocassetta ad Arturo, che prese ad esaminarla a fronte aggrottata.
«Sembrerebbe,» tentava di leggere l’etichetta dall’inchiostro sfumato, «roba della Disney.»
Le mostrò il celebre logo con l’indice.
Un mangiacassette dell’86 dormiva in un angolo della libreria, che occupava una parete intera. Seppellito tra riviste di cucito, libroni sul giardinaggio ed enciclopedie risalenti ai primi anni novanta, manteneva il poco spazio residuo senza protestare.
Clara si trascinò fino al mobile, soffiando via uno sbuffo di polvere.
«Scopriamolo.»
Lo stereo fece le bizze, inizialmente, rifiutando i comandi d’accensione ricevuti e vomitando la cassetta per diversi tentativi. Al sesto o settimo, tuttavia, una parte della colonna sonora della Sirenetta venne snocciolata. Clara guardò il proprio amico, entusiasta. Le pareva di aver rimesso in funzione chissà quale reliquia. «E non si rischia di affogar. No, non c’è un amo in fondo al mar.»
Il tripudio di strumenti esplose in coro, mentre Arturo riassumeva l’atteggiamento diffidente di poco prima.
Che fine aveva fatto la portinaia?
Si era forse scordata degli ospiti inattesi oppure aveva capito che si trattava di intrusi ed era andata a chiamare rinforzi, bloccandoli lì dentro?
Preoccupazioni simili non sfioravano affatto la sua compagna, che al contrario era ipnotizzata dall’oggettistica con cui gli Zanetti avevano riempito i vuoti nella libreria.
Vi erano riproduzioni di elefantini, tartarughe e cani in gran quantità, appaiati ad un portagioie arrugginito, un orologio in miniatura tuttora funzionante e tante, troppe, cianfrusaglie.
La sua attenzione, però, fu catturata da una fotografia. All’interno di una cornice opaca, erano ritratte la signora Zanetti in persona – alleggerita di almeno una decade – assieme alla nipote.
Irene doveva aver avuto poco più di sette anni, al momento dello scatto.
L’effetto seppia omogenizzava i volti all’ambiente, unificandoli in un vortice color pesca.
«Clara, forse adesso è il caso di andare.»
Irene stava in braccio alla nonna, nel proprio costume natalizio, retaggio di una recita scolastica – o qualcosa di simile – di cui conservava un buffo cappellino da elfo, sul capo.
Un sorriso a trentadue denti, così puro e genuino, che Clara non le aveva mai visto in volto.
«Che c’è di bello, poi, lassù? La nostra banda vale di più.»
La risata di Ronny Grant fece traballare le mura.
«Clara, dico sul serio.» Arturo scrutava con preoccupazione il buio pesto che li attendeva, fuori dall’abitazione. Un improvviso senso di gelido terrore gli risalì la schiena, provocandogli un tremito.
«Andiamo. Non so perché, ma questo posto inizia a mettermi i brividi.»
C’era qualcosa, negli occhi della matrona Zanetti, di vagamente spettrale. Clara era sicura che non fosse legato esclusivamente alla notizia della sua recente scomparsa.
«Ogni lumaca si fa un balletto, in fondo al mar.»
La montatura di corno rifletteva il flash della macchina fotografica, immortalandola in una posa troppo… avvinghiata. Clara sentì pulsare le tempie. Non si spiegava cosa le stonasse, in quel quadretto familiare ed affettuoso, eppure c’era qualcosa che la turbava.
«E tutti quanti ci divertiamo…»
Le dita scheletriche della Zanetti trattenevano la stoffa del tutù di Irene, mentre la ragazzina sventolava una stella filante sotto al naso, trionfante. La defunta sorrideva a propria volta.
«…qui sotto l’acqua, in mezzo al fango…»
Ma quel sorriso celava frammenti di tirannia, di possessività.
«Ah, che fortuna, vivere insieme…»
Con quel sorriso, la signora Zanetti ringhiava all’obiettivo.

«…IN FONDO AL MAAAAAR.»
Come da copione, il brano si spense sulle note finali, nella chiusura sugellata dalle trombe.
Qualcuno aveva bussato alla porta.
La musica si era interrotta nello stesso istante.
Per un soffio, Clara non fece precipitare la cornice al suolo. Con una mano stretta al petto, riprese fiato.
Fu Arturo a biascicare uno stentatissimo: «S–sì?»
La portinaia urlò qualcosa sul troppo tempo trascorso. Ne avrebbero avuto ancora a lungo?
«No. Arriviamo.»
 
 
 
 
 
La stufa era accesa.
In via del tutto eccezionale e forse non per il freddo.
L’appartamento di Clara, infatti, a fronte di tante pecche, poteva contare su di un isolamento formidabile. Era sufficiente accendere qualche minuto il forno, per riscaldare le altre stanze.
Arturo se ne stava sdraiato sul divano, per metà riparato dal plaid rifilatogli per la notte.
Della valigia in salotto non si era dato pensiero; ne aveva estratto lo stretto necessario e lasciato il resto schiacciato nel borsone.
Clara fece capolino dall’angolo cottura.
Non avevano trovato espressioni adatte a spiegare quel che era avvenuto nell’abitazione della Zanetti.
Il semplice pensiero era stato messo all’indice, di comune accordo.
Prese posto accanto a Stecca, senza spiccicare parola.
Soltanto a seguito di una lunga pausa, ebbe il coraggio di ammettere: «Abbiamo sbagliato».
«Sì,» l’altro assentì vigorosamente, «decisamente sbagliato. Grosso errore, anche.»
«Invadere gli spazi della signora Zanetti, quelli del figlio e di Irene stessa. Non avremmo dovuto.»
«Te l’ho detto che detestavo l’idea.»
Clara recuperò il cordless dal tavolino. Un sospiro le sollevò e abbassò il petto scarno.
Poi, con decisione, decretò: «Chiamo la madre».
Arturo sgranò gli occhi, allibito. «Cosa?!»
«Non credere che sia stata una scelta facile,» lo ammonì lei, «ci ho riflettuto a lungo. Penso che sia la decisione migliore.»
«Forse per scatenare la terza guerra mondiale. Clara, ma che ti sei messa in testa?»
L’altra scattò, colpendo il ripiano di legno con il telefono. «Io? Sei tu a voler fare il Don Chisciotte della situazione, Stecca.»
Aveva iniziato a comporre il numero, quando l’amico si tuffò dal divano e la bloccò, avvinghiandole le gambe. Strusciando sul tappeto, avvoltolato nel bozzolo di plaid, la stava implorando di riflettere.
«Sei sempre tu quella razionale. Pensaci un attimo: la madre di Irene non è il massimo dell’affidabilità.»
«Ma magari lei sa dove si trova Irene. È la figlia, dopotutto.»
Con un calcio, tentò goffamente di liberarsi del proprio fardello. «E mollami, Stecca!»
Il ragazzo fu costretto a rinunciare. Rotolò accanto alla poltrona, sbattendo il capo contro uno dei braccioli.
La blanda giustificazione giunse come un decreto ufficiale: «Non ho soluzioni migliori».
«Io sì, però.»
Una frazione di secondo e il cordless rimase sospeso in aria.
Clara si voltò verso l’amico, guardinga. «Cioè?»
«Nicola.»
Lei misurò le parole con ulteriore prudenza. «E cosa può fare, per noi, Nicola?»
«Può darci una mano. E un alloggio transitorio.»
«A Padova?»
L’altro annuì, massaggiandosi la testa. Un piccolo bozzo stava indubbiamente già spuntando sul punto della colluttazione.
«Non credo che abbia voglia di ospitarci», fu la replica asciutta. Era tornata al monitor del telefono, riproducendo il codice a memoria. «E poi, io detesto richiedere favori.»
«Lo so.» Arturo lanciò la coperta lontana da sé, districatosi dalle frange.
«Per questo gliel’ho già chiesto io.»
 
   
 
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